Opinioni & Commenti
Georgofili, vent’anni di dolore e di indignazione
Tutti noi, in questa contemporaneità, dobbiamo lottare contro il senso di una ovvietà del tutto negativa. Rischia di apparire ovvio che in questo Paese non si sia chiuso positivamente uno solo dei processi celebrati per le tante stragi che vi sono state compiute. Può apparire ovvio che siano 400 anni che conviviamo con la Camorra, 150 con Cosa Nostra, oltre 100 con ’Ndrangheta e Sacra Corona Unita. E rischiamo – sull’onda dell’oblio – di ricordarci, quando lo facciamo, quanto è avvenuto, secondo questa logica dell’ovvio. In realtà sono accadute cose, in Italia, la cui enormità dovrebbe provocarci un disagio costante, se avessimo il coraggio di farne memoria con l’intelligenza dovuta. Non è ovvio pensare che un’associazione criminale possa teorizzare la distruzione di uno dei più importanti musei del mondo, mettere in atto un piano che avrebbe raggiunto il suo scopo, se per un particolare secondario non fosse stato possibile parcheggiare un furgoncino stipato di tritolo dove ipotizzato. Nel cortile degli Uffizi non ci riuscirono: il furgoncino fu allora parcheggiato in via dei Georgofili. Una via abitata. Morirono cinque persone. Sono nomi, e storie, sacri. Come il dolore di chi sopravvisse, al lutto e alle ferite del corpo e dell’anima.
Non possiamo smettere di riflettere che in questa nazione, nel cuore d’Europa, dove sono state concepite alcune delle intuizioni, dei segni di bellezza e delle teorie di governo della realtà in assoluto migliori, ha preso forza un potere che, in sinergia con altri, altrettanto nefasti, ha umiliato il nostro senso di civiltà annientando vite nel tentativo di distruggere la bellezza. Così facendo ha compiuto il crimine estremo, quello di togliere esistenza a chi non può nuocere, a chi è innocente, addirittura a chi porta con sé la più grande delle bellezze: l’infanzia.
Quando si è saputo che parte delle rappresentanze del sistema di governo avevano trattato con i poteri mafiosi, ci siamo ricordati di quanto affermava Paolo Borsellino: «Ad un certo livello, i poteri o si combattono o si mettono d’accordo». È stato l’affronto più grande a tutti coloro che hanno speso la vita per combattere le mafie in nome della collettività, di tutti coloro a cui la vita è stata tolta per errore o sono vittime solo per quanto hanno visto o per quanto erano.
Se sappiamo bene – da processi già celebrati, che una verità hanno identificato – cosa accadde a Firenze il 27 maggio 1993, chi fu esecutore e mandante prossimo, ci resta la sensazione di non aver ancora composto il quadro degli elementi, che ci manchino altri nomi, quelli di chi trovò vantaggio dal clima seguente le stragi del 1992 e del 1993, quando il sentimento collettivo ci portava a pensare che non avremmo mai sconfitto questi orribili poteri, che fossero comunque più forti dello stato di diritto, che ci ha la ragione sia comunque preda di chi ha la forza. Su questo sentimento di impotenza le mafie prosperano. È da qui che vanno combattute. Recuperando proprio la storia di chi in apparenza dovrebbe presentarci gli elementi della paura, quella di coloro che furono uccisi dai sicari da esse armati.
Dove si commisero i crimini più efferati, là ci fu il coraggio e la dignità della reazione. Dove sembrò annullarsi il senso della verità, ci fu chi investigò e riuscì a recuperare il quadro della realtà. Inevitabile dichiarare profonda gratitudine a magistrati come Gabriele Chelazzi, che può essere considerato come la sesta vittima della strage, dal momento che fu stroncato da un infarto frutto del troppo lavoro, ma anche – vogliamo pensare – dell’enormità di quanto intuì sui retroscena della vicenda. I familiari delle vittime ci ricordano con insistenza quanto l’identificazione della verità sia uno dei pochi elementi che restituisce speranza. Bisogna ridarsi reciprocamente il senso di una verità possibile, del consentire nella giustizia senza pensarla un ideale regolativo mai posseduta in pienezza. È arrivato il tempo di ricordare a tutti che bisogna rialzare la testa.
Nelle occasioni di memoria si compie un passaggio straordinario: i familiari delle vittime e le vittime sopravvissute ci consegnano un dolore che nel loro coraggio e nella loro volontà di giustizia si trasfigura nella possibilità della nostra speranza, il compiersi della giustizia che, sia pur con grande pena, siamo in grado di intuire un po’ più in là. Uno spazio da qui al più in là da colmare con il nostro impegno personale, le richieste insistenti di responsabilità, le azioni di giustizia, il non adeguarsi al sentire peggiore di questi giorni. L’apostolo Paolo in una delle sue lettere ai cristiani di Corinto afferma in un passaggio che bisogna «profittare del tempo presente, perché i giorni sono cattivi». Non scrive: nonostante la cattiveria di questi tempi, dice proprio; perché lo sono. Per i credenti è la forza misteriosa della Croce, che la compassione divina ed umana del Cristo trasforma da luogo della morte e del lutto a potenzialità del riesistere, del sorgere nuovamente. Da questa compassione, condivisione del patire ma anche della passione che sospinge a vivere in pienezza, troviamo gli elementi per non cedere alla paura e rendere il senso di rivolta la motrice giusta per sospingere in altra direzione questa nostra storia.