Opinioni & Commenti
Gabon, ricco e sfruttato
Riccardo Moro
Alì Bongo ci aveva davvero sperato, ma Eto’o gli ha tolto tutte le illusioni: Gabon-Camerun giocata qualche giorno fa nella capitale gabonese è finita con un secco 2-0, con il fuoriclasse del Camerun protagonista delle due reti. Bongo aveva sperato in una vittoria del Gabon per alleggerire la tensioni seguite alle elezioni del 30 agosto. Bongo si era dichiarato vincitore, ma in tutto il Paese si è diffuso il sospetto di brogli, e il malcontento è degenerato in scontri violenti. Nella capitale Libreville la calma è tornata relativamente in fretta, ma a Port Gentil la situazione sta diventando surreale. In città l’avversario di Bonco, Pierre Mamboundou, è popolarissimo e i suoi sostenitori sono scesi in piazza. Bande disordinate di giovani hanno preso di mira le proprietà del governo, le stazioni di benzina e tutto ciò che poteva essere legato anche indirettamente alla Francia.
La polizia locale ha permesso tre giorni di razzie, quindi è intervenuta con l’esercito. Ora la città è calma ma completamente isolata. Al mercato non c’è quasi più nulla da comprare, le famiglie senza frigorifero non hanno scorte e la polizia mantiene con grande senso di responsabilità il blocco della città per tutelare, nel loro stesso interesse, la sicurezza degli abitanti
Ma come si arriva a situazioni di questo genere? Il Gabon è uno dei Paesi più ricchi dell’Africa. La presenza di petrolio ha pesantemente modificato l’economia della nazione e ha messo nelle mani dell’elite che governa un’immensa risorsa. Il reddito medio è dieci volte superiore a quello dei Paesi vicini, ma questo non significa che tutti i cittadini siano ricchi. Solo chi lavora nel settore petrolifero gode dei suoi benefici. L’oro nero paga edifici pubblici sfarzosi e auto di lusso, ma non viene usato per sostenere agricoltura e formazione per dare al Paese sviluppo equilibrato. La ricerca dei relativamente scarsi posti di lavoro nel petrolio spopola le campagne e paradossalmente il Gabon, un Paese enorme per i suoi due milioni di abitanti, importa buona parte del suo fabbisogno alimentare. Quell’oro nero ha però mantenuto al potere dal 1967 Omar Bongo, uno dei leader africani di maggior longevità, deceduto recentemente, quando già si immaginava che le elezioni di fine agosto lo avrebbero celebrato per l’ennesima volta capo indiscusso.
Omar Bongo è una delle icone più efficaci di ciò che negli anni si è inteso con il termine FranceAfrique. Come numerosi suoi colleghi mantenne per anni il potere guidando un regime monopartitico. Quando la pressione internazionale spinse per la creazione di istituzioni democratiche, promosse la Costituzione che garantiva presidenzialismo e multipartitismo e si fece eleggere più volte presidente. Ciò che gli ha consentito un regno così lungo è stata la capacità di comporre le tensioni con gli avversari, coinvolgendoli nella gestione del potere. Quella stessa arte gli ha permesso di entrare all’Eliseo per quarant’anni accolto tra gli onori sia dai governi gollisti sia da quelli socialisti. La Francia ha accompagnato tutti i suoi passi. Il consiglio e il sostegno di Parigi erano sempre presenti. Come non sono mai mancate le firme di Bongo sui contratti per lo sfruttamento del sottosuolo.
Oggi Alì, figlio di Omar, si candida a succedergli, ma in un mondo che cambia la piccola Francia ha di fatto rinunciato a mantenere in piedi un sistema di relazioni con l’Africa intenso (e costoso) come quello nato negli anni Sessanta, quando le colonie iniziarono a rendersi indipendenti. L’economia francese dipende sempre meno dalle materi prime africane e le relazioni internazionali non sono più semplificabili in tre mondicome negli anni Sessanta. Solo la Cina, con moltissimi soldi e non si sa quanto futuro, sta cercando di creare una CinAfrica. La FranceAfrique di oggi è quella dei migranti, più che quella delle relazioni fra i governi, e alla morte dei vecchi leader saltano gli equilibri. Alì Bongo vince, ma non può essere amato solo per suo padre. Altre elite chiedono il potere e nasce la violenza.
Non è una dinamica che riguardi solo l’Africa francofona. Anche dove maggiore è stata la presenza britannica trovare equilibri è faticoso, si pensi allo Zimbabwe o al Kenya. Per non parlare delle situazioni in cui l’interesse economico è tuttora forte ma le istituzioni politiche deboli permettono irresponsabilità, come nelle aree in cui la guerra è un’ottima copertura per ricavare coltan (materiale prezioso per i telefonini) senza pagare concessioni a chi abita il territorio e dovrebbe godere dei diritti del suo sfruttamento.
A fine ottobre si avvierà in Vaticano il secondo Sinodo africano: La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. Ancora una volta ritorna la parola riconciliazione. Se non si riuscirà a parlare di riconciliazione non ci sarà democrazia né futuro di pace. È una responsabilità difficile che riguarda la politica e le comunità africane, ma anche le nostre. Non si può nasconderla pensando che basti riuscire a parare una punizione di Eto’o.