Toscana
«Finiamola di baloccarci con le riforme»
Ormai da qualche anno la Chiesa italiana ha centrato la sua attenzione sulla cosiddetta «sfida educativa». Con l’ampio ed importante documento «Educare alla vita buona del Vangelo», che rappresenta le linee guida di carattere pastorale della Chiesa italiana per il decennio 2010-2020, l’episcopato ha inteso richiamare l’attenzione su un insieme di problematiche decisive per il futuro della società italiana e della stessa Chiesa. E ciò a partire dalla sempre più chiara consapevolezza, da parte di ogni attento osservatore della società italiana, che i gravi problemi che travagliano il Paese hanno alla loro radice un «deficit educativo», particolarmente evidente nelle generazioni giovanili, ma dal quale non sono immuni le stesse generazioni adulte, vuoto che occorre assolutamente colmare. In questo senso – hanno più volte affermato i vescovi italiani a partire dal documento sopra citato – «è proprio l’educazione la sfida che ci attende nei prossimi anni». Al tema dell’educazione sarà dedicata una delle aree tematiche della prima settimana sociale dei cattolici della Toscana, che si terrà a Pistoia dal 3 al 5 maggio prossimo, alla presenza di 400 delegati provenienti dalle 18 diocesi della Toscana. Abbiamo chiesto al professor Paolo Nepi (Università di Roma Tre), che coordinerà l’area dell’educazione, di illustrarci in anteprima alcuni spunti di riflessione su questo decisivo argomento della vita civile ed ecclesiale.
L’educazione è davvero una delle sfide fondamentali della società contemporanea?
«In un certo senso lo è sempre stata, almeno da quando esiste quello che abbiamo chiamato “homo sapiens”. E questo perché l’essere umano ha bisogno, per avviare la sua esperienza nel mondo, di essere accompagnato da chi ha già maturato conoscenze e pratiche di vita collaudate. Altrimenti ogni individuo dovrebbe ricominciare tutto daccapo, ricostruendo da zero la sua esperienza. Questo lento processo è opera non solo dei singoli, ma della comunità nel suo complesso. Dice a questo proposito un arguto proverbio africano: “per far nascere un bambino bastano un uomo e una donna, mentre per educarlo occorre l’intero villaggio”».
Perché oggi la questione educativa sembra diventata un nodo particolarmente problematico?
«A causa di una serie di profondi cambiamenti sociali e culturali, verificatisi soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, si sono prodotte alcune fratture generazionali inedite. L’educazione è frutto di una profonda solidarietà generazionale, mentre oggi le generazioni sono spesso vasi non comunicanti. Basti pensare alla quasi scomparsa, o almeno all’irrilevanza, della figura dei nonni nelle dinamiche familiari».
Dunque ci sono oggi tratti specifici della sfida educativa?
«Gli ultimi decenni hanno segnato, nelle nostre società avanzate, alcune metamorfosi di tradizionali stili di vita. Ne cito alcuni che hanno un più preciso impatto con l’educazione. Innanzitutto la maggiore libertà conquistata, giustamente ma il più delle volte senza un corrispondente grado di responsabilità, dal mondo giovanile. Poi la crisi della figura paterna e la profonda trasformazione, in seguito all’emancipazione femminile, della figura materna. Pensiamo inoltre al calo demografico con la conseguente quasi scomparsa della comunità dei fratelli. Infine la crisi di identità delle tradizionali agenzie educative, come la scuola, l’Università, il partito, l’oratorio… Questi processi hanno dato luogo, tanto per fare un esempio, ad un grottesco rovesciamento delle parti: adulti che si vestono e si comportano come giovani, e giovani che assumono precocemente, basti pensare solo alla sfera sessuale, comportamenti da adulti senza averne ancora acquisito la maturità».
Giudica dunque la situazione attuale abbastanza critica?
«Gli stessi giovani sono oggi consapevoli di questa situazione. Ho letto un recente sondaggio sul grado di fiducia dei giovani nelle varie istituzioni della nostra società. Ai primi posti vi sono la polizia e i carabinieri assieme alla magistratura. Agli ultimi posti troviamo la famiglia, la scuola, la parrocchia… L’inchiesta rivela dunque una maggior fiducia, da parte del mondo dei giovani, nelle agenzie addette alla sicurezza rispetto a quelle addette alla loro formazione. In sintesi si può dire che si ha più fiducia nella repressione che nell’educazione. Queste indicazioni dovrebbero farci trasalire. E invece mi sembra che tutti stiamo baloccandoci con piccoli aggiustamenti chiamati presuntuosamente, almeno quanto lo sono inefficacemente, riforme: riforma della scuola, dell’Università, della ricerca… Anche nella comunità ecclesiale si rischia spesso di intrattenerci su aspetti organizzativi importanti ma che non affondano nel cuore della questione».
Che cosa può fare la Chiesa in questa situazione?
«Sarebbe troppo semplice, anche se profondamente vero, dire che la Chiesa deve solo annunciare e testimoniare la buona novella di Gesù Cristo. Questo sarà sempre il suo compito principale. Per fare bene questo, il popolo di Dio deve però a tutti i livelli, presbiteri, religiosi e laici assieme, valorizzare al massimo quella che è una vera e propria vocazione, ossia la vocazione educativa. L’educazione ha certamente bisogno di conoscenze, di metodi e di strumenti appropriati. Ma i risultati dipendono, in gran parte, dalle persone che sentono l’educazione come una vocazione, ossia come una scelta capace di condividere con altri una pienezza vita».
La «sfida educativa» riguarda anche la sfera pubblica?
«Eccome. L’educazione vive di tante cose e soprattutto di esempi. Quali esempi abbiamo avuto dai responsabili della vita pubblica in questi anni? I cattolici sono stati capaci di offrire testimonianze esemplari e credibili ai cittadini a cui chiedevano sacrifici? Ho scelto la forma interrogativa per suggerire a tutti noi un esame di coscienza comunitario. Credo infatti che in questo caso, anche se non siamo certamente tutti responsabili nello stesso modo e allo stesso grado, valga in modo particolare il principio evangelico: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”».