Vita Chiesa
Firenze ricorda don Giulio Facibeni
«Nulla desiderare, se non il bene delle anime; essere il padre di tutti, anche di quelli che sono lontani, che misconoscono l’autorità del parroco e la disprezzano; mostrare la tenerezza di padre in preferenza ai poveri e agli infelici». Così scriveva, da giovanissimo pievano di Rifredi, don Giulio Facibeni. Un programma di vita che troverà la sua espressione più bella nell’«Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa»: l’istituto che, a cavallo delle due guerre mondiali, dette una famiglia a migliaia di orfani. Ancora oggi l’Opera gestisce case di accoglienza e scuole professionali in Italia, Brasile, Albania.
I cinquant’anni dalla morte offriranno diverse opportunità per conoscere meglio questa straordinaria figura. Lunedì 2 giugno, giorno dell’anniversario, ci sarà la Messa sulla tomba del «Padre»; domenica 8 giugno alle 11,30 la solenne concelebrazione nella Pieve di Rifredi, presieduta dal cardinale Ennio Antonelli. Le celebrazioni del Cinquantesimo saranno precedute, nei quattro giovedì di maggio, da altrettanti incontri serali nel teatro «Nuovo sentiero»: si inizia l’8 con una conferenza dello storico Pietro Giovannoni, mentre il 15 verrà presentata la nuova biografia scritta dal cardinale Silvano Piovanelli e pubblicata dalla Sef: “Don Giulio Facibeni. Il povero facchino della Divina Provvidenza”
Venerdì 23 maggio ci sarà anche una serata con letture, immagini e musica, che è stata inserita tra le manifestazioni del «Genio Fiorentino». «Don Giulio Facibeni. Il Genio della Carità» è proprio il titolo dell’evento, che si svolgerà nella chiesa di Santo Stefano al Ponte (vicino al Ponte Vecchio). A dare voce alle parole del «Padre» saranno gli attori fiorentini Riccardo Massai e Silvia Guidi, accompagnati dalle musiche del maestro Sergio Militello. I testi tratti dalle lettere, gli scritti e i discorsi di don Facibeni sono adattati da Riccardo Bigi; durante la serata saranno anche proiettati foto e filmati inediti dagli archivi della Madonnina del Grappa.
Il «facchino della Divina Provvidenza»
di Silvano Piovanelli
Nel 1923 nasce la Piccola Opera della Divina Provvidenza. A dire il vero, il nome – Piccola Opera della Divina Provvidenza – uscirà ufficialmente dal Congresso Parrocchiale dell’ottobre 1924. Il motto «et nos credidimus charitati» che nel lontano 1947 anch’io ho visto, ormai sbiadito dalla pioggia, sul muro dell’Opera dalla parte di via delle Panche, è del 1926. I primi orfani entreranno il 4 novembre 1924. Ma la decisione di tagliare i ponti e di iniziare il cammino affidandosi unicamente alla Provvidenza è già chiarissima nel 1923.
Si tratta di una svolta nella vita di don Giulio. È un avvenimento di grazia, che il Pievano sente in termini di conversione e come tale lo presenta al popolo. Il progetto «Salviamo i fanciulli!» è noto da tempo ed anche la costruzione del Nido con annesso un Rifugio per le cinque orfanelle della Parrocchia era promesso da tempo. Ma don Giulio avverte che il Signore lo chiama a cominciare un cammino nuovo. (…)
Per chi lo guarda dal di fuori, don Giulio vive uno sviluppo coerente della sua vita di sacerdote fedele al Signore e attento ai fratelli, specie se poveri e bisognosi. Ma, nella realtà, egli sta vivendo un punto di partenza, è l’inizio di quella strada che percorrerà sino all’ultimo respiro della sua vita. Infatti possono essere evidenziate quattro linee che, già chiare sin d’ora, saranno le linee caratteristiche della sua spiritualità.
Don Giulio comprende che per partire Dio gli chiede di affidarsi totalmente alla Provvidenza. Cerca di farlo capire anche alla gente portando l’esempio di S. Filippo Neri, che «non solo iniziò la grandiosa Chiesa di S. Maria alla Vallicella senza denari, ma mai ne chiese; anzi proibì persino di chiederne in nome suo! Eppure il tempio magnifico sorse in breve quasi prodigiosamente… Vi sono appena i denari per le fondamenta, denari che rappresentano migliaia di punti d’ago delle nostre giovani e delle nostre fanciulle. L’atto potrà essere giudicato una pazzia… Esso deriva invece da una fede incrollabile nella Divina Provvidenza» (28 giugno 1923). È l’atteggiamento di fede che accompagnerà don Giulio per tutta la vita e che molti di noi hanno potuto verificare direttamente.
Come «per fede Abramo, chiamato da Dio… partì senza sapere dove andava» (Ebr. 11,8), così don Giulio al momento della posa della prima pietra del Nido non prevede nessuno dei futuri sviluppi dell’Opera. Nel 1926 lui stesso rifletteva pubblicamente: «Nella breve storia dell’Opera come appare chiaro che il Signore vuole fare Lui: quante volte ci ha già cambiato – la frase è del Cottolengo – le carte in tavola! L’idea dell’Orfanotrofio era sì nella mente, ma vaga, una aspirazione lontana che spesso si scacciava come una tentazione: la prima pietra del locale fu posta con l’intenzione di ospitarvi il Nido e le poche orfanelle da anni già ricoverate in Istituto a spese della nostra sezione Orfani di guerra: invece un anno dopo accoglieva poveri orfanelli; si voleva dare all’Orfanotrofio il carattere di ricovero non oltre i dodici anni, affidandone l’andamento magari a Suore: due anni dopo si comprende che il Signore vuole un vero rifugio per i giovanetti abbandonati». Non, quindi, un progetto chiaro e definito sin dall’inizio, ma il progetto del Signore che si scopre via via che si va avanti. In Brasile si dice: è camminando che si apre il cammino!
Don Facibeni era un temperamento mistico e viveva tutto dentro, con singolare intensità. Ma non rifacendosi a fenomeni straordinari. Mai una volta egli si è appellato a rivelazioni del genere. Una volta, all’inizio della seconda guerra mondiale, acconsentì ad accompagnare il fratello a S. Giovanni Rotondo da Padre Pio da Pietrelcina per domandare se suo figlio, dato per disperso nel mare Adriatico, fosse vivo o morto. Padre Pio era già in fama di carismatico. Ma don Facibeni non si è mai riconosciuto certi carismi. Egli è guidato unicamente dalla fede e spesso da una fede nuda, che non ha altri riferimenti ed appoggi al di fuori della Parola del Signore. Diceva di essere un «umile sterratore», un operaio taciturno che «più egli affonda sotto terra, più salde saranno le fondamenta dell’edificio».
Sempre, specialmente nei primi anni, c’è un vero e proprio impegno di catechesi al popolo con mille esempi tratti dalla vita dei santi per far comprendere che la via della Provvidenza coincide sempre con la via della croce. Concretamente è la via della immolazione e del sacrificio: «morire ogni giorno a noi stessi perché la verità di Cristo prenda pieno assoluto possesso dei nostri cuori e mai la polvere dei nostri difetti, l’ombra del nostro io si elevi davanti agli occhi degli uomini quasi a velare la bellezza radiosa dell’Opera».
Sono le caratteristiche di tutta la sua vita, che i sacerdoti e i membri dell’Opera s’impegnano a custodire e far crescere nella propria vita: la fiducia assoluta nella Divina Provvidenza, l’obbedienza alle indicazioni dello Spirito, la fedeltà all’ordinario della vita, l’accoglienza della logica della croce.
L’Opera non vuole essere un collegio, un istituto per fanciulli abbandonati, ma una vera famiglia, nella quale gli orfani sono accolti ed amati: i ragazzi chiameranno don Giulio «padre» e don Giulio li chiamerà «figliuoli». In prima fila sono gli orfani di guerra, ma poi vengono e verranno sempre di più tutti i fanciulli più bisognosi, compresi «i poveri bimbi senza nome» che sono forse più infelici dei veri orfani. Si comincia dai ragazzi poveri e abbandonati del rione, ma “«e anche dal di fuori qualche voce dolorosa di bimbo invocherà il nostro aiuto… apriremo le nostre braccia».
Nessuna retta verrà richiesta. Chi ha possibilità potrà sempre trovare ottimi collegi, mentre l’Opera si affida al buon cuore di chi presenta i fanciulli e crede incrollabilmente nei miracoli della carità cristiana. Il sogno è avviare i ragazzi ad un mestiere e quindi tenerli fino a diciotto anni, facendo sorgere per loro scuole professionali.
Perno di tutto è la Parrocchia. Non solo per via delle strutture messe a disposizione, ma per i collaboratori che si consacrano a questo servizio e per la generosa partecipazione di tutto il popolo.
Vale la pena di sottolineare: non si tratta solo dell’entusiasmo del Pievano, ma di un vero fervore di popolo: «bimbe della scuola che portano i loro risparmi; operai che nelle ristrettezze del momento presente, al sabato fanno un generoso pensiero per i nostri orfanelli; madri di famiglia che iscrivono nel loro modesto bilancio la lira, le cinque lire mensili per l’Orfanotrofio; coloni che portano i frutti dei loro campi».
«Quello che più meraviglia e conforta – scrive il Pievano nel 1927 – è l’affetto con cui il popolo circonda i nostri orfani. Quanti pensieri gentili, quante attenzioni, quanti sacrifici per loro! Nei dolori si ricorre alla loro preghiera, nelle gioie si vogliono in qualche modo partecipi… Non riunione serena di amici senza un pensiero agli orfani… Umili donne che danno la loro umile offerta, frutto di vero sacrificio, e magari si fanno mendicanti per l’Opera. Tutti questi palpiti di carità che l’Opera suscita non diffondono forse un senso di bontà e non rendono più profonda l’unione degli animi?» (1927).
Gli orfani della Madonnina sono ormai al centro della parrocchia ed anche del rione. Don Giulio ha raggiunto quello che si era proposto: «al di sopra delle lotte di parte», un centro di carità che unisse tutti e smorzasse ogni contesa.