Vita Chiesa
Frate Francesco Borri racconta i suoi trent’anni in Tanzania
Domenica 22 ottobre si celebra la Giornata missionaria. Ecco il racconto di un missionario toscano
Sono i primi anni Settanta, al liceo dei cappuccini di Siena, ora di filosofia, parla il segretario delle missioni padre Bernardo Gremoli (che sarà poi vicario apostolico nei Paesi arabi). Padre Bernardo parla delle missioni, dell’impegno che richiedono, del tipo di attività che rappresentano. Due ragazzi del corso rimangono particolarmente colpiti da questo discorso, uno di questi è frate Francesco Borri, il quale trascorrerà poi trent’anni della sua vita in missione. «Le parole di padre Bernardo aprivano una prospettiva più movimentata di quella che avrebbe invece offerto la vita in convento» racconta Borri «così io e il mio compagno fummo spediti in Inghilterra per apprendere qualche parola in più di inglese prima della partenza. Tuttavia, quando chiesi ai miei superiori se non fosse il caso di affiancare l’apprendimento di un mestiere più pratico come il meccanico o l’infermiere, ai fini di poter essere più utile nella missione, questi mi risposero che il Vangelo doveva essermi sufficiente». La risposta lasciò frate Francesco con l’amaro in bocca e per qualche anno quindi l’idea di partire fu messa da parte. Ma alcuni anni dopo quel suo compagno rimasto affascinato dalle parole di Gremoli tanto quanto lui gli riaccese il fuoco che si era temporaneamente raffreddato, inoltre dei superiori differenti gli permisero di poter studiare missiologia (una particolare branca della teologia che studia il processo di evangelizzazione della Chiesa cattolica universale).
Era il 6 dicembre 1982 quando i due partirono da Fiumicino alla volta della Tanzania e il ricordo di quel viaggio e della prima impressione è ancora ben lucido. «Il primo impatto me lo ricordo certo, me lo ricordo proprio male – ride frate Francesco – fu un arrivo fatto di emozioni e delusioni. Alle 6 di mattina atterrammo ad Addisa Abeba, Etiopia, e la vista del territorio arido, semi desertico mi impressionò moltissimo. Le cose migliorarono con la vista dal finestrino del volo successivo, superata la Somalia, la linea dell’equatore il paesaggio si fece più verde e mi rincuorai. Quando si aprì il portellone dell’aereo una folata di vento caldissimo fu la prima cosa che sperimentai. Subito dopo, nella casa dove eravamo ospiti a Dar es Salaam, mentre tentavo di riposarmi scoprii che l’aria condizionata era rotta. Soffrii un caldo infernale. Visto lo shock iniziale e la stanchezza mi trattenni qualche giorno a Dar es Salaam prima di partire per il luogo della missione».
Negli anni frate Francesco girerà per diversi villaggi della Tanzania, Kibakwe il primo dopo i giorni a Dar es Salaam, seguiranno poi Kongwa e le falde del Kilimangiaro. I primi sei mesi li ha dedicati ad apprendere lo Swahili, recandosi con diverse ore di treno ogni giorno presso una scuola lontana dal villaggio. «A scuola tuttavia mi insegnavano solo la grammatica, mi mancava la parte di dialogo, di esercizio pratico, alla quale hanno pensato i bambini del villaggio: quando hanno saputo che uno dei nuovi sacerdoti stava apprendendo la lingua con scarso successo hanno deciso di venirmi a prendere ogni mattina per portarmi in giro a fare conversazione. In questo modo, tra moltissime loro risate, grasse risate, verso giugno avevo imparato a farmi un po’ capire» e aggiunge: «un missionario senza apprendere la lingua del paese non entra nel clima locale, che è un aspetto cruciale: hai la pelle bianca, hai la macchina, hai dei soldi, è chiaro che si possa essere sospetti, alle volte l’invidia, tutti problemi che possono essere superati unicamente instaurando dei legami, possibili solo con la comunicazione e la condivisione».
Oltretutto entrare in confidenza con i tanzaniani non è semplice, visto che tendono per cultura a parlar poco di se stessi, della loro vita privata, contrariamente a noi che spesso ci ritroviamo a condividere problemi e angosce personali con estranei in segno di amicizia. Frate Borri ricorda con un sorriso anche quanto facile fu ottenere la patente locale: «avevo già fatto quella internazionale, come mi era stato consigliato; mi recai quindi all’ufficio di polizia locale dove con le tre parole di inglese che ancora ricordavo chiedo, appunto, come ottenere la patente locale: pochi soldi, un cartone piegato in due, da una parte una mia foto e un timbro, dall’altra la ricevuta di avvenuto pagamento. Cinque minuti netti, gli feci i complimenti, in Italia ci sarebbero voluti almeno due mesi». Così passano gli anni in cui il frate celebra la Messa sia nelle cappelle sparse nei vari villaggi sia nella chiesa principale, passa il tempo a fare catechismo, a occuparsi dell’asilo, a conquistarsi la fiducia delle persone, dei bambini che «alla vista di un uomo bianco si nascondevano dietro la madre»; nella manutenzione della casa poi era aiutato da suor Valeria, a sua volta aiutata da delle ragazze del villaggio, mandate alla missione dalle famiglie una volta terminata la scuola, per evitare che fossero «in pasto ai pescecani». Imparavano così a cucire, ricamare, cucinare pasti diversi da quelli tradizionali. «Negli anni le cose poi sono molto cambiate, alle suore più anziane rimaste ancora là è stato detto dalle “nuove leve” di aver fatto le serve dei preti. Suor Valeria invece, con le lacrime agli occhi, ricordava sempre che a una cosa del genere non ci pensava neanche, eravamo una grande famiglia dove ognuno aiutava come poteva, dopo poi sono subentrate regole a cui allora nessuno avrebbe mai pensato. Oggi ognuno è giustamente orgoglioso delle proprie istituzioni che hanno nel tempo acquisito la propria o una maggiore indipendenza».
Così, di nuovo, passano gli anni: «gli anni migliori della mia vita, anni indimenticabili, con un clima di fraternità unico, che purtroppo va scemando». In Tanzania frate Francesco ha lasciato una parte di sé, tanto che dopo un anno nel 1999 trascorso negli Emirati Arabi Uniti decide di fare ritorno prima in Italia per altri due anni e poi là, in Tanzania, ancora una volta, presso un centro per bambini con gravi malformazioni fisiche, dove oltre alla fisioterapia, due volte l’anno medici italiani si recavano per operare questi bambini per far sì che potessero almeno dormire distesi. «La vita là è più dura che in parrocchia» ci dice «se capitava di arrivare a sera stanchi e sfiduciati, la Messa con questi bambini ridava fiducia, grazie al loro amore e alla loro emozione».
Nel 2003 fa ritorno in Italia, per poter essere utile presso i nostri conventi quasi disabitati, visto che in Toscana ci sono circa 90 frati a fronte dei 380 nello stato africano, dove farà ritorno per altre tre volte, di cui l’ultima nel 2020. È comunque in contatto con molti che allora erano suoi chierichetti. Oggi vive a Firenze nel convento di Careggi.
Ci lasciamo con una riflessione finale sullo stato attuale delle missioni in Africa, delle quali frate Francesco dice: «Iniziano a esserci molti preti locali, che conoscono la loro gente e sanno come parlarle meglio di noi. Sanno inserire meglio il cristianesimo nella logica delle relazioni e connessioni che la fede cristiana ha in rapporto agli strettissimi obblighi di parentela che la solidarietà impone quando l’individuo non ce la fa».