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Gerusalemme, Pasqua di dolore

I giovani la pensano così. I giovani hanno avuto uno scambio di esperienze con i coetanei palestinesi di una parrocchia greco-cattolica di Ramallah, The Holy Family Church. «È impossibile parlare di pace fino a quando ci sarà l’occupazione», dice Albeit, 24 anni, lavora in banca. «Non riusciamo ad avere una vita normale, non possiamo pianificare la giornata. Viviamo al momento». «Non abbiamo bisogno di parole ma di azioni», aggiunge Kalil, 26 anni. «Tornate nelle vostre comunità e parlate di quello che avete visto. Molti in Europa non sanno neanche che qui ci sono cristiani». La realtà dei kamikaze, i giovani palestinesi che si fanno saltare, li tocca da vicino. «È l’unico modo che i palestinesi hanno per difendersi, usare il proprio corpo», dice Charlie. «Spesso è il disagio, la povertà, l’assenza di prospettive a spingerli verso questi gesti estremi». «Il problema non è la convivenza tra fedi diverse», incalza Khalil, «ma la possibilità di vivere in pace e in libertà». «Molti di noi vanno a studiare all’estero e poi ci rimangono per lavorare. Qui non ci sono prospettive e il lavora manca», continua Albeit. Tarek ha 22 anni, è un giovane musulmano di Ramallah. Studia per diventare un «leader», un politico, per il suo popolo. Si aggrega al gruppo cattolico. «Molti miei amici sono stati uccisi dagli israeliani. Anche mio cugino è morto all’inizio dell’intifada. È difficile accettare che una persona possa farsi esplodere. Il problema non è morire ma difendere le proprie radici. Per alcuni vuol dire combattere. Io credo in una soluzione politica».
L’appello del nunzio. La delegazione Cei è stata ricevuta da mons. Pietro Sambi, nunzio apostolico in Terra Santa. «I cristiani escono da tre, quattro settimane di sofferenze enormi. La città santa sembra uno spettro. Ma non solo qui. Betlemme è stata colpita dai missili persino nelle scuole, negli ospedali, nell’università», dice Sambi. «La piccola comunità cristiana soffre perché non è rispettata dagli estremismi di entrambe le parti. Ha bisogno non solo di solidarietà spirituale, ma anche materiale ed economica. Come ambasciatore dei discepoli di Cristo, mi appello ai cristiani del mondo intero perché manifestino la loro solidarietà verso la Terra Santa». «C’è una certa sfiducia», ammette Sambi. «In molti credono che la pace non sia possibile. Ma per un cristiano l’ultima parola non è il venerdì santo ma la resurrezione». Gerusalemme deserta «pesa enormemente». «La paura dei pellegrini di venire accresce la paura dei cristiani a restare. La presenza degli stranieri può indurre le parti a moderare l’odio, la violenza e la sete di morte».