di Romanello Cantini Di Garibaldi, si sa, è proibito parlare male. Se questa regola vale per i tempi normali figuriamoci in occasione di un bicentenario quando l’esaltazione e la retorica sono la salsa quasi obbligata di ogni commemorazione. E invece ora che tanto tempo è passato varrebbe forse la pena di vedere «l’eroe dei due mondi» in una luce anche critica senza pretendere di demolire un mito o di distruggere un monumento. Garibaldi non temette la sfida temeraria con la morte e nei suoi progetti fu un uomo privo di ogni interesse personale. La sua straordinarietà non ha bisogno della leggenda. E si può fare lo sconto alla sua gloria senza liquidarla. Conquistò, per esempio, l’Italia meridionale non con il luogo comune dei «Mille», ma con ventimila uomini (fra cui ragazzi che scendevano fino ad undici anni). Fu certo coraggioso, ma soprattutto abile tattico, fortunato e forse favorito. A Calatafimi, dove la solita retorica vorrebbe che si fosse detto «qui si fa l’Italia o si muore», morirono 32 garibaldini e 30 borbonici. Nell’Ottocento Garibaldi apparve come il cavaliere errante in cerca di tutte le sante cause per cui combattere. Oggi, dopo un Novecento in cui abbiano visto decine di milioni di uomini uccisi per una certa idea di nazione, la sua vicenda ci appare meno esemplare. Alla fine anche Garibaldi voleva la pace e la fratellanza fra i popoli che era fra l’altro una idea tipicamente massonica. Ma per giungere a tanto bisognava prima liberare tutti i popoli. Garibaldi insomma fu il primo di una lunga serie di protagonisti per cui la pace si ottiene con la guerra e questa oggi non è più una novità, ma una vecchia e quasi sempre bugiarda storia. Voleva la libertà non solo per la propria patria, ma anche per gli altri popoli e fu fra i pionieri dell’idea per cui la democrazia si può non solo fabbricare, ma anche esportare. Per questo la figura di Garibaldi ci appare oggi spesso contraddittoria. Nei trent’anni in cui fu efficiente fisicamente Garibaldi partecipò ad una decina di guerre. In media una guerra ogni tre anni. Il 9 settembre 1867 fu portato in trionfo alla presidenza del congresso della Lega della Pace a Ginevra. Ma dovette lasciare l’incarico in fretta e furia perché per il 15 settembre aveva previsto l’inizio di quella azione di guerra che doveva portare a Mentana. Anche dopo l’unità d’Italia Garibaldi si, fece vedere pochissimo in un parlamento che in fondo, lui, ex-dittatore dell’ex-Regno delle Due Sicilie, disprezzava. Ci andò soprattutto per sostenere il suo progetto di un esercito di mezzo milione di uomini (sui venticinque milioni di italiani di allora) in cui dovevano essere arruolati tutti gli uomini dai 18 ai 35 anni. Anche la sua idea di liberazione dei popoli era molto unilaterale. I suoi nemici giurati furono il Regno delle Due Sicilie, lo Stato pontificio, l’impero austriaco. È noto che Garibaldi era «Primo massone d’Italia e Gran maestro onorario a vita». Tuttavia è del tutto semplicistico considerare questa sua accanita ostilità come un riflesso della simpatia che gli stati protestanti e le organizzazioni massoniche prestavano a chi combatteva quelli che erano considerati i baluardi del mondo cattolico di allora. Eppure il giudizio di Garibaldi fu troppo inflessibile da un lato e troppo indulgente dall’altro. Aveva scritto che «il Papa è Lucifero» e si augurava che fosse deportato a Malta. Al contrario nelle sue «Memorie» arrivò a scrivere che, poiché gli inglesi erano contenti della regina Vittoria, il regno d’Oltremanica si doveva considerare una repubblica. Nel 1864, accolto in trionfo a Londra, brindò al «paese dell’indipendenza e della libertà». Dimentico che sedici anni prima la Gran Bretagna aveva lasciato morire di fame un milione di irlandesi per la carestia dovuta alla malattia delle patate e che sei anni prima aveva represso nel sangue la rivolta degli indiani del Bengala. Nel 1854 aveva esaltato gli Stati Uniti «la grande repubblica di uomini liberi» senza vedere i cinque milioni di schiavi che c’erano dentro. Garibaldi non avvertì mai né il peso né lo scandalo dell’imperialismo europeo. Nel 1870, durante la guerra franco-prussiana si fece eleggere alla costituente francese dai coloni di Algeria. E d’altra parte in quella vicenda aveva combattuto per la Francia quando anche Marx e l’internazionale Socialista gli avevano fatto notare che la Francia era l’aggressore perché aveva iniziato la guerra. Insieme all’amore della patria e alla lotta per la libertà, c’era in Garibaldi un culto della guerra e della grandezza nazionale di cui si fecero in più occasioni interpreti i suoi discendenti che furono anche compagni delle sue ultime battaglie. Il 5 maggio 1915 il figlio di Garibaldi, Ricciotti, e il nipote Beppino, dopo aver organizzato l’evento, saranno in prima fila a Quarto insieme con figli e figlie e con ciò che rimaneva delle «camicie rosse» ad applaudire il famoso discorso interventista di D’Annunzio. Undici giorni dopo, nel famoso discorso di Roma in cui inciterà al linciaggio del neutralista Giolitti, D’Annunzio sfodererà dal podio la spada di Nino Bixio. Ricciotti Garibaldi aveva del resto sostenuto con forza la guerra di Libia e il generale Enzo, suo figlio, verrà spedito da Mussolini a Londra nel 1936 per cercare di persuadere l’Inghilterra a lasciare invadere l’Etiopia dall’Italia. Quasi contemporaneamente in Spagna nasceva la prima Brigata Garibaldi come simbolo della lotta contro il fascismo: specchio di una contraddizione per cui in fondo destra e sinistra hanno potuto richiamarsi in tempi e per motivi diversi all’«Eroe dei due mondi».