Cultura & Società
Franco Zeffirelli, prima di osanna o strali semplicemente il rispetto
Nelle ultime elezioni amministrative, nella «mia» Bagno a Ripoli, il sindaco uscente Francesco Casini (PD) c’è l’ha fatta di nuovo, e alla grande, senza ballottaggio: e ha cominciato subito a muoversi in modo innovativo. Un suo colpo magistrale è stato l’aver chiamato all’assessorato al Sociale, alla Cultura, alle Partecipate e alla Gestione associata una bella, intelligente, colta signora nonché stimata civilista e madre di ben cinque figli. Una professionista impegnata che, sulle colline dell’Antella, produce anche dell’ottimo olio d’oliva e porta con elegante nonchalance perfino un titolo marchionale.
Qualcuno ha mugugnato: la signora, cattolica e leader di una «lista civica», non ha un’aria granché «di sinistra». Però ha delle idee innovative: la più originale tra esse è far di Bagno a Ripoli il centro di un Festival (e magari di un Premio) non come al solito «della bistecca» o «della rosticciana», e nemmeno «della Pace», bensì di una cosa forse più fondamentale ancora, che presa sul serio sarebbe risolutiva. Un Festival del Rispetto.
Ne ho parlato pochi giorni fa, nel monastero di Bose, con Enzo Bianchi, uno dei rifondatori della mistica e dell’ascetica cristiane postmoderne. Se ne è dimostrato entusiasta. Un’iniziativa non confessionale, anzi laicissima, che però sta alla base di qualunque cosa. Rispetto in tutti i sensi, per tutti e per tutto. Per la natura, per l’ambiente, per le donne e per gli uomini; per gli anziani, ma anche per i bambini; per gli animali, per l’acqua e per l’aria; rispetto anche in politica, per gli avversari (ce ne sarebbe un bisogno civile straordinario); rispetto per la proprietà pubblica e per la proprietà altrui; rispetto fra datori di lavoro e lavoratori; rispetto fra coniugi, tra familiari, tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra generazioni diverse; rispetto per il passato e per i monumenti e i documenti che ci ha lasciato, il che implica una loro conoscenza; rispetto per i turisti che ci portano valuta pregiata ma anche, da parte loro, per il paese che li ospita; rispetto per gli extracomunitari e i migranti, e da parte loro per chi li accoglie perché non c’è nulla di più odioso delle guerre tra poveri; rispetto reciproco fra chi ha la fortuna di possedere molto o abbastanza e chi possiede poco o nulla, che implica la collaborazione e il sostegno reciproco, il rispetto delle differenze ma la lotta contro il profitto socialmente improduttivo e la miseria che toglie dignità; rispetto per tutte le religioni e anche per chi non ne ha nessuna, e da parte di chi ne ha una tolleranza per chi crede in qualcos’altro. Sarebbe davvero la chiave di tutto: se riuscissimo a radicare il diritto e il dovere al rispetto, a viverlo liberamente e correttamente, forse il 50% dei problemi del mondo si risolverebbero da soli.
Quest’originale idea della signora neoassessore di Bagno a Ripoli è tornata insistentemente ad assediarmi mentre, con un misto di sorpresa e di scoramento, percorrevo nei giorni scorsi le vicende dell’addio fiorentino a Franco Zeffirelli e delle polemiche da cui esso è stato accompagnato. De mortuis nihil nisi bonum, ci suggeriva la nostra vecchia tradizione quando eravamo forse più barbari ma meno incivili (e meno infelici); e, siccome di lui molto di buono si può senza dubbio dire ma – al di là delle polemiche nelle quali i fiorentini sono maestri – anche del suo contrario, valga almeno il saggio e caritatevole parce sepulto.
Non sono uno che s’impressiona molto facilmente; quanto allo scandalizzarmi, è quasi impossibile. Eppure sono rimasto quanto meno, diciamo così, alquanto perplesso dinanzi all’abbondanza ma soprattutto alla qualità (molto bassa, purtroppo) di quasi tutti i commenti e i «coccodrilli» che dalle reti tv alla stampa ai social, sia gli sperticatamente e acriticatamente elogiativi, sia i pregiudizialmente e dogmaticamente distruttivi. Si va da lodi sovente sperticate per l’asserita finezza psicologica del regista teatrale e cinematografico (!?) e per il sontuoso fascino delle sue messinscene fino alle accuse di semplicismo, di banalità, di conformismo, di tentativo gregario e pedissequo di raggiungere i vertici di Visconti, il quale peraltro proprio non incontrò a causa di una raffinatezza inadeguata i gusti della middle class statunitense, che notoriamente con Zeffirelli ci è andata volentieri a nozze. L’acme l’ha forse toccato Tomaso Montanari, con il suo «si può dire che il maestro Scespirelli era un insopportabile mediocre, al cinema inguardabile? E che fanno senso gli alti lai della Firenzina, genuflessa in lutto o in orbace, ai piedi suoi e dell’orrenda Oriana?».
Montanari – che a me sta molto simpatico anche quando esprime pareri che non condivido – è stato sommerso dalle proteste e anche dagli insulti. Debbo dire che il soprannome «Scespirelli», che rimanda all’obiettivamente insopportabile edizione cinematografica zeffirelliana di Giulietta e Romeo, è geniale: ma è farina del sacco di Ennio Flaiano, che raramente ne sbagliava una. Tuttavia quell’epiteto ridicolizzante, il giorno dopo la morte, non suona bene: è «oltraggio» certo non «codardo» (di Zeffirelli, Montanari ha sempre detto tranquillamente male), e certo non preceduto da alcun «servo encomio» che l’avrebbe irrimediabilmente sepolto, ma del quale lo storico dell’arte è sul serio vergine. Tuttavia, detto così, subito, immediatamente dopo la scomparsa, appare intempestivo.
Resta comunque legittimo e a mio avviso opportuno «parlar male» sia di lui, sia «dell’orrenda Oriana», evidentemente alludendo all’inqualificabile coro di volgarità e di sciocchezze islamofobe al quale si abbandonarono anni fa tanti fiorentini (qualcuno «in orbace», molti però fieri e sinceri democratici) al seguito appunto della coppia Fallaci-Zeffirelli sostenitrice di nuove salutari crociate. Al fronte avverso, quello moralmente guidato da Tiziano Terzani e sostenitore di un confronto leale, aperto e amichevole con i musulmani, appartenevo anch’io; mentre c’era chi, come Fosco Maraini, propendeva per l’altra parte.
E anche su chi secondo Montanari stava (idealmente, certo) «in orbace», vi sarebbe da dire: Zeffirelli, simpatizzante per i partigiani cattolici e liberali, poteva bensì trovarsi d’accordo con Berlusconi; ma molti fiorentini, anche di estrema sinistra, mostravano di preferirgli Giorgio Albertazzi che pur aveva indossato l’uniforme della Guardia Nazionale della Repubblica Sociale Italiana. L’antifascismo espresso dallo zeffirelliano film «Un tè con Mussolini», inadeguato a rappresentare sia il clima della Firenze pavoliniana con le sue geniali trovate come il «Movimento Forestieri» sia il dramma dei mesi di Salò, non piacque non perché fosse antifascista, ma semplicemente perché era un brutto film. E quanto al sontuoso calligrafismo di Luchino Visconti, del quale Zeffirelli si mostrava allievo – e gli americani hanno costantemente preferito questo a quello -, la differenza era simile a quella tra il marmo di Carrara e il cartongesso.
Zeffirelli ha avuto funerali solenni in Duomo a Firenze, officiati dal cardinale arcivescovo. Prima di lui, l’onore era toccato a Gentile, a La Pira, a Bargellini. Ora riposa alle Porte Sante, sulla collina di San Miniato, dove vanno a finire tanti fiorentini illustri. Ma il suo genio di regista teatrale e cinematografico lo merita davvero?
Personalmente lo conoscevo poco, ma mi è capitato di frequentarlo un po’ quando ero nel Consiglio di Amministrazione prima della Rai, quindi di Cinecittà, fra il 1994 e il 2002. Non credo gli fossi granché simpatico, visto quello che scrivevo sull’Islam. Dal canto mio, debbo confessare di non aver mai apprezzato il suo Fratello sole, sorella luna, che sarà anche stato nazionalpopolare ma che aveva una pàtina insopportabilmente «buonista», da santino parrocchiale. Paragonato con altri Franceschi cinematografici, gli mancava del tutto la vena di follìa del Francesco giullare di Dio di Rossellini, la scarna e scabra – quasi brutale – povertà del primo Francesco della Cavani con l’intuizione fondamentale dell’incontro con i lebbrosi che coglie il nucleo del Testamentum, e quindi con il pathos teso tra la sensualità repressa e il tragico stupore (il pianto nel ricevere le stigmate) del secondo cavaniano. La Cavani aveva avuto l’ardire di far calare nei panni di Francesco un interprete di films violenti fino al semiporno come Lou Castel e un sexy idol come Mickey Rourke: e aveva centrato il nucleo del messaggio francescano nel rifiuto radicale di qualsiasi forma di potere, a partire da quello del danaro e incluso quello della cultura; ma un rifiuto rigorosamente cristocentrico e cristomimetico e, soprattutto, antindividualista. E in ciò antimoderno.
Il Francesco eterno fanciullo, con tanto di un tantino ammiccante sublimazione dell’amore di e per Chiara, finisce con l’assecondare tutti i possibili conformismi – starei per dire che se c’è in quell’immagine un che di geniale, sta proprio lì, in quel paradossale metapanconformismo – per approdare alla formula del «Francesco per tutte le stagioni», quello «che va bene a tutti» e ch’è esattamente il contrario di quel che l’esperienza effettiva del Povero di Assisi e la sua testimonianza indicano.
Che poi il «minoritismo» (e qui ha ragione Grado G. Merlo: va distinto dal «francescanesimo») abbia potuto andare anche in quella direzione, è un altro discorso. Non per nulla, come ben ha dimostrato Giacomo Todeschini, alla fine il paradosso della legittimazione della ricchezza e del profitto, sul piano del loro uso socialmente e caritatevolmente corretto, è venuta proprio dagli ambienti minoritici più radicali, come gli «osservanti» di Bernardino da Siena. E sulle sue buone intenzioni siamo tutti d’accordo: ma frate Francesco le avrebbe accettate? E lasciamo da parte gli esiti e gli usi musicali, cioè il main theme, anche se lì il discorso dovrebbe coinvolgere Riz Ortolani e Katyna Ranieri e Claudio Baglioni. Si ha un bel nascondersi dietro al Nume Tutelare della musica folk toscana, Alfredo Bianchini, o chiamare addirittura in causa a livello esegetico il «Laudario di Cortona»: resta il fatto che Dolce è sentire, più che eco dell’ispirazione francescana o della lirica trobadorica, risulta un calco nelle prima battute quasi letterale dell’Ite missa est gregoriano in chiave pacifistico-panteistico (civettando con il Flower Power degli hippies in un’atmosfera quasi presaga del New Age) che, scontati rinvii a parte, col Cantico delle creature – e rileggetevi un po’ Antonino Pagliaro, che diàmine! – non ha proprio nulla a che vedere. Altrimenti si finisce nel crepuscolo mistico-sincretistico in cui tutte le vacche son grigie e Francesco vale il Buddha e magari Martin Luther King o perfino Vasco Rossi.
Piaccia o no, chi ha còlto meglio il messaggio di Francesco, e proprio in riferimento alla discussa e sotto certi aspetti terribile pagine della «predica agli uccelli» con tutto il suo sottinteso significato apocalittico (il santo che si rivolge alle creature dell’aria perché gli uomini sono sordi al cospetto del messaggio divino) è stato Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, dov’è stata con geniale intuito compresa oserei dire appieno quella che Giovanni Miccoli definiva la «paradossalità alternativa» della «proposta cristiana» di Francesco. Che non era affatto ribelle alla Chiesa, anzi si fondava sul presupposto della Santa Obbedienza: ma era, esemplarmente, la sua.
Insomma: Zeffirelli pomposo e conformista, conservatore-populista caro ai cattolicuzzi da salotto, retorico e disinvolto traduttore della tormentata e raffinata filologia estetica di Luchino Visconti in un kitsch barocco ridondante di lussuoso ciarpame, incapace – come si è detto a proposito del Romeo e Giulietta – di tradurre il tema dell’eros kai thanatos se non in chiave di sdolcinata passione adolescenziale. A meno che la ragione per la quale una parte della critica lo ha sempre o quasi trattato così impietosamente risieda nel fatto che, come sosteneva lui, era l’intellighentzija «di sinistra» a detestarlo per il suo ostentato cattolicesimo e per la sua capacità di parlare, magari assecondandoli, ai gusti della gente, anche di quella che leggeva poco o nulla, anche ai Maestri di Vigevano e alle Casalinghe di Voghera? E lasciamo pure da parte la desolante Firenzina chiamata in causa da Montanari, con i suoi circoli pretesi «esclusivi» e il suo ostentato ma inconsistente presenzialismo alle inaugurazioni, alle «prime», ai vernissages: più che da «orbace», roba da grembiulini e da compassi.
Insomma, che cosa resterà del Franco Zeffirelli regista teatrale e cinematografico? Con lui se ne va un altro pezzo della storia del Novecento, un’altra tessera nel mosaico della vita di tutti noi che, per lunghi decenni, lo abbiamo avuto compagno di strada. Forse, meritava meno osanna e meno crocifige di quanti non ne abbia ricevuti in vita e immediatamente post mortem. Ma non neghiamogli un po’ di cristiana pietà. Non neghiamogli, come direbbe quella signora di Bagno a Ripoli che sembra stia diventando una nuova protagonista della politica dell’area fiorentina del domani, di accedere a quella Cultura del Rispetto che sembra ormai tanto necessario inaugurare nella nostra società.