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Firenze 2015: sintesi e proposte dei gruppi

1) LE CINQUE VIE: USCIRE

Sintesi di Don Duilio Albarello, Docente di teologia fondamentale (Facoltà Teologica Italia Settentrionale)

Per introdurre questa relazione finale sulla via dell’«uscire», faccio riferimento ad un passaggio del discorso che ci ha rivolto papa Francesco:

«Voi uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo».

In queste parole del papa, troviamo l’indicazione ai cristiani cattolici italiani del grande compito per il nostro tempo, segnato dalla creatività e dal travaglio tipici di ogni cambiamento d’epoca. Quando si presentano nuove sfide, addirittura difficili da comprendere, la reazione istintiva è di chiudersi, difendersi, alzare muri e stabilire confini invalicabili.

È una reazione umana, troppo umana. Tuttavia i cristiani hanno la possibilità di sottrarsi a questo rischio, nella misura in cui diventano davvero consapevoli che il Signore è attivo e opera nel mondo: non solo nella Chiesa, ma proprio nel mondo, proprio dentro e attraverso quel cambiamento e quelle sfide.

Allora si apre una prospettiva nuova: si può uscire con fiducia; si trova l’audacia di percorrere le strade di tutti; si sprigiona la forza per costruire piazze di incontro e per offrire la compagnia della cura e della misericordia a chi è rimasto ai bordi.

Questo è il «sogno» di papa Francesco per gli uomini e le donne che testimoniano Cristo oggi in Italia. Dipende da noi metterci cuore, mani e testa affinché questo «sogno» possa diventare realtà. Condizione essenziale è quella di riconoscere che «uscire» è più un movimento che una dotazione; non costituisce un’attività particolare accanto ad altre, bensì rappresenta lo «stile», ovvero la forma unificante della vita di ciascun battezzato e della Chiesa nel suo insieme. Infatti, come ha rimarcato il papa, «l’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale».

1) Lo Spirito all’opera

La «umanità in uscita», che scopre nel rapporto credente con Gesù Cristo la sua sorgente e il suo modello, non è una realtà senza luogo; piuttosto, essa trova il suo luogo visibile e sperimentabile nel vissuto delle comunità ecclesiali. Ciò si riscontra particolarmente in alcuni tratti di questo vissuto, nei quali si scorge lo Spirito all’opera:

– sempre di più si avverte nelle comunità cristiane la messa in atto di un cammino di conversione all’essenziale, di maturazione del senso autentico della povertà evangelica, riconoscendo con maggiore limpidezza che la cura per la trasmissione della fede è la ragione fondamentale del nostro essere Chiesa;

– inoltre, è in atto un cammino in uscita motivato dall’ascolto della Parola di Dio compresa alla luce della grande Tradizione ecclesiale. Questo ascolto, che è conversione a Cristo e al suo Vangelo, spinge nello stesso tempo ad essere più liberi e più creativi nel vivere la missione evangelizzatrice, rende più aperti alla realtà, più estroversi, capaci di riconoscere e di servire quanto lo Spirito va operando nell’umano, tra le donne e gli uomini del nostro tempo;

– ancora, la celebrazione eucaristica domenicale sembra essere vissuta come luogo formativo dell’uscire, del prendersi cura e dell’accompagnare la vita nella modalità del farsi dono, dalla quale scaturiscono i motivi dell’incontro e i criteri guida per ogni espressione di Chiesa e ogni attività pastorale;

– un rilievo del tutto particolare è riconosciuto alla cura nei confronti delle persone segnate da diverse forme di emarginazione e da ferite provocate da sofferenze o situazioni della vita. A questo livello, appare ben visibile una vera e propria «costellazione di espressioni di carità» che connotano la pratica quotidiana della Chiesa,arricchita anche dal recupero conciliare del diaconato permanente;

– un ulteriore luogo di visibilità dell’umanità in uscita è dato dalla presenza dei giovani. Cito un’osservazione espressa dal tavolo dei giovani all’interno del gruppo: «La prima risorsa sono i giovani stessi. Purtroppo essi si trovano già in uscita, sia da una società che sembra non aver più bisogno di loro […], che da una Chiesa per la quale provano poco interesse e fascino. Le comunità non di rado tendono a trattenere i giovani, in un disperato tentativo di serrare le fila, nella paura che vadano, che si intromettano, che si sporchino. Occorrono comunità audaci, capaci di scommettere sui giovani, ben sapendo che commetteranno errori e combineranno guai, ma pronte ad accoglierli e comprenderli (non a scusare ogni pigrizia e tollerare l’apatia). I giovani, per la loro diversa sintonia con le cose della storia e dello Spirito, possono aiutare più di ogni altro le comunità a ripensarsi aperte e in uscita e ad avventurarsi per nuovi percorsi di annuncio»;

– infine, un luogo significativo dell’umanità in uscita è data dai gesti e dai segni di accoglienza delle persone provenienti da inedite frontiere di dramma, come quella dell’esodo di popoli. L’arrivo di queste persone, fisicamente e forzatamente «in uscita» dalle loro terre, mette alla prova la nostra autentica disponibilità a non trasformare il riferimento alla via dell’uscire in un puro esercizio retorico, in quanto ci spinge a passare da progetti puramente assistenziali a progetti di  «inclusione e integrazione sociale e comunitaria», come il Papa ha ricordato durante la visita pastorale a Prato.  

2) Linee di azione

L’indicazione di alcuni luoghi concreti già in atto, nei quali si può toccare con mano lo stile dell’«uscire», non ci esime dal riconoscere che resta ancora molto cammino da compiere, per avvicinare sempre di più alla realtà il «sogno» di una Chiesa in uscita. A tale riguardo, emergono differenti linee di azione dalle scelte individuate nei gruppi.

Anzitutto, sembra importante sottolineare l’esigenza di evidenziare la dimensione umana di Gesù, come punto di partenza per una proposta testimoniale che sia vicina al «sentire» delle persone e quindi non astratta. Porre al centro Gesù Cristo, nella sua identità integralmente umana e proprio per questo pienamente divina, significa raccogliere la spinta a semplificare, tornando all’essenziale; soprattutto, significa uscire da noi stessi, lasciarsi snidare, vincendo la tentazione di un troppo facile accomodamento. A questo proposito, vorrei citare un’immagine efficace, espressa dal tavolo dei giovani:

«Occorre fare un falò dei nostri divani. Raccapricciarci della cristallizzazione delle nostre abitudini, che trasformano le comunità in salotti esclusivi ed eleganti, accarezzando le nostre pigrizie e solleticando i nostri giudizi sferzanti. Occorre darci reciprocamente e benevolmente, ma con determinazione ed energia, quella sveglia che ci ricorda che siamo popolo in cammino e non in ricreazione, e che la strada è ancora lunga».

Serve allora in primo luogo, come si diceva all’inizio, un cambiamento di stile. Non si tratta di «fare» per forza cose nuove, di avviare chissà quali iniziative, bensì di convertire la forma complessiva dell’agire pastorale, per renderlo maggiormente capace di mettersi a servizio dell’incontro di ciascuno con Gesù Cristo e la sua forza di autentica umanizzazione. L’incontro testimoniale con altri, se non vuole correre il rischio di rimanere un contatto superficiale, deve accadere sempre volta per volta, e volto per volto.

Di conseguenza, per uscire verso gli altri è necessario accorgersi di chi ha bisogno, e non solo della sua indigenza; è necessario essere in grado di mappare il territorio, monitorarne le dinamiche, anche grazie ad “antenne sociali” disseminate, cioè a punti di riferimento di singoli e famiglie in grado di portare nelle comunità ecclesiali le domande di vita spesso nascoste o ignorate.

A questo riguardo, superando un latente clericalismo, è indispensabile recuperare una presenza laicale capace di ripartire verso nuove frontiere. Occorre dunque tornare a parlare dell’identità del cristiano impegnato come figura da non confondere o identificare con l’operatore pastorale. Tocca in particolare ai laici – senza ulteriori specificazioni e specializzazioni – presentare all’attenzione della comunità cristiana l’ordine del giorno del mondo, con uno sguardo globale e un agire locale, per scongiurare il rischio di insignificanza o di mera organizzazione dell’ordinario.

Lo Spirito chiede una continua uscita/conversione a tutti i credenti affinché si riconoscano evangelizzatori; una conversione che non si pone solo sul piano morale, ma anche sul piano dell’apertura mentale e della fedeltà all’impulso imprevedibile dello Spirito stesso, per superare le precomprensioni rigide e per riscoprire la forza liberante del Vangelo. C’è bisogno inoltre di suscitare nuove figure educative non previste dalla pastorale convenzionale (ad esempio, educatori di strada ed educatori della notte), che siano adeguatamente preparate e accompagnate. Così come sarebbe opportuno valorizzare di più la figura dei diaconi permanenti, affinché vivano il loro ministero come un servizio a tessere una rete di comunione a partire dal basso, dall’incontro effettivo con le persone nelle loro situazioni comuni di vita: diaconi che siano occhi, bocca, orecchie, mani di una Chiesa tra la gente.

Inoltre, per crescere nello stile testimoniale, sembra importante riconfigurare e rilanciare gli organismi di partecipazione

La corresponsabilità è chiamata ad esprimersi anche attraverso la costruzione di una rete tra le comunità ecclesiali. A tale riguardo, uno strumento concreto potrebbe essere la creazione di un sito in cui, stabilmente, tutte le diocesi italiane condividano tanto sollecitazioni spirituali quanto iniziative di tipo pastorale. Il fine sarebbe quello di favorire un interscambio di «modalità di uscita» innovative ed efficaci, nonché un dono reciproco tra le diocesi di operatori pastorali esperti in determinati ambiti. Mettere in rete infatti significa anche mettere in comunione i percorsi della vita delle Chiese locali. Più ampiamente, significa promuovere una pastorale in prospettiva digitale, necessaria per l’indole di una Chiesa aperta e in dialogo soprattutto con i giovani.

Infine, non si può omettere il riferimento all’apertura alla dimensione universale della Chiesa, in particolare nella forma del rilancio dell’esperienza dei fidei donum, andando peròin maniera prioritaria nella direzione di un’interazione tra diocesi, anziché privilegiare l’esperienza individuale del singolo missionario.

3) Impegni

La messa a fuoco delle linee di azione ci chiede infine di rimarcare alcuni impegni più precisi, da affidare allo sforzo creativo di progettualità delle nostre Chiese locali. Ne evidenzio tre:

A) Avviare un processo sinodale: l’esperienza vissuta durante i giorni del Convegno ci ha permesso di saggiare e condividere uno stile di ascolto e di confronto; ci ha fatto sperimentare che è realmente possibile esercitare il discernimento comunitario, anche attraverso la fatica benedetta del lavorare assieme di laici, presbiteri, vescovi, religiose e religiosi. L’esperienza e lo stile che abbiamo vissuto destano un desiderio di modalità di vita ecclesiale, che chiede di essere partecipato attraverso la testimonianza dei delegati che a diverso titolo ne hanno preso parte. Incamminarsi in un percorso sinodale è la strada maestra per crescere nell’identità di Chiesa in uscita, capace di mettersi in movimento creativo, innovando con libertà dentro un orizzonte di comunione.

B) Formare all’audacia della testimonianza: occorre avviare processi che abilitino i battezzati ad essere evangelizzatori attenti, capaci di coltivare le domande che provengono dall’esperienza di fede e di andare incontro a tutte le persone animate da una autentica ricerca di senso e di giustizia. La mediazione ecclesiale dell’evangelizzazione riveste il compito essenziale di guidare all’ascolto della Parola di Dio in tutta la sua ampiezza e di mostrare come il Vangelo sappia interpretare la condizione di vita di ogni uomo, aprendola a possibilità e a significati di salvezza che si fondano sulla gratuità dell’azione di Dio in Gesù Cristo. L’annuncio del Vangelo non deve essere offerto come una summa dottrinale o come un manuale di morale, ma anzitutto come una testimonianza sulla persona di Cristo, attraverso un volto amichevole di Chiesa tra le case, nella città.

C) Promuovere il coraggio di sperimentare: è l’indicazione formulata ancora dalla tavola dei giovani, i quali propongono ad ogni comunità cristiana di «costituire un piccolo drappello di esploratori del territorio, che non si perdano in ampollose analisi sociologiche o culturali, ma si impegnino ad incontrare le persone, soprattutto nelle periferie esistenziali dove l’uomo è marginalizzato. L’approccio non è quello di chi va a risolvere problemi perché ha soluzioni pronte e risposte a tutto, ma di chi si china a medicare le ferite con la stessa fragilità e povertà».

Certo, la forma strutturale della Chiesa in uscita è la relazione rinnovata con chiunque, specialmente con i poveri e i cosiddetti lontani. Forse è proprio questo che permette al «sogno» di papa Francesco di diventare realtà: si tratta di non limitarsi ad assumere l’atteggiamento delle sentinelle, che rimanendo dentro la fortezza osservano dall’alto ciò che accade attorno, bensì coltivare l’attitudine degli esploratori, che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di incidentarsi e di sporcarsi le mani. D’altra parte, i discepoli del Signore sanno che non si esce per dare un’occhiata, ma per impegnarsi nel viaggio senza ritorno che è l’esistenza segnata dalla passione per tenere vivo il fuoco dell’Evangelo, quel fuoco che è capace – oggi come sempre – di illuminare la strada verso l’autentica umanizzazione.

2) LE CINQUE VIE: ANNUNCIARE

Sintesi di Flavia Marcacci, Docente di storia del pensiero scientifico (Pontificia Università Lateranense)

1. Rallegrati!

«Rallegrati», dice l’angelo a Maria (Lc 1,26). L’annuncio ha da subito il sapore della “gioia”. Come la Vergine, sperimentiamo davvero l’Evangelii gaudium, la gioia del Vangelo.

E prima di inoltrarci nella sintesi mi piace restituire uno stato d’animo che mi è stato condiviso dai moderatori della via Annunciare, da molti facilitatori e partecipanti. Confrontarci sul Vangelo ha generato gioia. Quello del convegno è stata l’occasione preziosa per fare un’esperienza positiva di Chiesa, in un tempo di tensione che ha affaticato e fatto soffrire molti fedeli.

Annunciare è gioire, è aumentare la propria vita (EG 10); è «osare», afferma un gruppo; «è condividere», perché non esiste gioia che non senta il bisogno di essere condivisa. La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione (Benedetto XVI, 13 maggio 2007, cit. in EG 14). Annunciare la gioia, non la paura: la gioia non è allegrezza da esibire, né superficialità, né senso di superiorità, né sarcasmo, né cinismo, ma profondità, leggerezza e umiltà. Annunciare è la novità che si matura nell’ascolto, e nei gruppi è emerso un grande desiderio di mettersi in ascolto, ancor prima di parlare.

Come ascoltare? Lasciandoci guidare dai misteri centrali della nostra fede. «Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio» (Discorso di papa Francesco). Proprio il kerygma ci restituisce la dinamica complessiva dell’annunciare: il Verbo incarnato (che dà attenzione alla concretezza delle situazioni reali delle persone con le quali Gesù ha comunicato mediante una parola semplice, diretta, chiara, carica di verità), Gesù che è morto (e che muore nelle difficoltà, nei fallimenti, nella sofferenza e nell’esperienza della morte che ognuno di noi può aver fatto), Gesù che è risorto (perché la morte offerta per amore non è l’ultima parola, perché quello che all’uomo sembra impossibile e assurdo non è impossibile a Dio, perché si possa sperimentare la salvezza e la gioia di una esistenza trasfigurata, carica di prospettive e capace di sperare).

2. Nel mistero dell’Incarnazione

Gesù si è incarnato, «la dottrina è carne», ci ha detto il papa martedì. Come portare questa carne, iniziando da chi è indifferente o lontano?

È forte in tutti i gruppi di lavoro la volontà dicreare relazioni, prendersi cura e accompagnare. Questa volontà è un desiderio che nasce dal vivere prima di tutto la bellezza della relazione personale con Gesù, che va curata e custodita nella propria interiorità e nelle comunità. Per donare Gesù agli altri è essenziale creare percorsi di accompagnamento concreto e personalizzato. Ogni persona è degna della nostra attenzione (EG 274) che diventa ascolto delle esperienze concrete.

Gesù si conosce tramite la sua Parola, tramite la Scrittura, che ha valore performativo e crea «relazioni vere di incontro e condivisione», come spiega un gruppo. « È questo il primo passo – ha sottolineato un altro gruppo – per l’instaurarsi di una vera relazione: il linguaggio della vita». È questo l’umanesimo che già c’è nelle nostre Chiese e che vuole ancora più centralità e vigore.

Qui anche l’importanza della testimonianza, che suscita domande e rende desiderabile camminare con Gesù. Si può testimoniare solo dopo aver fatto esperienza concreta di Gesù, e dopo aver rinnovato la nostra risposta alla domanda: «Ma voi chi dite che io sia?» (cf. Mc 8 e par.). Così l’annuncio rigenera chi annuncia, come un gruppo afferma: «L’annuncio è uno spazio che genera partecipazione e fa sentire accolti».

«La dottrina cristiana non è un sistema chiuso, incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo» (Discorso di papa Francesco).

Spesso incontriamo persone che sono lontane dalla Chiesa, addirittura sospettose: sono «coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato» (EG 14). Come incontrarle nel modo in cui Gesù ha incontrato Zaccheo e la Samaritana? O, anche, come fare con coloro che provengono da realtà culturali molto diverse dalla nostra? Conoscerli e poi tornare alle radici dell’umano permette di costruire una Chiesa di inclusione e non di esclusione, perché l’umano è il luogo dove si radica la verità di Dio, quella verità «che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare» (EG 265). L’annuncio, così, si fa eloquente quando è fatto di gesti che hanno il gusto della carità animata dall’adesione a Cristo, dall’imitazione delle sue azioni, dal racconto dei suoi miracoli e dei suoi incontri con le persone.

Ma anche chi già cammina da tempo ha bisogno di ascolto e di rinnovare la propria mente per non “raffreddare” la propria umanità. L’incontro con la differenza, la percezione dei propri limiti e la consapevolezza di essere amati porta a tornare sulle proprie motivazioni e a riscoprire in noi il volto di Cristo e la sua infinita tenerezza (cf. EG 3).

3. Ai piedi della croce

Afferma papa Francesco: desideriamo una «stagione evangelizzatrice più fervorosa, gioiosa, generosa, audace, piena d’amore fino in fondo e di vita contagiosa!» (EG 260). Ma «come cantare i canti del Signore in terra straniera?» (Sal 137,4), si chiede il salmista: in quella terra straniera che è il dolore, la solitudine, la contraddizione, la morte? È una terra straniera perché non siamo fatti per il dolore. È una terra straniera perché sempre irta di difficoltà e contraddizioni.

Gesù muore per noi. E allora chi annuncia impara dapprima a morire a se stesso. Sempre nell’uomo c’è il rischio dell’egocentrismo e di annunciare se stesso. Inoltre oggi sembra più difficile di ieri portare il vangelo, ma è solo diverso, per le specifiche difficoltà legate alla nostra epoca (EG 263), piena di sfide che possono però diventare occasioni di annuncio.

Ecco alcune difficoltà emerse dai gruppi, a titolo puramente emblematico:

  • Autoreferenzialità.

  • Devozionismo.

  • Clericalismo.[1]

  • Povertà formativa: »Molti nostri operatori sono animati da un grande cuore, ma il grande cuore non basta». Quando prevalgono questi elementi[2], l’annuncio si fa difficile, impossibile o sterile.

Serve piuttosto formazione, comunione, creatività e credibilità per annunciare.[3]

4. Nello Spirito del Risorto

La speranza è legata alla progettualità. E alla certezza che Cristo è già risorto, fonte della gioia. Abbiamo bisogno di un radicamento interiore, cioè «della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché ‘abbiamo questo tesoro in vasi di creta’ (2Cor 4,7)» (EG 279). Un tesoro, nascosto quasi come la vita nascente in un grembo materno. Un gruppo in particolare ci dona un’immagine molto suggestiva: «Maria che visita Elisabetta può essere vista come icona di colei che con umiltà reca concretamente colui che annuncia». Come ha detto papa Francesco: «Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna e accarezza» (Discorso di papa Francesco). Così aiuta a crescere e maturare. Ribadisce un gruppo: «La Chiesa ha un volto femminile, come quello di Maria, che porta Gesù nascosto nel grembo e in questo modo lo porta incontro a ogni persona». Per questo più la Chiesa dà parola alle famiglie che la compongono, più diventa Chiesa madre.

Cosa propongono in sintesi i 500 della via Annunciare? Quali impegni chiedono alla Chiesa oggi in relazione alla nostra via?

– Passare da una attenzione esclusiva verso chi viene evangelizzato a una specifica attenzione a chi evangelizza. Qui emerge tutta l’importanza della comunità ecclesiale come soggetto di evangelizzazione e al suo interno, in particolare, delle famiglie.

– Attenzione alla formazione. Vari gruppi considerano necessaria «la revisione del sistema educativo della Chiesa»: non solo l’iniziazione cristiana e l’educazione dei bambini e dei ragazzi, ma la stessa formazione degli operatori, con particolare attenzione agli itinerari formativi che coinvolgono preti, religiosi e laici, uomini e donne. Del resto «Gesù lavorò molto con i propri discepoli», nota un altro gruppo. «Occorre il coraggio di partire da sé stessi». Occorre professionalità, rigore e capacità di attingere dalla ricchezza della cultura cristiana per poi confrontarsi davvero con le istanze del nostro tempo.

– Quanto alla modalità della proposta occorre continuare il lavoro circa il rinnovamento degli itinerari: con adulti, con giovani coppie, con adolescenti e giovani, con bambini e famiglie, e così via, coinvolti nei cammini dell’iniziazione cristiana. Anche la ritrovata attenzione allo stile catecumenale aiuta a ideare non corsi ma percorsi, dove offrire contenuti, ma soprattutto aiutare a vivere sempre più autenticamente il Vangelo. 

– Infine è stato manifestato grande interesse alla questione dei linguaggi: occorre che siano chiari e diretti, semplici e profondi, capaci di portare a tutti la Parola. È così profonda la sete di Parola che si chiede di condividerla e non riservarla ai soli specialisti, pur riconoscendo l’importanza del loro lavoro.

Ecco esemplificate in maniera più ampia alcune proposte dei gruppi, raccolte per grandi aree di attenzione:

Annunciare significa mettere al centro il Vangelo

  • Vari gruppi sottolineano «l’importanza della conoscenza della parola di Dio», fino a farla diventare un’esperienza ordinaria della formazione cristiana. Occorre rimettere al centro della vita della Chiesa l’ascolto del Vangelo, elemento di unione e di aggregazione. Altri sottolineano che occorre «saperlo attualizzare», perché esso genera realmente «un profondo processo di conversione personale, comunitaria e pastorale». 

  • Ciò richiederà alle comunità cristiane di essere spazi di incontro con la Parola, fatti di silenzio, di preghiera, di contemplazione, di studio, di ricerca innovativa. Preziosa sarà quindi la lectio divina e la lettura popolare della Bibbia; ma anche esperienze innovative, simpatiche e  di incontro sulla Parola. Un contributo giunto tramite facebook chiede: «Sentiamo il bisogno che la Bibbia ci sia riofferta, ci sia spalancata con il vigore della lettura, della predicazione, del teatro, dell’arte, della musica».

Annunciare significa agire, decentrarsi, aprirsi a tutti 

  • È l’ascolto meditato e pregato del Vangelo che permetterà allo Spirito Santo di portare la comunità sulle strade degli uomini, per incontrare le fragilità dell’umano, negli incroci dei sentieri della vita in un percorso fatto di vicinanza, accoglienza, incontro, accompagnamento e condivisione, con grande attenzione alle esigenze dei territori. Vari gruppi parlano di: «Ascoltare, più che dire; incontrare più che portare»; «Attivare buoni processi, potenziare le buone prassi già in atto, creare nuovi spazi di confronto e di dialogo».

  • È vivo il desiderio di «Includere persone disabili, immigrati, emarginati» e le loro famiglie. Occorre acquisire la competenza necessaria per aiutare, sostenere, accompagnare e annunciare la speranza di una vita nuova e la dolcezza di un Gesù amico che non abbandona. In ogni contesto ambientale (scuola, lavoro, università, ospedali, carceri, social, media, non luoghi, …) ed esistenziale (disagi psichici, crisi coniugali, problemi educativi, …) in cui si trovano.  Confrontarsi con la malattia, il disagio fisico e psichico, la disabilità e la fragilità costringe a fare i conti con la realtà di un’esistenza che non fa sconti a nessuno. Lo stesso dicasi per molte famiglie che vivono varie forme di fragilità nel rapporto tra i coniugi e nel confronto con i figli. Includere è il modo di testimoniare Gesù che si curva sugli ultimi. 

  • Occorre saper abitare i social, affinché diventino luoghi di reale dialogo e annuncio positivo e formativo, e vanno «valorizzati la stampa e i media di ispirazione cristiana».

  • L’apertura richiesta dalla Parola porterà a rendere “piazze di incontro” gli Oratori, ma anche a creare nuovi spazi di condivisione e di scambio nel territorio, arricchiti dalle strade del web.

Annunciare significa guarire e rinnovarsi

  • È irrinunciabile l’annuncio gioioso del perdono e della misericordia come cuore pulsante dell’evangelizzazione e di un nuovo umanesimo incentrato sull’alleanza tra l’uomo e il Signore. La Chiesa accompagna, aiuta a comprendere la povertà che consegue al peccato e invita sempre a gioire del perdono che guarisce e far risorgere.

  • È essenziale il primo annuncio, che va «inteso non solo come momento iniziale del cammino di fede di chi non è cristiano» ma come proposta di fondo che ritorna negli snodi fondamentali dell’esistenza. Così è preziosa l’evangelizzazione per le strade e in casa (pastorale 0-6 anni, cellule di evangelizzazione, gruppi di ascolto della Parola; gruppi di ascolto per giovani….), come altrettanto importante è impegnarsi a rinnovare i percorsi di iniziazione cristiana e di catechesi, oltre il catechismo.

  • L’ascolto della Parola genera una sana inquietudine e un profondo dinamismo. Questo dinamismo rende costantemente riformulabili le istituzioni, la liturgia e le tradizioni, e provoca una costante riforma dei linguaggi e degli stili di Chiesa. Quali sono gli stili-chiave suggeriti per un annuncio fecondo? «Lo stile del narrare, lo stile della condivisione, lo stile del servizio, lo stile del dialogo, lo stile della gioia, lo stile del dubbio, lo stile della speranza, lo stile del mettersi in gioco, lo stile dell’ascolto, lo stile empatico», come hanno sottolineato molte voci, «a partire dallo stile di Gesù, ricco di tenerezza, non impositivo, capace di accostarsi alle persone e attivare processi ». 

  • Va approfondito il tema degli itinerari formativi, per formare adeguatamente i formatori.

Annunciare significa leggere la realtà e la nostra vocazione

  • Annunciare la Parola ravviva la consapevolezza del Battesimo, che è chiamata alla missione. Molti gruppi sottolineano l’esigenza di “allargare” i protagonisti dell’evangelizzazione; in particolare le famiglie vanno colte sempre più come soggetto di annuncio, capace di esplicitare e curare i passaggi fondamentali nella vita di coppia e di famiglia. Sono importanti i percorsi di sostegno alla genitorialità, dove comunicare sì l’emergenza educativa, ma anche e soprattutto la gioia e la possibilità di educare.

  • Occorre inoltre un sempre maggiore coinvolgimenti di laici e laiche nelle varie forme di annuncio. Si chiede «maggiore comunione tra sacerdoti e laici», coltivando la fiducia reciproca, senza corporativismi.

  • In definitiva si tratta di riscoprire appieno la soggettività dell’intera comunità cristiana in ordine all’evangelizzazione. Qui l’importanza di un reale confronto e dialogo tra parrocchie e realtà associative, come pure di uno stile di sinodalità nella Chiesa.

  • Metodologicamente, per il dopo-convegno, si suggerisce di «lavorare in piccoli gruppi come nel Convegno, per cercare insieme proposte e soluzioni» negli organismi di partecipazione e in altre forme di condivisione e collegialità.

5. Leggerezza e beatitudine

E’ stato affermato in più occasioni che le cinque vie sono tra loro distinte, ma non separate né esaustive. Come gli ambiti evidenziati dal Convegno di Verona non esauriscono situazioni e bisogni esistenziali, così l’azione ecclesiale è alquanto ricca, perfino complessa, fatta di tanti elementi come la vita di una persona o di una famiglia. E come capita a una persona o una famiglia, i differenti elementi – se ricomposti in armonia – costituiscono altrettanti punti di forza.

In concreto, ci chiediamo se anziché pensare la via dell’annunciare come percorso tendenzialmente autonomo, non occorra immaginarla come arricchita dalle altre.

Pensiamo al possibile binomio: annunciare-uscire. Non ha senso parlare di kerygma e non includervi una dinamica missionaria. O al binomio annunciare-abitare, che evoca la quotidianità dell’esistenza.

Annunciare-educare nelle nostre comunità dice della dimensione generativa della Chiesa madre. Come afferma un gruppo: «L’annunciare non termina dopo che hai proclamato il Vangelo. Annunciare è anche accompagnare e aiutare a dare frutto».

E infine annunciare e trasfigurare, annunciare perché trasfigurati, capaci di consegnare ciò che ci ha stupiti e salvati, di fare memoria di un incontro che ci ha trasformati dal di dentro.  Non a caso, come richiamato in un gruppo, al cuore di ogni azione formativa sta il giorno del Signore, la Domenica, «il giorno senza il quale non possiamo vivere».

Proprio perché è il Signore il protagonista, proprio perché non ci si può disporre al servizio dell’evangelizzazione se non in quanto chiamati e salvati, possiamo cogliere la verità del mandato missionario. Gesù invita i suoi, dopo la risurrezione, ad essergli testimoni iniziando da Gerusalemme, e poi proseguendo per la Giudea e la Samaria fino ai confini della terra. Prospettiva che deve averli spaventati, essendo ben noti a Gerusalemme come seguaci di un maestro morto sulla croce.

Ma Gesù non impone pesi. Afferma che sarà con i suoi fino alla fine dei giorni e che lo Spirito santo li accompagnerà. Egli forse intende dire non: “Dovete essermi testimoni”, bensì: “Potrete essermi testimoni”, “Riuscirete ad annunciare”, “Vivrete l’evangelizzazione” anche a Gerusalemme e fino ai confini della terra. Nella forza dello Spirito santo.

Detto altrimenti, il giogo che Gesù ci impone non è pesante ma leggero; tra le virtù di una Chiesa fedele al suo Signore e capace della gioia del Vangelo vi è quella della leggerezza, da associare alla beatitudine di cui ci ha parlato papa Francesco; la leggerezza cristiana, di chi si sente voluto bene dal Padre, salvato da Gesù Cristo, sospinto dallo Spirito Santo. Su ali d’aquila (cf. Sal96).

[1] «L’annuncio riguarda ogni battezzato, non solo i presbiteri», afferma con nettezza un gruppo. Altri auspicano meno clericalismo e un vaccino per i “clerodipendenti” altri ancora di liberare i sacerdoti da incombenze pratiche affinché possano dedicarsi di più all’ascolto e all’incontro con le persone.

[2] Altri elementi che soo stati registrati:

  •  Forme di ricchezza che rischiano di rendere poco dinamici e di rallentare l’annuncio. Siamo lontani dal recepire appieno l’invio all’umiltà, al disinteresse e alla gioia formulato dal Papa. «Solo quando la Chiesa si orienta alla missio ad gentes ritrova se stessa».

  • Divisioni nella Chiesa: «Non si può annunciare in una Chiesa in cui un gruppo addita l’altro».

  • Difficoltà di raggiungere il mondo giovanile.

  • Poca creatività pastorale.

  • Linguaggi astratti e stereotipati.

  • Attivismo senza ascolto.

  • Uso funzionale della parola di Dio.

[3] Dice un gruppo: «Per evitare l’individualismo occorre formazione e vita di comunione. Non attaccarsi a ciò che si è sempre fatto, non aver paura delle novità». 

3) LE CINQUE VIE: ABITARE

Sintesi di Adriano Fabris, Ordinario di filosofia morale (Università di Pisa)

Quello che viene qui restituito sicuramente deluderà. Non è possibile fare la sintesi del risultato, ricchissimo, del lavoro di tutti i gruppi. Non potrò indicare tutte le proposte belle, concrete, che sono state espresse. Non è possibile: anche se i facilitatori e i moderatori hanno scritto un resoconto accurato di quanto è stato detto. Troppi sono infatti gli spunti e le sollecitazioni che sono emerse, e c’è il rischio di perdersi.

Ciò che cercherò di offrirvi, allora, è un po’ come il lievito madre. È qualcosa che proviene da tante esperienze che sono cresciute in vari luoghi d’Italia, che avete fatto voi, e che di tali esperienze è stato ed è l’elemento generatore. È qualcosa che, grazie alla condivisione di queste esperienze che abbiamo vissuto qui a Firenze, vi viene di nuovo consegnato: temprato, purificato, affinché possa ancora far lievitare le nostre azioni.

Da tutti i gruppi è emerso con chiarezza che “abitare” è un verbo che, come viene mostrato anche nella Evangelii Gaudium, non indica semplicemente qualcosa che si realizza in uno spazio. Non si abitano solo luoghi: si abitano anzitutto relazioni. Non si tratta di qualcosa di statico, che indica uno “star dentro” fisso e definito, ma l’abitare implica una dinamica. È la stessa dinamica che attraversa le altre vie, e soprattutto la via dell’educare. Molti, anzi, hanno visto l’abitare e l’educare strettamente collegati fra loro.

In tutto questo però, non si parte da zero. Il cammino ulteriore che ci attende è un cammino che le nostre comunità locali stanno facendo da tempo, andando incontro alle esigenze dei vari territori. Lo fanno, consapevoli che l’abitare, per il cattolico, è anzitutto un “farsi abitare da Cristo”, perché solo a partire da qui può essere fatto spazio all’altro. Si tratta di un cammino, poi, che la Chiesa italiana ha compiuto e che sta compiendo, con risultati concreti e incisivi, anche se essi non sempre sono conosciuti a sufficienza. È la Dottrina sociale della Chiesa, come molti hanno sottolineato, che dovrebbe essere ancor meglio approfondita quale fonte ispiratrice e quadro di riferimento dell’agire pubblico.

Ma in che cosa consistono, concretamente, queste relazioni buone che ci troviamo ad abitare, e che dobbiamo rilanciare e praticare nella vita di tutti i giorni? Esse possono venir sintetizzate da alcuni verbi, che sono stati utilizzati, tutti o solo alcuni, dai vari gruppi. Questi verbi sono: ascoltare, lasciare spazio, accogliere, accompagnare e fare alleanza.

La prima cosa da fare – vera pedagogia dell’incontro – è acquisire la disponibilità ad ascoltare. C’è chi ha chiesto che vengano allestiti sempre di più luoghi in cui, in un’epoca di grandi solitudini, vi sia la possibilità di parlare e di essere ascoltati davvero. L’ascolto comunque è l’unico modo per uscire dall’autoreferenzialità, che è presente spesso, anche nelle famiglie, dove in molti casi la capacità di ascolto si va perdendo. Ma la famiglia, com’è stato detto, è “un luogo di conoscenze e di azione per abitare il territorio”: è il luogo, cioè, di una fondamentale testimonianza dello stile di vita cristiano.

Abitare le relazioni, anche in famiglia, significa però essere capaci di lasciare spazio all’altro. La necessità che venga lasciato spazio all’atro è sottolineata soprattutto dai più giovani. C’è il problema, qui, dei rapporti fra le generazioni. Qualcuno ha detto, letteralmente: “Noi figli abbiamo bisogno di far pace con un mondo adulto che non vuole lasciarci le chiavi, che ci nega la fiducia e allo stesso tempo non esita a scandalizzarci ogni giorno”. È una sfida che dev’essere accolta concretamente, nei comportamenti quotidiani, da tutti i cattolici, per fare i conti con quell’ingiustizia che le generazioni più anziane si trovano oggi a commettere, per lo più involontariamente, nei confronti di quelle più giovani.

L’accoglienza, poi, è l’atteggiamento a cui siamo tutti chiamati nei confronti degli altri, e in particolare delle persone più fragili. Vi sono tante forme di fragilità, oggi, che richiedono attiva attenzione: quelle dei bambini e degli anziani, ad esempio; quelle di coloro che hanno perso il lavoro e, in generale, dei poveri; quelle degli immigrati, alla ricerca di quel futuro che nelle loro terre d’origine è loro negato; quelle di chi vive un disorientamento psicologico ed esistenziale; quella, insomma, di tutti coloro che sono messi ai margini di un mondo che è impietoso nei confronti di chi non si uniforma alle proprie strutture economiche e sociali. Ma fare i conti con questo non significa – è stato da più parti sottolineato – limitarsi al gesto, pur importantissimo, del dare: bisogna far emergere la dignità delle persone, bisogna metterle in grado di sentirsi utili, di sentirsi in grado di restituire qualcosa di ciò che hanno ricevuto. Una relazione buona, un’accoglienza vera, non sono semplice assistenzialismo.

Ecco perché – e con ciò finisco l’elenco dei verbi più “gettonati” dai gruppi al fine di declinare concretamente il nostro abitare – accogliere significa anche, sempre, accompagnare e fare alleanza. Accompagnare le persone che hanno bisogno di noi; accompagnarle nelle difficoltà, nella malattia, anche nella morte. E tutto questo nei luoghi in cui viviamo tutti i giorni. C’è chi ha proposto, nel concreto, una vera e propria “pastorale del condominio”.

Tutto questo si verifica – molti lo hanno sottolineato – nelle relazioni che, a partire dalla relazione fondante con Dio e avendo a modello i comportamenti di Gesù, sperimentiamo quotidianamente. Lo sappiamo bene, e tutto ciò è stato ulteriormente sottolineato. Queste relazioni si costruiscono nella natura e nel mondo – il creato come casa comune da custodire – nei luoghi in cui studiamo, lavoriamo, viviamo i nostri impegni e il nostro tempo libero, nei nostri spazi reali e negli ambienti virtuali. Emerge la necessità di un impegno diffuso, di un cristianesimo vissuto a tutti i livelli e testimoniato quotidianamente, nella trasparenza dei comportamenti. Questo chiede anche un uso dei beni e di ciò che la Chiesa amministra secondo la radicalità evangelica. Ecco la vera tavola di verifica dei frutti di questo Convegno.

In particolare, in relazione a questi modi di realizzare la propria fede, sono emerse molte riflessioni riguardo a come vivere la realtà della parrocchia in maniera adeguata alle sfide del nostro tempo. È stato chiesto di superare incrostazioni e difficoltà dovute a modi di pensare a volte ingessati, presenti anche nei vari organismi di partecipazione ecclesiale; è stato chiesto di lasciare più spazio ai carismi dei laici e di fare in modo che la stessa comunità cristiana sia un luogo davvero aperto alle necessità di tutti. 

Un ultimo aspetto è stato infine sottolineato da tutti i gruppi. Si tratta della necessità di ripensare l’impegno a favore della propria comunità. Si tratta di ripensare la politica, e di farlo in una chiave che sia davvero comunitaria. Alcuni hanno detto: non bisogna semplicemente delegare, e poi disinteressarsi di ciò che viene deciso in nostro nome. Bisogna accompagnare i decisori, che sono i nostri rappresentanti; non bisogna lasciarli soli. Una nuova capacità di abitare le relazioni – un “nuovo umanesimo” – si collega e si esprime anche nella partecipazione e nell’impegno per una vera cittadinanza attiva.

In sintesi: ciò che emerso da tutti i gruppi è una continuazione e un rilancio dello stile sinodale. Qualcuno ha detto: La Chiesa o è sinodale o non è Chiesa. Credo che tutto ciò lo abbiamo sperimentato e verificato anche in questi giorni. Ora dobbiamo riportarlo, appunto come il lievito madre, nelle nostre realtà locali.

Lo possiamo fare se teniamo presente un aspetto che è tipico del cristiano: la capacità di sognare concretamente. Sentiamo, come parola finale, ciò che è stato detto in un gruppo, con esplicito riferimento a ciò che il Papa proprio qui a Firenze ci ha chiesto: di rileggere e applicare la Evangelii Gaudium.  Che cosa possiamo sognare, molto concretamente però, per il nostro futuro? In che cosa possiamo concretamente impegnarci? Ecco che cosa è stato detto:

“Sogniamo una chiesa beata, sul passo degli ultimi; una chiesa capace di mettere in cattedra i poveri, i malati, i disabili, le famiglie ferite [EG, 198]; “periferie” che, aiutate attraverso percorsi di accoglienza e autonomizzazione, possano diventare centro, e quindi soggetti e non destinatari di pastorale e testimonianza.

“Sogniamo una chiesa capace di disinteressato interesse: che metta a disposizione le proprie strutture e le proprie risorse per liberare spazi di condivisione in cui sacerdoti, laici, famiglie possano sperimentare la “mistica del vivere insieme” [EG, 87; 92].

“Sogniamo una chiesa capace di abitare in umiltà, che, ripartendo da uno studio dei bisogni del proprio territorio e dalle buone prassi già in atto, avvii percorsi di condivisione e pastorale, valorizzando, “gli ambienti quotidianamente abitati”, ognuna nel proprio spazio-tempo specifico e rendendo così ciascuno destinatario e soggetto di formazione e missione [EG, 119-121]”.

4) LE CINQUE VIE: EDUCARE

Sintesi di Suor Pina Del Core, Preside della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium

UNA PREMESSA

Nel tentare una sintesi e una riproposizione di quanto emerso nei gruppi dedicati alla “via” dell’educare, una premessa appare necessaria. In numerosi tavoli di lavoro, infatti, è stato rilevato come la stessa esperienza di ascolto, condivisione e scambio avvenuti nei piccoli gruppi durante il Convegno abbia costituito, oltre che un metodo esemplare per altre iniziative ai diversi livelli della vita ecclesiale, una vera e propria ‘esperienza educativa’ in atto e soprattutto un esercizio di ‘sinodalità’. Non si cresce se non insieme, in una relazione diretta e accogliente: questo abbiamo vissuto e ci ha arricchito.

Inoltre, sono state toccate tutte le aree e gli ambiti che Mons. Nosiglia nella sua prolusione ha indicato come frontiere d’azione: “la frontiera drammatica dell’immigrazione, la frontiera sempre più tragica delle povertà anche a causa della crisi economica e occupazionale, la frontiera delicata dell’emergenza educativa”.

LO SPIRITO ALL’OPERA

Gli orientamenti pastorali della Chiesa Italiana per il decennio in corso hanno puntato sull’educazione come punto prospettico da cui avviare processi di conversione pastorale nelle comunità ecclesiali e nella prassi educativa ed evangelizzatrice messa in atto nella concretezza della vita ordinaria.

Molto è stato fatto, come del resto si costata guardando la storia e la tradizione ecclesiale di sempre: non è venuta mai meno, infatti, la passione educativa della Chiesa, non solo  nei confronti delle nuove generazioni ma anche nei confronti degli adulti, soprattutto gli educatori, i catechisti, gli animatori pastorali, ecc.

Lo spazio di condivisione delle esperienze e delle buone prassi offerto alle diocesi durante il cammino di preparazione al Convegno ecclesiale ha fatto emergere una ricchezza e una diversità di realtà davvero inedita e creativa, non immediatamente visibile e conosciuta: varietà, originalità, concretezza, genialità, quali espressioni di una fantasia pastorale, frutto dello Spirito.

Nel racconto dei passi che le comunità ecclesiali hanno compiuto è emersa l’importanza del lavoro svolto negli ultimi anni (a livello di consapevolezza, approfondimento e di esperienze messe in campo). Si è osservato che la sfida educativa è avvertita come centrale da molti uomini e donne del nostro tempo e costituisce un luogo privilegiato di incontro con tante persone a diversi livelli ed ambiti della società: siamo diventati più consapevoli che l’educazione è questione decisiva che riguarda tutti e non solo coloro che sono direttamente interessati e ad essa dedicati nella tensione verso il compimento della persona e la realizzazione di un autentico umanesimo. È una evidenza per molti che le comunità cristiane, pur tra limiti e difficolta, hanno da portare un contributo veramente originale e qualificante. Come Chiesa italiana non siamo all’anno zero, perché c’è in atto nel nostro paese un’esperienza viva, testimoniata da innumerevoli tentativi creativi e in alcuni casi sorprendenti negli esiti.

È apparso chiaro come tale contributo si fondi non tanto su strutture, su tecniche o metodologie,  su programmazioni educative ben strutturate, pur necessarie: esso si realizza piuttosto quando l’educazione cristiana, rischiando modi e forme sempre nuove, si conforma all’educare di Cristo, sia quanto a contenuto (la dignità inalienabile della persona, la sua unicità  e irrepetibilità, con le sue molteplici dimensioni: affettiva relazionale, bio-fisica, cognitiva e religiosa; la relazionalità costitutiva dell’essere con e per gli altri; l’apertura alla trascendenza,…) sia quanto a metodo (la centralità della persona, la relazione e l’incontro personale, l’attenzione alle attese, alle domande, alle fragilità e ai bisogni, la ricerca di senso nell’apertura a orizzonti infiniti mediante la capacità di suscitare domande, la pazienza e il rispetto dei ritmi di crescita di ognuno, la vicinanza e l’accompagnamento, la guida amorevole e l’autorevolezza, la solidarietà e la condivisione), che trova nell’incarnazione il modello educativo e il criterio di ogni intervento.

La comunità cristiana punta sull’educazione integrale della persona e sulla credibilità dell’educatore che si pone innanzitutto come testimone, come chi è stato lui per primo ‘educato’ da Cristo e ha trovato in Lui il senso della sua vita.

Saremmo però miopi se non rilevassimo anche le difficoltà che quotidianamente si incontrano nell’opera educativa. Tra queste, le due tentazioni indicate da papa Francesco nel suo discorso nella Cattedrale di Firenze si applicano bene anche all’educazione: c’è il rischio cioè da una parte di privilegiare l’attivismo e di cedere ad una “burocratizzazione impersonale” delle dinamiche formative; dall’altra, di assecondare una certa tendenza all’astrazione e all’intellettualismo slegato dall’esperienza.

Anche le caratteristiche dell’umanesimo cristiano suggerite da papa Francesco hanno provocato un’immediata applicazione allo stile educativo. All’educatore, infatti, sono richiesti “esercizi” di umiltà, per accompagnare e non forzare i percorsi di crescita; “esercizi” di disinteresse e gratuità, per non legare a sé le persone ma orientare e proporre rispettando la libertà; “esercizi” di beatitudine evangelica davanti alla richiesta delle persone di non ricevere formule ma compagnia, senza “accademie della fede” ma con la forza di una testimonianza che trasmette la fede per attrazione.

Se la fatica di educare è evidente, tuttavia è sempre un compito ‘bello’ e appassionante. Le sfide e le difficoltà infatti non mancano, anzi sono molte, specie nel contesto di complessità, di frammentazione e di disorientamento in cui siamo immersi. Tali sfide sono percepite da molti gruppi come risorsa più che come problema, come opportunità per ripensare e rivedere alcune prassi, come sollecitazione al cambiamento o meglio a quella ‘conversione pastorale’ a cui il Papa ci ha fortemente invitato.

LINEE DI AZIONE

Le linee principali di azione che emergono dalle scelte proposte nei gruppi si possono ricondurre atre nuclei: la rilevanza di una comunità che educa e che è capace di mettersi in rete, l’urgenza della formazione dell’adulto, i nuovi linguaggi nell’educazione.

1. COMUNITÁ CHE EDUCA

La nativa vocazione della Chiesa ad essere comunità che educa, che vive coerentemente la propria fede come dono ricevuto e  come consegna per le nuove generazioni costituisce soprattutto oggi una risposta alle sfide e alle difficoltà nel percorrere le vie dell’educare nel contesto di una società sempre più frammentata, complessa e contrassegnata da individualismo, autoreferenzialità e crisi di identità.

Da qui la necessità di promuovere e rafforzare le varie forme di alleanza educativa e di implementare  nuove sinergie tra i diversi soggetti che interagiscono nell’educazione. Tale prospettiva ci spinge innanzi tutto ‘fuori’ dalle nostre comunità, ma chiede anche di cambiare molte prassi e impostazioni pastorali, rendendo sempre più organica e stabile la collaborazione tra pastorale giovanile, pastorale familiare e pastorale scolastica e universitaria. In diversi gruppi è affiorata l’esigenza di “tavoli di pensiero e di azione” per lo scambio delle esperienze (buone pratiche) e per fare unità nella diversità di compiti, di luoghi, di responsabilità.

Si tratta di ‘fare rete’, di mettersi in rete con le diverse istituzioni educative presenti nel territorio e con quanti si interessano di educazione anche se di sponda opposta.

Tale linea di azione riconferma uno dei punti nodali di ogni discorso educativo e collocato  al centro di tutto il cammino fatto sia nella preparazione del convegno ecclesiale che nella realizzazione: la via relazionale costituisce il cuore di ogni educazione. È l’incipit, punto di partenza e punto di arrivo, senza il quale non può esserci crescita, né trasformazione. L’esistenza umana è intrinsecamente ‘relazionale’ e questo dato a coinvolge pienamente ogni intervento educativo. La relazione, infatti, a livello personale e interpersonale,  è lo spazio in cui si rende possibile l’incontro, l’apertura all’altro, il riconoscimento del proprio valore, la valorizzazione delle proprie forze e capacità, l’esperienza principiale di esistere come persona unica e irrepetibile.

2. LA FORMAZIONE DELL’ADULTO

Di fronte alla crisi dell’educazione e nel contesto di una crisi dell’umanesimo il ruolo degli adulti è fondamentale. E ciò è ancora più evidente di fronte alla percezione diffusa che molti adulti sembrano aver rinunciato a proporre ai giovani significati e regole per vivere con responsabilità e libertà, per la comune e frequente difficoltà a superare la rigidità del passato e il permissivismo libertario che hanno caratterizzato la transizione contemporanea di modelli educativi ormai desueti e ritenuti obsoleti.

Priorità ineludibile è la formazione degli adulti, o meglio degli educatori, perché prendano in  mano la propria primaria responsabilità educativa nei confronti delle nuove generazioni, curando anche la propria formazione personale (autoformazione).

L’attenzione alla famiglia e l’accompagnamento delle famiglie resti una priorità nella progettazione pastorale delle comunità ecclesiali locali.

In particolare è urgente assicurare:

  • La formazione di formatori e di guide spirituali in grado di accompagnare le coppie orientate al matrimonio e le famiglie in difficoltà.

  • L’educazione alla genitorialità perché i padri e le madri sappiano accompagnare la crescita dei loro figli nelle diverse fasi evolutive con autorevolezza e decisione.

  • Percorsi di educazione alla reciprocità, che comporta in primo luogo un’educazione all’accettazione dell’alterità.

Alle nostre comunità ecclesiali è chiesta poi una nuova attenzione per la scuola e l’università, alimentando una pastorale d’ambiente che necessita di persone e di capacità di proposta. Gli insegnanti – compresi quelli di religione cattolica – devono sentirsi realmente sostenuti e valorizzati, destinatari di proposte formative e stimolati a curare l’inserimento nella comunità cristiana, la qualità del loro servizio e la professionalità. La difficile situazione delle scuole paritarie cattoliche, preziose risorse per la Chiesa e per il Paese, ci interpella a fare ogni sforzo per qualificare e sostenere queste esperienze, anch’esse chiamate a ripensarsi nella logica delle alleanze e delle collaborazioni.

Un’altra linea fondamentale va nella direzione di investire nuove energie per rinnovare la formazione dei sacerdoti, dei religiosi/e e dei laici, anche mediante momenti formativi comuni tra presbiteri, famiglie e consacrati, anche valorizzando il patrimonio educativo-culturale delle nostre università ecclesiastiche e pontificie e degli ISSR, progettando percorsi formativi qualificanti nella direzione di una solida professionalità educativa.

Si esige per questo un ripensamento dei percorsi formativi nella linea di una formazione pastorale e pedagogica, con un’attenzione specifica alla maturazione umana e in particolare a quella affettivo-relazionale.

Non va considerato concluso, inoltre, il processo di rinnovamento dell’iniziazione cristiana e dei suoi strumenti, a partire da quelli catechistici.

Non si può tralasciare il cammino fatto e la nuova sensibilità che si è creata in rapporto alla formazione sociopolitica, all’educazione alla cittadinanza attiva e una ripresa del tema della legalità. Come ci ha ricordato il Papa i cristiani sono ‘cittadini’.

3. NUOVI LINGUAGGI NELL’EDUCAZIONE

Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie comunicative sono una splendida risorsa per l’educazione e per l’evangelizzazione, ma sollecitano una più qualificata formazione  critica e propositiva degli educatori e dei formatori.

Gli Ambienti digitali. Va studiato l’apporto degli ambienti digitali e il loro influsso nelle modalità di apprendimento e di relazione dei ragazzi e dei giovani. Il web non va solo studiato criticamente, ma va usato creativamente, valorizzando le culture giovanili. I media ecclesiali e le tecnologie digitali possono inoltre offrire un prezioso aiuto per la condivisione delle buone pratiche e il collegamento tra le realtà educative.

Cultura e bellezza: attorno a questo inscindibile binomio la creatività ispirata dalla fede potrà trovare nuove espressioni di incontro fecondo fra le arti, il vangelo, l’educazione.

ALCUNE SCELTE DI IMPEGNO

Tra le molteplici e variegate proposte dei gruppi ne indichiamo soltanto alcune:

– Favorire le reti educative anche stipulando dei patti di corresponsabilità che coinvolgano tutta la comunità educante compresa la società civile.

– Favorire un più accurato discernimento e cura di coloro che la comunità ha individuato come educatori e formatori.

– Famiglia e fragilità: costituire delle equipe per affiancare le famiglie nelle situazioni educative difficili e implementare proposte di volontariato in favore delle famiglie con anziani e disabili.

– Dare vita a un portale informatico per divulgare le buone pratiche e favorire le occasioni di scambio tra le diocesi e le realtà ecclesiali. Si tratta di una risposta al bisogno di forum – una sorta di piazze – in cui discutere, fare insieme, verificare il cammino a partire dalle buone pratiche esistenti. 

CONCLUSIONE

Applicando all’educazione quanto ci diceva il Papa sulla “beatitudine”, siamo convinti che per educare “occorre avere il cuore aperto”. L’educazione “è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo”, regalandoci una gioia incomparabile. Incoraggiati dalle parole di Papa Francesco e dall’esperienza di queste giornate, vogliamo continuare a credere nel potere umile dell’educazione e nella sua forza trasformatrice della storia e della società di ogni tempo.

5) LE CINQUE VIE: TRASFIGURARE

Sintesi di Goffredo Boselli, monaco di Bose e liturgista

Nella riflessione dei gruppi, il trasfigurare ha ricordato che Gesù di Nazaret nei suoi incontri quotidiani, nel suo sguardo sul mondo e l’umanità, non ha mai lasciato cose e persone come le aveva trovate, ma ha trasfigurato tutto e tutti. Ha fatto nuove tutte le cose. È il Signore che trasfigura, non siamo noi! Bisogna allora lasciarsi trasfigurare e non ostacolare l’opera di Dio in noi e intorno a noi, ma saperla piuttosto riconoscere e aderirvi.

Percepire lo sguardo trasfigurante del Signore su di noi ci conduce a cogliere il valore dello sguardo sull’altro, come riconoscimento della sua dignità, soprattutto quando questa è attraversata da fragilità e povertà. Trasfigurare è allora sguardo che cerca l’uomo, specialmente i poveri, facendo emergere che non c’è umanità là dove c’è scarto e ingiustizia, dove si vive senza speranza e senza gratuità.

In sintesi, trasfigurare è far emergere la bellezza che c’è, e che il Signore non si stanca di suscitare nella concretezza dei giorni, delle persone che incontriamo e delle situazioni che viviamo.

Spirito all’opera: fatiche e risorse

Dal confronto nei gruppi sono emerse tre fatiche che le nostre comunità vivono nell’attingere pienamente alle risorse di cui dispongono: un attivismo talvolta eccessivo, una insufficiente integrazione tra liturgia e vita, una certa frammentarietà della proposta pastorale.

Prima fatica. Di fronte a un certo attivismo pastorale è emersa l’esigenza, soprattutto da parte del tavolo dei giovani, di proporre cammini di fede che comprendano esperienze significative di preghiera, di formazione liturgica e di accompagnamento spirituale. C’è domanda di interiorità, ma che ancora non trova risposte soddisfacenti nelle scelte di educazione alla fede dei giovani nelle nostre Chiese locali. Mentre le parrocchie sembrano riservare più attenzione all’aggregazione e all’animazione, la domanda di interiorità sembra maggiormente soddisfatta all’interno delle associazioni e dei movimenti ecclesiali.

Seconda fatica. Un’insufficiente integrazione tra liturgia e vita è sperimentata come una mancanza di coinvolgimento esistenziale del credente con il mistero di Cristo celebrato. Per questo si richiede una liturgia più capace di introdurre al mistero, contro forme troppo dispersive di liturgia, rumorose, trionfali e poco essenziali, spesso avulse dal vissuto delle persone. L’attenzione mistagogica potrebbe rivitalizzare la liturgia, per aprirsi alla grazia e alla vera esperienza di Dio. Occorre dunque “trasformare in vita i gesti della liturgia”, perché non ci sia separazione tra liturgia, carità e profezia. L’essenziale della liturgia cristiana sta fuori della liturgia.

Terza fatica. Rilevando una certa frammentarietà della proposta pastorale si è evidenziata la difficoltà di tenere insieme annuncio, liturgia e carità, spezzando così l’alleanza tra Parola di Dio e profezia, tra Parola e partecipazione ai sacramenti, tra Parola e carità. L’urgenza, allora, è quella di dare circolarità a queste tre componenti.

Linee di azione

Le linee di azione indicate dai gruppi si possono raccogliere in tre grandi ambiti: Parola di Dio, liturgia e carità.

Da tutti i gruppi è stato ribadito il primato della parola di Dio annunciata, ascoltata e pregata. Per questo occorre rilanciare la lectio divina, ritenuto un esercizio molto valido per una lettura sapienziale ed esistenziale delle sante Scritture. Non si tema di permettere a tutti di accostarsi alle Scritture, attraverso momenti di preghiera e di confronto anche in famiglia e attraverso centri di ascolto nei quartieri. Si sperimentino inoltre momenti di silenzio e di preghiera nelle comunità, per far crescere l’interiorità e così pedagogicamente preparare a gustare il mistero celebrato. Si è infatti auspicato che non vi sia separazione tra lectio divina e ascolto della parola di Dio nella liturgia. 

E’ poi emersa la liturgia come evento di trasfigurazione sia in quanto culmine che in quanto fonte di tutta la vita cristiana. Si chiede un profondo rinnovamento che coinvolga tutti, pastori e fedeli nella preparazione e nell’intelligenza della liturgia. Attraverso la bellezza dei riti e la sua sobrietà, si auspica che la liturgia torni ad essere gustata dai fedeli; torni a interagire con tutte le dimensioni dell’umano, per riscoprire la dimensione contemplativa e simbolica della vita cristiana. Pertanto si valorizzino e si formino gruppi liturgici che aiutino la comunità a crescere e a educarsi al senso del bello e a vivere tutti i momenti della liturgia. Molti hanno poi auspicato che da una viva partecipazione alla liturgia e soprattutto all’eucaristia domenicale, nasca una ricca ministerialità, che sappia accogliere, animare, accompagnare e sostenere tutte le persone di ogni fascia di età con una particolare attenzione a quelle più in difficoltà.

Circa la risorsa della domenica è emersa la necessità di una sua piena valorizzazione, nella sua dimensione di festa del popolo di Dio e nella sua carica umanizzante

Infine, come terza linea di azione, sono stati indicati i luoghi di trasfigurazione dell’umano nell’esercizio di una carità capace di accogliere e coinvolgere tutti con umiltà, disinteresse e gioia delle beatitudini, come il Papa ci ha ricordato. Ogni luogo dell’umano sia vissuto pienamente e abitato dall’azione dello Spirito Santo, affinché ciascuno diventi testimone, e attraverso l’incontro e il dialogo, sappia suscitare desiderio dell’Oltre in quanti hanno smarrito il senso della vita o sono gravemente feriti nel corpo e nello spirito. La contemplazione del volto di Cristo trasfigurato ci deve spingere concretamente nel quotidiano a testimoniare la gioia dell’essere cristiani, facendoci prossimo agli uomini e alle donne che incontriamo. La cura delle relazioni e la tenerezza nel modo di presentarci, ci facciano sentire compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti.

In fine, la pietà popolare vissuta come un’opportunità e non come un problema pastorale. Sicuramente bisognosa di evangelizzazione, ma non di emarginazione; risorsa utile per formare la coscienza civile e legale, dare consistenza al radicamento sul territorio e alla appartenenza ad una comunità. Forse in alcune aree del nostro Paese è stata accantonata, mentre si rivela importante per la fede del popolo di Dio, per i semplici e, senza dubbio, potrebbe svolgere un ruolo importante nel tenere i legami tra le generazioni.

Impegni

Dal discernimento operato dai partecipanti alla quinta via, cogliamo tre consegne:

Prima consegna. Il rinnovamento liturgico del Concilio è una realtà in atto che chiede a noi fedeltà e responsabilità.

A cinquant’anni dalla chiusura del Concilio, dobbiamo anzitutto riconoscere che la riforma liturgica è stata una benedizione per le nostre comunità. L’impegno per il rinnovamento liturgico non è alle nostre spalle, perché il Concilio è un evento che continua ancora oggi a generare novità nella liturgia come in tutta la vita della Chiesa. Per questo, dobbiamo continuare a camminare, senza incertezze e ripensamenti, sulla via tracciata dalla riforma liturgica conciliare, perché dal rinnovamento della liturgia passerà ancora il rinnovamento della Chiesa stessa. Infatti, alcuni  gruppi hanno sottolineato la necessità di considerare la liturgia come prima fonte della vita cristiana e della nostra trasfigurazione in Cristo. Perché questo possa avvenire, le nostre liturgie devono essere sempre di più segnate dalla bellezza e da quella nobile semplicità, voluta dal Concilio.

Per questo la prima consegna di questo Convegno alla Chiesa italiana è di riaffermare il posto centrale che occupano la liturgia, la preghiera e i sacramenti nella vita ordinaria delle comunità. La liturgia è il luogo dove la Chiesa stando alla presenza di Dio diventa ciò che è, ascoltando il Vangelo discerne la sua missione nel mondo. Solo quella comunità cristiana che pone al centro la liturgia riconosce che ciò che la tiene in vita non è il suo attivismo talvolta sfibrante, ma ciò che il Signore fa per lei. Nel suo essere priva di scopi, la liturgia addita il valore della gratuità e che la misura del nostro essere Chiesa non è il conseguimento di risultati verificabili e dunque mondani, ma l’essere Chiesa secondo il Vangelo. Perché, “non è dai risultati che si giudica il Vangelo” (Enzo Bianchi).

Un gruppo ha avanzato la proposta che ogni comunità sappia trovare tempi e modi per sospendere ogni sua attività e sostare in preghiera comune per rigenerarsi alla fonte della fede. Allo stesso modo, anche la famiglia è chiamata a trovare tempi e spazi di preghiera, perché la famiglia è il luogo primo dove “imparare la liturgia”, ossia fare esperienza di quei valori umani presenti nei segni liturgici, come l’ascolto, il silenzio, la condivisione, il perdono, il rendimento di grazie. 

Per questo, tutto ciò che papa Francesco nella Evangelii gaudium domanda alla Chiesa chiama direttamente in causa anche la liturgia della Chiesa. Ridare alle liturgie delle nostre comunità un nuovo soffio è un compito decisivo nel quale la Chiesa che è in Italia è chiamata a impegnarsi nel decennio che ci sta davanti.

Seconda consegna. La Chiesa che celebra e che prega è anche la Chiesa in uscita

Non possiamo nascondere il timore che, se compreso in modo distorto, l’invito evangelico di papa Francesco a una Chiesa sempre in uscita, possa far pensare che tra la chiesa in preghiera e la chiesa in uscita possa esserci contrapposizione: l’una rivolta al suo interno attraverso la preghiera, la liturgia e i sacramenti; l’altra impegnata a uscire per raggiunge tutte le periferie. No, non ci sono due chiese, perché uno è il Cristo vivente, pregato e celebrato per ciò che lui è, e da noi riconosciuto presente nella persona del povero che è il suo più reale sacramento. Questo significa che la preghiera è il primo atto di una Chiesa in uscita, come la preghiera di Gesù nel luogo deserto è il primo atto della sua missione a Cafarnao.

La Chiesa che celebra è la stessa che va verso le periferie esistenziali, per la semplice ragione che oggi, per un numero sempre più grande di persone, la liturgia è soglia al mistero di Dio. Negheremmo l’evidenza dei fatti se non ammettessimo che la pastorale dei sacramenti è oggi chiaramente una pastorale missionaria. La domanda del battesimo per i figli e le tappe della loro iniziazione, la richiesta del matrimonio cristiano, l’esperienza del male e della colpa, le dolorose prove della malattia e della morte, anche queste sono le periferie esistenziali verso le quali la Chiesa è impegnata a uscire. Per questo, nella liturgia come anche nello stile e nell’agire concreto della comunità, dovrebbe emergere sempre di più che il trasfigurare investe la vita quotidiana, ma anche la cultura e le tradizioni di fede di un territorio. Uscire, leggiamo infatti in Evangelii gaudium, significa non stare in attesa ma prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnando l’umanità. Chi ha esperienza dell’umano sa che bene che nell’ordinaria pastorale dei sacramenti la Chiesa è condotta agli incroci delle strade, la dove si incontra l’umanità reale.

All’uomo che oggi fatica a dare un senso alle grandi tappe della sua vita, i sacramenti della Chiesa offrono la luce del progetto di Dio sulle sue creature. Vita, amore, morte sono, ieri come oggi, le parole dell’umanizzazione, e la richiesta ancora molto ampia in Italia che i sacramenti della Chiesa segnino le grandi tappe della vita, impegna la Chiesa italiana a uscire incontro a questa domanda, non tanto per assecondare tradizioni religiose e abitudini sociali, ma uscire per discernere nella domanda dei sacramenti quel sentimento, più o meno confuso e tuttavia ancora presente nella nostra gente, che nel venire alla vita, nell’amare e nel morire si gioca qualche cosa di essenziale e decisivo per la loro vita. Per questo, l’azione sacramentale è essa stessa scelta missionaria di una Chiesa dalle porte aperte che incontra i lontani e trasfigura i luoghi dove la vita accade.  

I sacramenti della Chiesa sono un cammino di umanizzazione evangelica.

Terza consegna. Far vivere l’umanità della liturgia è il compito che ci attende

Una delle acquisizioni di questo Convegno ecclesiale è aver raggiunto la consapevolezza che la realizzazione del nuovo umanesimo in Gesù Cristo non può prescindere dalla natura profondamente umana e autenticamente divina della liturgia.

Negli anni che ci stanno davanti sarà più che mai necessario incamminare le comunità cristiane verso la ricerca di una sempre maggiore umanità della loro liturgia, facendo in modo che i credenti assidui come quelli occasionali, attraverso l’umanità del gesto, del linguaggio e dello stile liturgico, facciano esperienza dell’umanità di Dio rivelata da Gesù Cristo.

Dalla lettura delle sintesi mi è venuto spontaneo quanto scritto dal Cardinal Martini: “Se nei vangeli si parla poco o nulla di liturgia, ciò avviene perché essi sono di fatto una liturgia vissuta con Gesù in mezzo ai suoi (…) E’ questa la liturgia dei vangeli: essere attorno a Gesù nella sua vita e nella sua morte (…) Tutto ciò che i vangeli riferiscono di Gesù tra la gente è un’anticipazione della liturgia e, a sua volta, la liturgia è una continuazione dei vangeli”[1]. La liturgia dei vangeli, di cui parla il cardinale Martini, ci indica che sarà sempre più urgente che le nostre liturgie siano capaci di ricreare quel tipo di relazione che Gesù di Nazaret sapeva creare con le persone che incontrava. “La relazione – è stato detto nei gruppi – è lo stile del trasfigurare”.  Una relazione che è fatta di gesti semplici, ordinari e insieme straordinari per la carica di umanità che trasmettono. “Occorre ritornare alla stanza al piano superiore” in cui Gesù ha celebrato l’ultima cena lavando i piedi ai discepoli.

L’intera esistenza di Gesù è stata una liturgia ospitale, e anche le nostre liturgie sono chiamate a esserlo oggi più che mai. Per questo, negli anni che ci stanno davanti la santità della liturgia sarà chiamata a declinarsi come santità ospitale; non una santità di distanza ma di prossimità.

Di fronte a tutto questo, le liturgie di domani per essere cammini di prossimità, di misericordia, di tenerezza e di speranza saranno chiamate a diventare spazi di santità ospitale. Liturgie ospitali che sanno andare incontro alle persone fino a portare la fatica di chi fatica a vivere e a credere; che siano consolazione per chi è provato e ferito dalla vita, che siano capaci di dare ragioni per sperare. La cura delle relazioni e la tenerezza nel modo di presentarci, ci facciano sentire compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti. La liturgia che ci attende sarà a immagine del Cristo che proclama: “ Venite a me voi tutti affaticati e oppressi e io vi darò riposo” (Mt 11,28).

Solo così la liturgia della Chiesa sarà all’altezza della Vangelo di Cristo.

[1] C.M. Martini, “La liturgia mistica del prete. Omelia nella Messa crismale”, Rivista della Diocesi di Milano 89/4 (1998), pp. 641-648, p. 642.