Cultura & Società
Galileo, processo al processo
di Franco Cardini
I processi inquisitoriali contro Galileo Galilei ebbero conseguenze meno tragiche per l’imputato rispetto ai casi di Tomaso Campanella e Giordano Bruno, ai quali spesso vengono accostati, ma rappresentarono forse un’occasione persa per la Santa Sede di segnare un punto a proprio favore rispetto al mondo protestante e in generale nel progresso delle scienze e della percezioni del rapporto fra scienza e fede negli ambienti intellettuali.
Nato a Pisa nel 1564 da un famiglia di buona condizione sebbene il padre, musicista, fosse stato costretto a intraprendere un’attività commerciale per le difficoltà economiche , Galileo si trasferì con la famiglia a Firenze all’età di dieci anni. Cominciò nel 1581 gli studi di medicina a Pisa, ma la materia non lo interessava; si diede allora per suo conto e con l’aiuto di alcuni maestri privati agli studi di matematica e alle osservazioni fisiche. Nel 1589 il granduca di Toscana Ferdinando I gli concesse un insegnamento di matematica all’università di Pisa; nel 1592 si trasferì a all’Università di Padova, dove rimase per diciotto anni.
È in questi anni che Galileo cominciò a ideare il celebre cannocchiale e a elaborare le sue teorie: pur insegnando la fisica dell’universo secondo il sistema tolemaico, infatti, nelle corrispondenze private egli si diceva convinto delle teorie di Copernico; che, contrastate da Lutero e Calvino e ufficialmente condannate da Melantone già nel 1549, sarebbero state messe all’Indice dall’Inquisizione solo nel 1616 e proprio in seguito alle polemiche con Galileo. Nel 1610, la pubblicazione del Sidereus nuncius, sia pure accompagnata da polemiche, gli valse fama internazionale. Nello stesso anno tornò a Firenze, dedicandosi ormai solo alla ricerca. Ma contemporaneamente cominciavano i problemi con il Sant’Uffizio. Convinto della veridicità della nuova scienza e della possibilità di conciliarla con il dettato dell’Antico Testamento, alla luce del quale la teologia «ufficiale» sosteneva invece le tesi tolemaiche, Galileo entrò quindi nel dibattito in corso in quegli anni fra «progressisti» e «tradizionalisti». Nel 1616 la denuncia di due domenicani contro i «galileisti» precipitò la situazione: il Sant’Uffizio condannò la tesi propugnata da Galileo e dai suoi seguaci secondo la quale Dio ha parlato agli uomini con il linguaggio comprensibile delle Sacre Scritture, che tuttavia è cosa diversa da quello adoperato per scrivere il libro della natura; non si trattava di una doppia verità, cosa che avrebbe condotto all’accusa di averroismo, ma di un’unica verità espressa attraverso linguaggi diversi. La condanna tuttavia si limitò a proibire le enunciazioni, ma non toccò la persona di Galileo in quanto questi l’aveva espressa solo privatamente.
Lontano dall’accettare la momentanea sconfitta, nel 1623, quando il cardinale Maffeo Barberini, noto per la sua apertura alle arti e alla scienza, salì al soglio pontificio col nome di Urbano VIII (lo stesso che aveva preso a benvolere il Campanella), Galileo pensò fosse giunto il momento di riproporre le sue teorie. Nello stesso anno pubblicò il Saggiatore, dedicato al nuovo papa, che a quanto pare gradì molto il contenuto dell’opera. Reso meno prudente dal successo ottenuto, Galileo decise di esporsi in prima persona attraverso la pubblicazione, nel 1632, del Dialogo sopra i massimi sistemi, in cui prendeva apertamente posizione a favore della nuova scienza empirica. Inizialmente l’opera ricevette l’Imprimatur e venne accolta con grandi entusiasmi, soprattutto in ambito gesuitico. Ma nel giro di pochi mesi l’Inquisizione ritornò sui propri passi, proibendone la vendita e convocando l’autore dinanzi al tribunale di Roma; i Medici, suoi protettori, poco poterono per aiutarlo. Comparso dinanzi al Sant’Uffizio nel 1633, in un processo le cui fasi non sono del tutto chiare, Galileo fu costretto all’abiura e condannato alla prigione a vita, subito commutata in arresti domiciliari: ormai settantenne, Galileo trascorse i suoi ultimi anni (morì nel 1642) prima ospite dell’arcivescovo Piccolomini di Siena, suo amico, e infine nella sua villa di Arcetri.
È evidente che, come spesso capitava, anche nella vicenda di Galileo il Sant’Uffizio non intendeva colpire la persona, ma costringerla all’obbedienza e metterne al bando le teorie. Eppure, mentre le vicende di Campanella e di Bruno presentavano aspetti che in alcun modo, dato le spirito e le leggi del tempo, sarebbe stato possibile per la Chiesa far passare sotto silenzio, il caso di Galileo, del tutto privo di componenti magico-ereticali o di volontà ribellistiche, lascia l’impressione che una minore fretta del Sant’Uffizio nel procedere alla condanna, una maggiore apertura a considerare le implicazioni di quei tentativi di conciliare le Sacre Scritture e le scienze empiriche, avrebbe segnato un punto a favore del cattolicesimo sul cristianesimo riformato che si erano invece affannati a condannarle con largo anticipo e fatto intraprendere con secoli d’anticipo un dialogo fra scienza e fede.