Opinioni & Commenti
G8, il solito inutile rito
di Riccardo Moro
Ancora una volta il rito è terminato. I leader si incontrano in una cittadina piccola e protetta, disquisiscono sul mondo invitando alcuni eletti al loro tavolo, diffondono l’immagine delle loro spose che discutono di solidarietà, infine incontrano i giornalisti prima di ripartire per nuovi meritevoli impegni.
In realtà mai come quest’anno il rito del G8 è apparso faticoso. Ne sono immagine evidente le conferenze stampa finali. Rapida la Merkel, quasi avesse fretta di tornare a casa ad evitare altre critiche sul ruolo internazionale che intende dare alla Germania, sempre più forte economicamente grazie alle esportazioni verso i paesi emergenti e sempre meno solidale nei rapporti internazionali, quasi che da questi si debba solo prendere a mai dare. Equilibrato e piuttosto freddo Obama, reduce dal successo delle visite a Dublino e Londra e già pronto all’incontro coi paesi dell’Europa dell’Est particolarmente atteso a Praga. Irrituale Berlusconi, come a disagio e con la mente ad altro. Davanti ad una platea quasi esclusivamente italiana si è espresso lentamente, in difficoltà a trovare le parole sino a chiamare i libici i libanesi, suscitando commenti taglienti tra chi era abituato alla sua vivacità coi giornalisti. Poco più sorridente Sarkozy, che ha illustrato il vertice senza entusiasmo e rispondendo spesso in modo incoerente alle domande: Gheddafi deve lasciare la Libia, Gheddafi deve solo fare un passo indietro; la Russia non rappresenta una minaccia per i vicini, i carri armati russi sono stati fermati in Georgia solo grazie alla Francia.
C’è un elemento comune che giustifica questo tono minore? Sì, la formula stessa del G8. Se in passato si criticava la legittimità e rappresentatività del vertice, un’elite autonominata che talvolta invita a cenare al proprio tavolo esclusivo, oggi le perplessità si allargano alla sua efficacia. Che cosa si può realmente decidere senza giganti come la Cina? In passato il G8 era effettivamente diventato il luogo di formazione delle decisioni da assumere nei tavoli multilaterali più importanti: Nazioni Unite, Banca Mondiale, FMI. Questa efficacia aveva portato gli otto a occuparsi di tutto e a giocare un ruolo importante anche nella cosiddetta «agenda dello sviluppo», da proporre alla comunità internazionale e al Sud del mondo per favorire il miglioramento delle loro condizioni.
Oggi, dopo la crisi del 2008, è del tutto chiaro che il G8 non basta più. Paesi come Cina, Brasile, India e Sud Africa e Messico non accettano più di sedere ad un tavolo solo da «invitati». La percezione del declino del G8 è diffusa: durante il vertice il quotidiano francese Le Figaro apriva su Dominique Strauss Kahn anziché su Deauville e molti quotidiani internazionali pubblicavano in prima pagina la foto degli otto pupazzi di Oxfam travestiti da leader anziché la rituale foto ricordo dei leader veri, a rendere icasticamente quanto fuori misura queste occasioni possano apparire.
Ma se archiviamo il G8 dove possiamo occuparci di questioni globali? Dal 2008 il ruolo di summit mondiale è stato assunto dal G20, che comprende anche i cosiddetti paesi emergenti. Ma la sua attenzione si è rivolta quasi esclusivamente alla crisi finanziaria, senza riuscire peraltro a trovare soluzioni condivise per prevenire nuove situazioni di instabilità. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è l’unica sede legittimata giuridicamente ad agire come «governo del mondo», ma ha una competenza esclusivamente dedicata ai temi della sicurezza internazionale. Manca una sede partecipativa – e dunque autenticamente democratica per discutere dell’agenda globale. Forse è bene avere una pluralità di tavoli per evitare che una sede unica produca dinamiche che permanentemente escludano qualcuno. Ma occorre una capacità di sintesi che oggi manca. Il dialogo tra istituzioni regionali che si stanno rafforzando, come Unione Africana o UnaSur, potrebbe domani essere la dimensione in cui costruire equilibri globali.
Rimane il disagio nel constatare che in questa rarefazione l’agenda per lo sviluppo non riceve attenzioni. La stampa ha raccontato dei 40 miliardi per la primavera araba, ma non ha fatto quasi parola degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio che rimangono sempre più lontani dalla meta del 2015. La GCAP, la Global Call Against Poverty, la grande rete della società civile che unisce soggetti numerosi e diversi, dall’associazionismo, alle ong e ai sindacati, prima del vertice ha consegnato al governo un documento che fa il punto della situazione e chiede nuova iniziativa, anche e non solo, in tema di finanziamenti (l’Italia è scesa allo 0,15% del PIL, il dato più basso fra i paesi ricchi). Lo ha fatto trovando posizioni comuni, pur nelle tante specificità, con una capacità di dialogo che pare del tutto sconosciuta nel dibattito politico. È un appello che rimane inascoltato. Eppure è solo nella corresponsabilità che si può incidere davvero sui temi globali. Se lo ricordi chi vuole essere credibile e creduto.