Finora l’hanno fatta franca. Non per questo dobbiamo pensare che rimangano senza volto e impuniti. Gli assassini del professor Marco Biagi sono persone che da anni vivono una doppia vita: perché si muovono in clandestinità per scelta dell’organizzazione o per necessità a causa della latitanza, ricercate da polizia e carabinieri o perché «insospettabili». Prima o poi faranno errori che li tradiranno. L’importante sarebbe accorgersene al momento giusto.Pensare come fanno certi commentatori politici che gli inquirenti «brancolino nel buio» è sbagliato. Dal 20 maggio 1999, giorno dell’agguato a Roma contro il professor Massimo D’Antona, le Procure competenti e gli apparati investigativi dello Stato hanno fatto un lavoro di contrasto e di «intelligence» che risulterà molto utile nel dispiegare le indagini per l’omicidio di Marco Biagi, attuato davanti alla sua porta di casa, a Bologna.Quattordici anni fa, il 16 aprile 1988, le «Brigate rosse – Partito comunista combattente», la stessa organizzazione clandestina armata che ha ucciso il professor Biagi, colpì a morte a Forlì, sulla porta di casa, il professor Roberto Ruffilli, costituzionalista.I responsabili di quell’omicidio sono stati scoperti, processati, condannati. In carcere alcuni di loro fanno gli «irriducibili». Rivendicarono l’agguato a Massimo D’Antona. Sarà questione di ore: rivendicheranno anche quello del 19 marzo a Bologna. La coppia di brigatisti, Maria Cappello e Fabio Ravalli, che si è fatta le ossa negli anni ’80 in Toscana, ancora una volta dal carcere di massima sicurezza di Trani metterà il sigillo, per dare l’imprimatur del Comitato esecutivo delle «Brigate rosse – Partito comunista combattente».Resta da risolvere una questione di fondo. Ma questi nomi di persone, queste vite da cancellare, da far smettere di studiare, ricercare, ragionare e perché no? mediare, sono vagliati e decisi autonomamente da queste organizzazioni segrete che hanno fatto la scelta della lotta armata in Italia oppure sono nomi «indotti» dall’esterno?Ci sembra questo un aspetto decisivo per capire meglio in quali acque e inquinate da chi nuotino i brigatisti rossi.Potremmo renderci conto come possa operare nella clandestinità un discreto numero di militanti delle «Br», come possano muoversi tra l’Italia, la Francia ed altri paesi europei e latinoamericani molti brigatisti latitanti ed ex di «Prima linea».Non è un mistero che gli inquirenti siano convinti, ad esempio, che in Toscana «sguazzino» più spesso di quanto non si pensi molti brigatisti ricercati. Ma la segnalazione giusta tarda a venire. Sempre per rimanere in tema, non dimentichiamo che tra gli assassini di Lando Conti, l’ex sindaco di Firenze, esponente stimato del Partito repubblicano, colpito con una mitraglietta il 10 febbraio 1986 alle porte di Firenze, ci sono due componenti del commando mai identificati. Gli inquirenti ne conoscono il nome di battaglia, ma non il volto. Si sono defilati da tutto o a distanza di 16 anni restano sempre operativi nelle «Brigate rosse». E, anche allora, chi «suggerì» l’obiettivo Lando Conti? A chi «faceva ombra» l’ex sindaco di Firenze. Qualcuno commissionò anni prima un «dossier» contro di lui, poi pubblicato dallo Psiup fiorentino. Forse meriterebbe rileggere «certi anni», capire quanti e quali tipi di finanziamenti «girassero» anche tra i partitini della sinistra.Lo stesso percorso potrebbe essere fatto per l’oggi. Non è poi così chiaro come prosperino certi «gruppetti». Certamente esprimono vitalità e creatività sociale, ma alcuni di loro sembrano destinati ad un rischio: anche involontariamente, fornire nuove leve alle «Brigate rosse». E non solo: ai NTA, Nuclei territoriali antimperialisti, ai GPS, Gruppi partigiani di sabotaggio, agli NCC, Nuclei comunisti combattenti.In Toscana c’è un arcipelago molto variegato. Ogni tanto trova più che legittime occasioni di cronaca internazionale o sociale per confrontarsi, coagularsi e contarsi. Non tutto sembra genuino. Qualche realtà pare più composta da infiltrati che da aderenti veraci. Quasi ci sia ancora un ufficio «Affari riservati» di famigerata memoria, nostalgico della «strategia della tensione» che in Italia dalle bombe del 25 aprile 1969 alla Fiera di Milano ha lasciato scorrere una scia di sangue da non dimenticare.S.A.Altri servizi:Le due facce del «18»Art. 18, troppi «urli», poche prospettive