Arte & Mostre
Firenze, «L’Ultima cena» del Vasari a prova anche di alluvioni
La luminosità dell’Ultima cena di Giorgio Vasari del Cenacolo di Santa Croce, con il meccanismo che ne garantisce la rapida messa in sicurezza in caso di emergenza in 9-11 secondi, è il simbolo del definitivo superamento delle profonde ferite dell’alluvione del 1966.
Questa mattina la singolare procedura di messa in sicurezza dell’opera è stata attivata nell’ambito di una esercitazione di salvaguardia dei beni culturali, collegata al corso di formazione su Prevenzione ed emergenza nei musei e nei siti musealizzati.
Il corso, a cui hanno partecipato circa 40 volontari che si preparano ad agire con competenze specifiche in caso di rischi per il patrimonio culturale, era promosso, in collaborazione con l’Opera di Santa Croce, dalla Federazione italiana Amici dei musei di Firenze, dal Comitato della Croce Rossa Italiana di Firenze, e dalla Società italiana per la Protezione dei Beni culturali (Sezione regionale toscana). La procedura è stata illustrata da Giuseppe De Micheli, segretario generale dell’Opera di Santa Croce e da Elvezio Galanti, già dirigente generale del Dipartimento di protezione civile e docente di Protezione civile all’Università di Firenze.
Il restauro dell’Ultima cena è stato una sorta di miracolo, a cui hanno contribuito competenze eccezionali e scelte tecnologiche innovative. La grandiosa tavola (larga circa 5 metri e 80 centimetri e alta 2 metri e 60 centimetri) è stata collocata nel Cenacolo nel 2016, dopo un complesso intervento di recupero durato oltre dieci anni. È stato curato dall’Opificio delle pietre dure, sotto la direzione di Marco Ciatti e Cecilia Frosinini, e finanziato dalla Protezione civile, dalla Getty Fundation e da Prada.
La protezione dell’Ultima cena è garantita da un meccanismo progettato da Sertec sas e dalla struttura tecnica dell’Opera di Santa Croce, in collaborazione con GeoApp, spin off dell’Università di Firenze. In caso di emergenza una sola persona, semplicemente abbassando una leva, è in grado di provvedere a mettere in sicurezza la tavola, che pesa 600 chilogrammi, sollevandola di 3 metri e mezzo per raggiungere i 6 metri di altezza, quota che supera di un metro il battente dell’alluvione del 1966. Viene attivato un sistema di contrappesi con carrucole, mentre è stata scartata l’ipotesi di utilizzo di apparecchiature elettriche o elettroniche per evitare il rischio di interruzione di energia elettrica.
La struttura lignea di contenimento del dipinto è stata dotata di un telaio metallico al quale sono ancorate delle barre estensibili la cui estremità è fissata alla parete del cenacolo mentre due catene collegano l’opera con il contrappeso posto sulla parete esterna del cenacolo. Il sistema esterno di ingranaggi meccanici, infine, è dotato di un blocco di sicurezza del contrappeso per mantenere in posizione espositiva il dipinto e di un sistema frenante. In caso di sollevamento del dipinto, il sistema frenante consente di ridurre progressivamente la velocità del movimento fino a fermare bloccare in posizione elevata.
Per garantire ulteriormente la protezione della tavola, sul suo retro, l’Opificio ha realizzato una scatola di stabilizzazione climatica per prevenire eccessivi movimenti del legno e permettere una migliore conservazione degli strati pittorici.
Nel novembre 1966 la tavola, composta da cinque pannelli di pioppo, era esposta nel Museo dell’Opera di Santa Croce dove rimase, per ore e ore, immersa nell’acqua e nel fango. L’oltraggio sembrava irrimediabile. A scongiurare le estreme conseguenze fu l’intervento di Umberto Baldini, allora direttore del Laboratorio di restauro della Soprintendenza, che prevedendo l’irreparabile distacco del colore, a causa del rigonfiamento e della successiva contrazione del supporto in legno, decise di portare la tavola nella Limonaia di Boboli. Qui, dopo aver protetto immediatamente i colori con una velinatura, venne assicurato un processo di asciugatura graduale e quindi meno rischioso per la tenuta dell’opera che comunque subì danni pesantissimi.