Arte & Mostre
Filippo Lippi, il mistero dei tre volti di Salomè
di Gianni Rossi
«Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vita / danza come colei davanti ad Erode, / voluttuosa; e il tuo desìo si gode / d’ogni piacer quand’ella ti convita». Gabriele D’annunzio, giovane studente al Collegio Cicognini di Prato, si incantava ammaliato davanti al celebre affresco del «Convito d’Erode» che Filippo Lippi eseguì (fra il 1452 ed il 1465) a completamento del ciclo su San Giovanni Battista e Santo Stefano nel duomo di Prato. «Colei» è Salomè, poco sopra richiamata dal poeta abruzzese nei sonetti de «Le città del Silenzio».
D’Annunzio ne rimase così ammaliato da dichiararsi in un’altra sua opera, «Le faville del Maglio», «il secondo amante di Lucrezia Buti». Il primo fu Filippo Lippi, che come racconta il Vasari a cinquant’anni, per giunta frate carmelitano, venne folgorato dalla bellezza di questa giovanissima monaca del convento di Santa Margherita in Prato, da lui amata e voluta al punto da renderla madre e sottrarla al convento. Uno scandalo senza dubbio, anche se da leggere con gli occhiali di un’epoca in cui le monacazioni forzate erano fenomeno diffusissimo.
Che l’immagine di Salomè vera icona del grande pittore rinascimentale potesse riflettere il volto della donna amata da Lippi lo si è supposto più volte. Anzi, quel volto ritorna, con tratti inconfondibili, in tutti i capolavori dell’artista, a cominciare dalla celebre Madonna degli Uffizi, la cosiddetta «Lippina». Restava un mistero, quello dei tre diversi volti che Salomè assume nella medesima scena del Convito: mentre raccoglie la testa del Battista dai suoi aguzzini, mentre danza davanti ad Erode ed alla madre Erodiade, mentre infine porge al re la testa decapitata di Giovanni in un bacile. Tre diversi visi eppure in figure abbigliate nello stesso modo, perfino con la medesima collana. Un mistero appunto. Che Isabella Lapi Ballerini, nota storica dell’arte pratese, risolve con l’affascinante spiegazione delle «tre età» di Lucrezia. La studiosa, soprintendente per i Beni architettonici e artistici di Lucca e Massa Carrara, nonché soprintendente ad interim per i Beni storici e artistici della Liguria, ha partecipato a Prato, lunedì 16 febbraio, all’incontro mensile de «I thé di Toscana Oggi», svoltosi nella sede abituale del Ridotto del Teatro Metastasio. Davanti a più di cento abbonati al nostro settimanale, Isabella Lapi Ballerini ha svelato la sua affascinante ipotesi, frutto anche di uno studio recentemente pubblicato nel volume «Governare l’arte», edito da «Firenze Musei» in onore di Antonio Paolucci. La soprintendente conosce bene Filippo Lippi, per aver voluto e diretto il cantiere di restauro degli affreschi pratesi (2002 – 2007). «Che sia sempre lei, Salomè, afferma non v’è ombra di dubbio: calzante ne è il ruolo con il racconto canonico; eguali sono il ricco vestito e gli ornamenti, il decoro al sommo della fronte». Dunque come mai il volto cambia? «A ben guardare, ciò che differisce spiega la storica dell’arte è l’età rappresentata, che ribalta la sequenza temporale iniziandola con un volto di matura e sfilata bellezza, intenso e malinconicamente allusivo, per passare poi all’aria attonita e alle guance piene di una giovane donna, concludendo col faccino d’una adolescente, maliziosamente estranea alla tragedia cui lei stessa ha appena contribuito». Detto in altre parole, si tratterebbe di Lucrezia diciassettenne all’arrivo dell’artista fiorentino a Prato (1452); Lucrezia giovane donna al tempo della scintilla d’amore; Lucrezia infine al colmo della sua bellezza. Prove certe di questa suggestiva ipotesi non ce ne sono. Isabella Lapi Ballerini, però, non solo basa la sua identificazione sui chiari elementi iconografici, ma grazie a inediti documenti, riesce a fondarla anche su una nuova ricostruzione storica dell’appassionato amore del Lippi per la Buti. «Dai miei studi recenti ha spiegato l’immagine del pittore viene liberata dalla fama di astuto libertino e di scialacquatore, che tanto ha contribuito ad alimentarne la leggenda quanto ad offuscarne per secoli la fortuna artistica, quella stessa che i contemporanei gli tributarono unanimemente, a cominciare da Michelangelo».
I documenti provano infatti come Filippo Lippi a Prato abbia acquistato nell’arco di tredici anni ben tre case. «Il pittore, evidentemente spiega ancora la soprintendente aveva il desiderio, nonostante i molteplici impegni fuori città, di radicarsi nel luogo dove si trovavano la donna amata e il figlio». Quest’ultimo, Filippino, che dal padre avrebbe appreso la pittura tanto da diventare a sua volta un grande artista, nacque forse nel 1457: poco avanti Filippo aveva acquistato la prima casa. Sottolinea Isabella Lapi Ballerini: «All’epoca le nascite nei monasteri femminili non erano infrequenti: normalmente i figli venivano dati in adozione. Filippo, invece, decide di tenere il figlio e per farlo crescere vicino alla madre che nel monastero, dopo esservi rientrata, rimarrà molti anni anche dopo la morte del pittore (avvenuta il 10 ottobre 1469) decide di acquistare una casa proprio davanti al monastero di Santa Margherita». Qui Filippino, che alla madre rimarrà sempre legato tanto da acquistarle a sua volta una stanza contigua alla sua casa in via delle Tre Gore, a due passi dal Duomo, dipingerà l’opera sua più ricca d’affetto: il tabernacolo che prenderà il nome del «Mercatale», la piazza sul cui «Canto» si trovava appunto la casa. L’estremo tributo ad una storia in cui l’amore sopravvisse allo scandalo.