Toscana
Fine vita, l’importanza delle cure palliative
Il dottor Guido Miccinesi, incaricato regionale Cet per la pastorale sanitaria: "L’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito non sono atti medici: non curano"

L’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito (indicate unitariamente come «morte medicalmente assistita») non sono atti medici.
La «morte medicalmente assistita», come la si definisce oggi, è piuttosto una decisione individuale e sociale (e non una decisione di cura): l’espressione di una particolare configurazione dei costumi e del senso della vita che, se resa legittima, cambierebbe in modo radicale la convivenza civile.
Una ricercatrice di lingua inglese anni fa raccontava di essersi resa conto di tutto questo quando, avendo incontrato un vecchio amico e avendolo invitato per una giornata da passare insieme il lunedì successivo, si era sentita rispondere che lunedì non era possibile, per la morte del babbo. Mi dispiace, disse la ricercatrice, non sapevo che ti fosse morto il babbo. Non lo è infatti, rispose l’amico, ma lunedì lo sarà perché abbiamo fissato l’eutanasia a una certa ora del mattino. Non vi pare davvero tanto diverso dal modo in cui per millenni abbiamo atteso la morte senza mai cercare di anticiparla, salvo situazioni tragiche e scelte individuali? Le discussioni sull’eutanasia quindi sono discussioni, gravide di conseguenze e scelte irreversibili, sulla configurazione che vogliamo dare alla società delle generazioni future.
I medici che si espongono a tutto campo su questo argomento, sentendosi chiamati in causa dal discorso sulla sofferenza, rischiano di appiattirlo su dimensioni non proprie, cioè strettamente mediche. Giustamente 70 anni fa la medicina ha cominciato a interessarsi seriamente di come salvare dal dolore, da tanti altri sintomi e soprattutto dall’abbandono e dalla solitudine i malati inguaribili. Da questa preoccupazione sono nate le cure palliative, prima come movimento con pretese quasi palingenetiche di fronte a una medicina sempre più assorbita dalla biotecnologia, offrendo in alternativa una medicina sensibile alla sofferenza e alla qualità delle relazioni di cura, poi come un sistema di cura ben organizzato e sostenuto da un sapere accademico specifico, da una programmazione sanitaria a livello nazionale, da una legge quadro che in Italia da 15 anni ne indica gli obiettivi e gli strumenti. Come altre pratiche mediche le cure palliative scontano ancora tanti livelli di incompiutezza ma al tempo stesso in certe regioni, come in quella Toscana, hanno avuto una crescita e un radicamento importanti.
Cosa c’entrano con tutto questo l’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito, che è stato reso non punibile, per chi presta una simile assistenza impropriamente definita ‘medica’, se lo si fa a determinate condizioni stabilite da una sentenza della Corte Costituzionale (242/2019)? Quando negli anni ‘90 l’eutanasia si imponeva nei Paesi Bassi come sperimentazione sociale, strettamente controllata sul piano giuridico e epidemiologico, sembrava in quei Paesi che il dolore incontrollato giustificasse il presentare il problema della morte medicalmente assistita come un problema medico, di alleviamento della sofferenza. Gradualmente però si è constatato nei fatti, con studi e ricerche apposite, che la ragione prevalente della richiesta eutanasica o suicidaria era di altro tipo, si trattava piuttosto della ricerca di una specie di dignità ultima da dare alla propria vita decidendo come e quando essa dovesse finire. Questo inizialmente solo di fronte a patologie irreversibili, ma presto anche alcune persone anziane hanno chiesto in quel contesto sociale di essere considerate portatori di patologie multiple e irreversibili.
La mancanza di ciò che una persona può considerare come un aspetto della propria dignità, poter decidere del momento della propria morte, può essere certo fonte di sofferenza, ma non una sofferenza suscettibile di trattamento medico. Perché allora la questione continua a essere riportata come una questione medica? Qualche studioso ha ipotizzato che se prima la medicina soffriva di una sorta di onnipotenza nel trattare le malattie, per cui poi abbandonava chi non era più guaribile perché non tollerava il proprio fallimento, ora soffra di una sorta di onnipotenza nel trattare la sofferenza, per cui vorrebbe usare anche lo strumento della soppressione della vita pur di lenire la sofferenza umana.
Uccidere chi è nella malattia inguaribile per annientare ogni sua sofferenza. L’equivoco che presenta l’eutanasia come un problema medico dura da molti decenni. È cominciato a mio parere con la questione della rinuncia alle cure gravose incautamente letta come «darsi la morte» invece che come «accettare un decorso naturale per malattie inguaribili che portano a morte». Robert Spaemann mise in guardia su questo, nei primi anni 2000: se consideriamo eutanasia ogni rinuncia a cure troppo gravose finiremo per spianare il terreno a chi sta sostenendo la necessità di introdurre l’eutanasia nell’ordinamento scientifico e giuridico delle cure mediche.
Lo stesso equivoco si ripresenta oggi dicendo che l’eutanasia può essere prevenuta dalle cure palliative. Questo, purtroppo, non è del tutto vero. Nei Paesi dove l’eutanasia è lecita, fino all’80% delle persone che la ricevono hanno ricevuto anche cure palliative. Certo, ogni clinico sa quanto spesso una richiesta di porre fine alla propria vita possa rientrare a seguito di appropriate cure mediche. Ma questo dimostra solo quanto le cure palliative possano calmierare la spinta all’eutanasia, sventando o facendo rientrare le richieste di morte medicalmente assistita dovute a cattivo trattamento del dolore, dei sintomi, della solitudine o dell’angoscia di morte. Rimane comunque una quota di persone che chiedono l’eutanasia per questioni di dignità personale, per come essi intendono la dignità personale. Si fanno anche stime di quante siano queste persone circa il 4%, una strettissima minoranza tra i malati inguaribili.
Le cure palliative sono buona medicina, non uno strumento per evitare deviazioni inquietanti (almeno per lo scrivente) nei modi di intendere la vita umana e la sua dignità. Sono la risposta giusta, per la medicina, alla sofferenza da malattia quando questa diventa inguaribile. Eppure l’ambiguità prosegue a sussistere e qui devo fare un accenno a una pratica su cui tanto si è speculato nel tentativo di usare le cure palliative per aprire le porte all’eutanasia (sì, perché tanto si chiamano in causa oggi le cure palliative per prevenire la morte medicalmente assistita quanto le si utilizzano per giustificare la morte medicalmente assistita). Mi riferisco alla questione della sedazione profonda alla fine della vita, pratica medica non banale nella sua corretta esecuzione e senz’altro molto importante per un controllo adeguato della sintomatologia refrattaria (cioè non altrimenti trattabile) in un numero non trascurabile di pazienti.
Nel dibattito toscano sulla proposta di legge regionale su questi temi ho sentito affermare che mentre con la sedazione si aspetta la morte, sedati, un paio di giorni, con l’eutanasia (o il suicidio medicalmente assistito) si muore subito. È vero, ma si dimentica di dire che la sedazione viene fatta solo in imminenza di morte, altrimenti anche secondo il Comitato nazionale di Bioetica (2016) essa non è eticamente lecita. Cioè: la sedazione non affretta la morte, come dimostrano decine di studi epidemiologici. Perché allora diffidare della sedazione, da una parte, o magnificarla come una sorta di eutanasia già permessa solo più lenta, dall’altra?
L’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito non sono atti medici: non curano.
Trattano in modo onnipotente la sofferenza cancellandone il portatore. Sosteniamo le cure palliative, superiamo le ultime resistenze nei loro confronti, dovute all’ignoranza, per attuare una solidarietà umana e giusta verso quelli di noi che finiscono la vita conoscendo sofferenze e solitudine ed evitare le richieste improprie di morte medicalmente assistita. Lasciamo invece alla responsabilità del dibattito giuridico e filosofico (perché di questo si tratta: di scegliere tra una società che si fonda sull’amore per i più deboli e il rispetto integrale della vita umana, in ogni momento della sua evoluzione, e una società che si fonda sulla definizione di soglie e di limiti da porre a questo rispetto e a questa solidarietà) la difesa di una forma di convivenza civile veramente umana.
*incaricato Cet per la Pastorale sanitaria