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Francesco ai vescovi italiani: rendere vivi i principi dell’agire cristiano

L’invito in verità il Papa lo rivolge da tempo a tutti i cristiani: sia ai pastori che ai fedeli. Ma, tenendo conto degli interlocutori che ha davanti, il Santo Padre qui parla anzitutto ai vescovi italiani, dei quali è guida in quanto vescovo di Roma. Parla con il suo stile consueto, ben riconoscibile. Si mette anzitutto lui stesso in gioco, parte dalla sua propria esperienza, offre una testimonianza reale di come bisogna operare. Cerca in tal modo – e lo dice esplicitamente – di «porsi sul passo» di ciascuno. E chiede alcune cose ben precise.

Il tema di fondo è quello di come oggi viene vissuta e può essere concepita la Chiesa. Oggi: in un’epoca nella quale, come viene detto, la crisi, «più che economica è culturale, morale, spirituale». Ciò che Papa Francesco ci offre nel suo discorso è insomma una meditazione sulle nostre comunità, è una diagnosi sui loro problemi di fondo, è un’indicazione delle terapie da adottare per affrontarli, ciascuno secondo le sue responsabilità.

Tre sono i punti che egli sottolinea: il fatto che la Chiesa è anzitutto comunità di fede, nel nome del Cristo Risorto; il fatto che è luogo di comunione e di unità, capace di ricondurre le differenze a una dimensione collegiale; il fatto che è al servizio del Regno, di quel Regno «che è e che viene», e dunque è sempre attraversata da una riserva di futuro. Si tratta, a ben vedere, del rinnovato richiamo alle virtù della fede, della carità e della speranza.

Tutto ciò viene esplicitamente fatto valere contro le difficoltà che la Chiesa sta vivendo, soprattutto in Occidente. Ma c’è qualcosa di più che, anche in questo caso, il Santo Padre mette al centro del suo discorso. È il tema della motivazione.

Non basta solo dire, infatti, ciò che bisogna fare: è necessario indurre le persone a farlo. Non è sufficiente enunciare i principî dell’agire cristiano: bisogna renderli vivi nei comportamenti. Non si può restare «nelle chiusure di chi è convinto di averne abbastanza dei propri problemi, senza doversi curare pure dell’ingiustizia che è causa di quelli altrui; nell’attesa sterile di chi non supera il proprio recinto e non attraversa la piazza, ma rimane seduto ai piedi del campanile, lasciando che il mondo vada per la sua strada». Tanto più oggi: in una realtà nella quale non è dato di disertare «la sala d’attesa dei disoccupati, cassintegrati, precari, dove il dramma di chi non sa come portare a casa il pane s’incontra con quello di chi non sa come mandare avanti l’azienda». E in cui l’emergenza affratella tutti, sebbene in maniere diverse: le famiglie così come i migranti.

Di fronte a tutto ciò, per motivare davvero, ci vuole dunque «l’eloquenza dei gesti»: di gesti concreti. I gesti permettono di rendere visibile la verità. Senza l’impegno concreto, infatti, si resta sul piano, pur nobile, semplici idee. Che come tali non sono capaci di coinvolgere.

Ecco allora che anche il Convegno Ecclesiale di Firenze, il quale sarà celebrato il prossimo anno, dev’essere l’occasione per inforcare «occhiali capaci di cogliere e comprendere la realtà e, quindi, per indicare strade per governarla, mirando a rendere più giusta e fraterna la comunità degli uomini». Questo è il modo concreto di promuovere la prospettiva di un «nuovo umanesimo» per il nostro tempo, a cui il Convegno sarà dedicato. Questa, insomma, è la direzione che il Papa indica a tutta la Chiesa italiana: vescovi e sacerdoti, presbiteri e laici.