Firenze
Funerale di Davide Astori, l’omelia di Betori: «umiltà, senso di responsabilità, semplicità e modestia»
Di molte cose nella vita ci sfugge il senso, resta oscuro il perché. Prima fra tutte la morte. Della morte non abbiamo spiegazioni da offrire, che possano servire a consolare. Restiamo con il nostro dolore, soprattutto quando la morte ci toglie una persona che amiamo, un amico. È toccato a noi in questi giorni, per Davide Astori.
Non chiedetemi quindi ragioni per capire, argomenti per giustificare, motivi per essere consolati. Posso solo piangere con voi. E offrirvi qualche motivo per pensare.
Comincio da una frase del Vangelo che a qualcuno sarà forse tornata alla mente di fronte alla morte del nostro capitano: «Non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13). Sono parole di Gesù e, nel richiamare a una vigile responsabilità nella vita, ce ne ricordano l’innata fragilità. È così. Il bene più grande che abbiamo nelle mani, il fondamento di tutti gli altri, non è un bene di cui possiamo disporre: la vita ci è data, come un dono d’amore dei nostri genitori, senza che noi la chiediamo; ci è tolta dalla morte, come una rapina, in tempi e modi imprevedibili. La fragilità della vita ci pesa in modo insopportabile, a noi uomini e donne che vorremmo avere tutto sotto controllo, essere padroni assoluti di noi stessi, delle nostre scelte, delle nostre possibilità.
Il modo improvviso e crudele con cui il capitano ci è stato tolto, ci rinvia alla nostra povertà di creature, che non dispongono di tutto ma che le cose essenziali le ricevono, a cominciare dalla più essenziale, la vita. Una morte, quella di Davide, che ci richiama a maggiore umiltà, a tanta gratitudine, a quel senso del limite che spesso manca in questo tempo di superbia. E non a caso, nel fare memoria del capitano, molti hanno ricordato la sua umiltà, il senso di responsabilità, la semplicità e la modestia che lo rendevano a tutti così caro.
Ma, al tempo stesso, mentre contempliamo la fragilità della vita, ne scorgiamo anche la grandezza e lo splendore, quella preziosità che la fa tanto rimpiangere quando viene meno. E anche sulla bellezza della vita c’è un messaggio importante che la morte di Davide Astori lascia a tutti noi. Non sempre e non dappertutto la vita è riconosciuta nel suo valore. C’è chi la mette in pericolo con modelli di comportamento nocivi, e chi minaccia la vita degli altri o non ne rispetta la dignità. Troppi nel mondo vedono la loro vita disprezzata, fatta merce, usata, emarginata, non circondata dalle dovute cure. Abbiamo scoperto in questi giorni, con ammirazione, l’impegno del capitano per i bambini malati nel nostro ospedale Meyer e in Paesi lontani. Ma non meno significativa è stata la testimonianza di suoi compagni più giovani, che nella squadra si sono sentiti da lui accolti, indirizzati, sorretti. La sua vita spezzata da un male misterioso richiami tutti noi a prenderci cura della vita degli altri, soprattutto dei più deboli e dei più miseri. In ogni vita umana è nascosto il germe di vita divina che san Giovanni, nella sua lettera, ha ricordato essere la nostra più profonda identità e il nostro ultimo destino: «Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). C’è un mistero di senso e di appartenenza che aspetta di essere compiuto, oltre la morte.
Siamo in tanti qui e in questi giorni attorno al ricordo di Davide. Sento il dovere, per questo, di dire a Francesca e ai genitori e fratelli che tanto affetto non vuole togliere nulla al loro dolore, che resta unico e che come tale, incommensurabile, riconosciamo. La nostra presenza, semmai, vorrebbe sostenerlo un po’ il loro dolore, per quel che può riuscire a fare una vicinanza che non può mai essere una sostituzione. Ma questa coralità grande – che racchiude famiglia, squadra, mondo dello sport e tutta una città – rivela anche che una persona è più ancora che le sue qualità, le sue doti: è anche la ricchezza delle relazioni che ha saputo costruire attorno a sé. Questo affetto e questa sofferenza corali ci dicono di Davide la saldezza dei suoi legami familiari; la profondità dell’amore e del progetto di vita che lo ha legato per sempre a Francesca e, grazie a lei, la tenerezza del suo affetto paterno per la piccola Vittoria; il suo impegno come uomo di sport nelle squadre in cui è stato protagonista sui campi da calcio d’Italia e prima ancora nel tessere legami aperti, leali, costruttivi con i compagni, per trovare poi quel ruolo di capitano nella Viola che lo consacra per sempre alla storia di questa società; infine, il suo inserimento in questa nostra città di Firenze, che lo riconosce oggi come uno dei suoi, un fiorentino, da sempre e per sempre.
Ho disegnato una costellazione di relazioni e di legami che insieme fanno lo spessore di una persona. Perché noi siamo i nostri legami: siamo il frutto delle relazioni che riusciamo a costruire e a coltivare. Non è vero quel che ci si vuol far credere da parte di molti, e cioè che una vita per realizzarsi ha bisogno di assoluta autonomia, di illimitata indipendenza, di totale autosufficienza. Pensare questo significa solo creare l’anticamera della solitudine e dell’aridità. Abbiamo invece bisogno degli altri, di essere coinvolti nei progetti di molti, per riempire la nostra vita di significato. Nella vita, come sui campi da calcio, si gioca in squadra: nessuno può fare a meno degli altri o può smettere di pensare agli altri. Se oggi siamo qui in tanti a piangere che Davide non è più tra noi, è perché egli si è legato a tutti noi, si è compromesso con noi, incrociando le nostre storie e spendendo la sua vita per noi, nelle diverse forme dei rapporti che egli ha costruito attorno a sé. Se tanta è la sofferenza, è perché veri sono stati – e sono, anche oltre la morte – questi legami.
Infine, non posso tralasciare che Davide Astori è stato un importante uomo di sport. Non è un momento semplice, questo, per la pratica sportiva, tra chi la vuole illusoria fabbrica di idoli e chi ne vede solo le potenzialità economiche. Riportare lo sport alla sua vocazione di luogo di crescita della persona e di promozione della vita sociale dipende essenzialmente dalla circolazione di valori autentici che solo persone autentiche possono assicurare. La scomparsa di Davide ha raccolto tante attestazioni da parte di chi gli era vicino proprio a riguardo della ricchezza di valori che egli incarnava con spontaneità e verità. Essergli grati, significa esserne eredi, con consapevolezza e semplicità.
A conclusione, dopo che ho più volte richiamato a responsabilità e impegno, vorrei poter dire una parola di conforto. A Francesca e Vittoria anzitutto e poi ai genitori e ai fratelli di Davide, ma anche a tutti noi. Resta però che, come dicevo all’inizio, di fronte alla morte non ci sono parole di consolazione che siano capaci di spiegare il mistero. Lo abbiamo sentito anche nella pagina del vangelo, dove, a fronte della morte violenta di Gesù, due suoi discepoli non trovano di meglio che scappar via, non sapendo affrontare lo scandalo che per loro è quella croce. E anche quando sono raggiunti dal loro maestro lungo la strada verso Emmaus, le stesse parole di Gesù da sole non bastano a offrire loro una prospettiva. C’è bisogno che Gesù sieda alla loro mensa, compia gesti di comunione, spezzi il pane con loro e in quel pane spezzi se stesso per loro, perché quel pane che lo sconosciuto spezza è il suo stesso Corpo. È il gesto che anche noi ripetiamo nella celebrazione di questa Messa, ma è un gesto che diventa significativo per ciascuno solo se si traduce nella vita: se, cioè, l’uno per l’altro proviamo a spezzare le nostre vite, a donarci gli uni gli altri. Allora capiremo che in quel dono la vita vince la morte e risorge.
Non c’è una parola che spieghi la morte. C’è una presenza, quella di Gesù e quella dei fratelli e delle sorelle, che mostra la vita, ci fa sentire vivi per sempre, condivide e comunica l’esistenza. Tutto questo si fa tra le lacrime, senza aver paura di piangere. Pianse anche Gesù di fronte alla morte dell’amico Lazzaro, pur sapendo che di lì a poco lo avrebbe riportato in vita. Piangiamo anche noi di fronte alla morte dell’amico Davide, con la certezza che lo ritroveremo vivo, così come Gesù, il risorto, ha promesso ai suoi e di questo ci offre un segno in ogni pezzo di vita che saremo riusciti a ricostruire in chi ne aveva bisogno, donando noi stessi. Per Francesca sarà naturale farlo, tra le lacrime, verso Vittoria. Agli uomini della Viola è affidato il compito di mostrarlo, pagandone il prezzo della sofferenza, come è per ogni cosa bella, in uno slancio di generosità e di reciproco sostegno, in un vero gioco di squadra. Sentiamolo come un compito anche per ciascuno di noi sulle strade di questa città, anche noi pronti ad affrontare la sofferenza, nel servizio verso quanti hanno bisogno di noi. E allora sarà ancora vita, sarà comunque dono, comunione, condivisione, amore.
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze