Cultura & Società
«Finis Terrae», immigrazione e accoglienza in scena a San Miniato
Finis Terrae è un luogo estremo, in Italia e non solo, dove finisce la terra e inizia il mare. Finis Terrae è anche la fine del mondo, l’inizio dell’ignoto, che per assurdo può diventare il luogo dell’accoglienza e della conoscenza, dell’immigrazione clandestina, degli sbarchi e delle stragi, ma anche della solidarietà, dell’apertura al futuro, della rinascita e della speranza. Ed è in questa direzione che va il «Finis Terrae» inteso come dramma popolare in scena sulla storica piazza di San Miniato, in provincia di Pisa, nell’ambito della tradizionale Festa del teatro. Uno spettacolo nato da un’idea di Antonio Calenda, che firma la sua prima regia samminiatese su un testo di Gianni Clementi, frutto della collaborazione tra l’Istituto del Dramma popolare di San Miniato e il Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia.
La notte di Natale, sulla riva del mare in burrasca, due contrabbandieri, uno di origine meridionale e l’altro romano, attendono un carico di sigarette: Carbieli («Sarebbe Gabriele, ma qui da noi è Carbieli… ormai se qualcuno mi chiama Gabriele, nemmeno mi volto») e Peppe («Sarebbe Giuseppe…»), resi cinici (soprattutto quest’ultimo) dalle vicende della vita, si trovano a condividere un’attesa estenuante nella sera in cui nelle case si consuma il cenone della vigilia e nelle piazze si realizzano i presepi viventi. Finiscono così per diventare spettatori e non solo del drammatico naufragio di un gruppo di africani tra cui una donna incinta.
Scaraventati sulla riva, i naufraghi abbandonano il relitto trascinati in catene e frustrati dallo scafista, un vero e proprio negriero che si presenta come una sorta di Caronte recitando, non a caso, il Canto III dell’«Inferno» dantesco («Questo non dico io, ma dice Dante. Ma Caronte lo sento assai vicino»). Ed è lui, appunto, che conduce i «poracci» (per dirla con Peppe) non verso il paradiso agognato, ma verso l’inferno: «Fra poco scoprirete ciò che bramate. E imprecherete per non avervi ucciso!… Un altro inferno vi aspetta sciagurati… Nel nostro mondo solo orecchie sorde ai lamenti d’aiuto dei dannati… Dovreste ringraziarmi gente ingrata. Io vi preparo al peggio che v’aspetta». Ma ecco la ribellione al ritmo di danze tribali: «A morte! A morte! A morte!», gridano tutti insieme gli africani trascinando a loro volto il negriero. La situazione è ribaltata: il Caronte dei nostri giorni finisce crocifisso. Giustizia o vendetta? Senz’altro vendetta. Ma ecco il colpo di scena: sul palco scende il buio, tutti spariscono, silenzio assoluto, Carbieli e Peppe stanno dormendo appoggiati a una barca in secca. Si svegliano di soprassalto: «Che brutto sogno ho fatto», «Chiamalo incubo!».
La dimensione onirica riduce la drammaticità dell’accaduto. Ma anche il sogno (o l’incubo) è vero o è falso? Fatto sta che si sente la musica già sentita all’arrivo del relitto la prima volta. Si sente il rumore di un’onda che si infrange sulla riva. Peppe e Carbieli si voltano. Impugnano delle torce. Nel buio illuminano in sequenza le facce disperate degli africani uniti in un abbraccio. Non hanno più le vesti e gli strumenti tribali. Indossano abiti «civili». Sono veri e in balia di un oscuro destino. In mezzo a loro la donna incinta, che dopo un grido straziante dà alla luce il figlio, frutto della violenza, ma comunque accolto. Il piccolo viene consegnato nelle mani di Peppe e di Carbieli. Sono impacciati, ma lo cullano intonando insieme la cantilena «Tiru, tiru è giunto Natale; tiru, tiru è nato Gesù, e tra il bue e l’asinello ora dorme e non piange più». Una voce registrata recita un brano della «Profezia» di Pier Paolo Pasolini: «Alì dagli occhi azzurri…».
Spettacolo di forte impatto emotivo, sicuramente molto più coinvolgente di tanti altri visti in passato a San Miniato, il «Finis Terrae» di Clementi e Calenda lascia per un attimo il dubbio di avere assistito ad un’opera nell’opera: una prima parte con il fitto e intenso dialogo tra i soli Carbieli e Peppe (interpretati dai bravissimi Paolo Triestino e Nicola Pistoia) e una seconda parte con gli altrettanto bravi artisti e musicisti provenienti dal Senegal, dal Mali e dal Burkina Faso, straordinari con i loro strumenti nella loro espressività totale, e con loro Ashai Lombardo Arop (Oblada, la donna incinta) e Francesco Benedetto (il negriero).
Che l’arrivo di questa sorta di visione apocalittica determini un cambiamento d’atmosfera e di registro stilistico lo prevede il testo stesso di Clementi. Non per questo, però, evita un minimo di spaesamento nello spettatore, che rientra nel meccanismo quando i due protagonisti dicono di aver vissuto un sogno o forse un incubo.
In certe parti, se vogliamo, c’è pure qualche passaggio troppo didascalico: «Voi vi ostinate a ricacciarci indietro, a sequestrarci borse e accendini, a fissarci con sguardo spesso tetro, a imbarcarci su aerei…».
Certo è che non era facile affrontare un tema del genere con la cronaca che un giorno dopo l’altro supera in drammaticità la fantasia. Il rischio della banalizzazione o della demagogia era dietro l’angolo. Clementi è riuscito nell’intento di affrontare l’attualità restando, tra la Croce e il Presepe, drammaturgicamente ad alto livello. «Un testo che rappresenta – per dirla con Calenda – un apologo sulla povertà, sul destino degli ultimi della terra, intrecciando nella scrittura denuncia e leggerezza dei toni, echi onirici o danteschi e personaggi veri e potenti». Mentre Calenda, da parte sua e da par suo, ha diretto gli attori in modo splendido. Belle anche le coreografie (Jacqueline Bulnes) e le soluzioni sceniche (Paolo Giovanazzi), una su tutte: il relitto del barcone realizzato con una serie di croci piantate una accanto all’altra.
Per quanto riguarda, infine, l’Istituto del Dramma popolare, con il suo bravo direttore artistico don Piero Ciardella, non si può non riconoscere che abbia scelto la strada giusta, forse l’unica percorribile, quella di creare testi e spettacoli apposta per San Miniato e la sua «Festa» (giunta all’edizione numero sessantotto), secondo il principio originario del teatro dello spirito, mettendo insieme nomi e istituzioni di grande prestigio come in questa circostanza.