Firenze
Festa di San Giovanni, Betori: “Giorno di gioia” pensando anche al piccolo Nicola
Giorno di gioia oggi per la nostra città, nel segno della nascita del suo patrono, che mi piace legare a quella seconda nascita che è stato il ritrovamento del piccolo Nicola tra i monti di Palazzuolo sul Senio. Ci sentiamo partecipi della gioia della sua famiglia e di tutta la comunità di Palazzuolo, che nella prova ha mostrato spirito di coesione e concreta dedizione.
Nella liturgia della Chiesa solo di Gesù, di Maria, sua madre, e di Giovanni Battista viene celebrata la nascita, e questo costituisce un invito a riflettere sul dono dell’accadere della vita umana e quindi il progetto di vita che per ciascuno prende corpo nella nascita.
Del progetto divino a riguardo della vita di Giovanni parla san Paolo ad Antiochia di Pisidia, ricordando la missione affidata al Battista di preparare l’avvento di Gesù e il suo rapportarsi al Signore in un atteggiamento più umile addirittura di quello di uno schiavo: «viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali» (At 13,25). Il mistero avvolge la nascita del Precursore secondo il vangelo di Luca, dove la questione di quale nome dare al bambino appena nato oppone i suoi genitori all’opinione prevalente nel contesto sociale, per dire che quel bambino è segno di un Dio che è misericordia: questo il significato del nome «Giovanni» (Lc 1,63). Il secondo canto del Servo nel libro di Isaia, la prima delle letture odierne, raccoglie e sviluppa questi temi: anzitutto l’imposizione del nome da parte di Dio, la definizione cioè dell’identità a partire da un disegno divino – «il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome» (Is 49,1) –; una missione, poi, di servizio in cui il profeta, e Israele, che egli rappresenta, non sono più il centro esclusivo del progetto di Dio, ma strumenti a favore di un mondo rinnovato; infine, una volontà di misericordia, nel segno della riconciliazione, della ricomposizione del popolo in unità, della manifestazione della volontà salvifica di Dio per tutti i popoli della terra, in una prospettiva di piena universalità.
Sono, queste, preziose indicazioni sul cammino che come comunità fiorentina siamo chiamati a intraprendere per l’auspicata ripartenza, che, nel nostro caso, deve poter assumere le forme di un vero rinascimento. Infatti non si tratta propriamente di ripartire, come se la strada possa essere quella che già percorrevamo prima che la pandemia ci colpisse e questa ci abbia semplicemente fermati. Guai a pensare che la pandemia possa essere considerata una crisi passeggera e tutto possa ricominciare come prima. Dobbiamo prendere coscienza che la pandemia è stato un grande vaglio, da cui è bene trarre le cose che contano: prima fra tutte la consapevolezza del limite, qualcosa che appartiene per natura alla condizione umana; non meno importante, la scoperta che da soli non ci si salva, ma si può uscire da questa e da ogni crisi solo con uno sguardo e una concreta volontà di condivisione.
Oggi si impone per noi una rinascita, una nuova nascita, purché sia sul modello di quella del Battista: una nascita segnata da un nome, cioè un’identità, e da un progetto, e questo nella forma del dono e del servizio.
Un’identità, anzitutto, che ci permetta di rinverdire le nostre radici più autentiche, quelle in forza delle quali Firenze nei secoli ha saputo unire l’operosità del fare, l’intelligenza dei saperi, il genio delle arti, la cura dei deboli, coltivando una visione piena dell’umano, con uno sguardo largo sul mondo senza rinunciare alla identità dei luoghi, con il cuore aperto verso tutto ciò che può favorire l’incontro e il dialogo. Per questo siamo felici di accogliere nei primi mesi del prossimo anno l’incontro di vescovi e di sindaci delle città del Mediterraneo “frontiera di pace”.
Lo scorso anno ebbi modo di ripetere in questa cattedrale parole del “sindaco santo”, il ven. Giorgio La Pira, parole che insieme componevano il ritratto ideale della nostra città. Le ricordo in sintesi: riposo, bellezza, contemplazione, pace, elevazione, proporzione, misura. A questi tratti fondamentali di un volto di città da ricostruire voglio accostare quest’anno le parole di due pontefici che pure ci hanno parlato della nostra identità.
Anzitutto il santo papa Paolo VI, che nella notte di Natale del 1966, nella città sconvolta dall’alluvione, venne dirci cose che ben si addicono anche a questo tempo di attesa rinascita: «Rinascere, Figli carissimi, è una grande parola […] – egli ci disse –. Rinascere vuol dire rifare se stessi, i propri pensieri, i propri propositi […] Vuol dire per voi, Fiorentini, ritrovare le energie interiori dello spirito, che la vostra tradizione cristiana ha inserito nell’essere vostro; e riacquistare coscienza della vostra vocazione a irradiare appunto lo spirito, e a diffondere nel mondo, cominciando da quello che viene qua pellegrinando alla vostra scuola, di arte e di storia e di lingua e di civiltà, quei valori immortali e universali […] di cui la fede cattolica dei vostri Santi e dei vostri Grandi possiede la sempre feconda radice. E le supreme aspirazioni del nostro tempo, la giustizia, quella sociale specialmente, e la pace, quella internazionale specialmente, avranno da voi nuovo suffragio e originale servizio. La vostra vocazione, Fiorentini, è nello spirito, la vostra missione è nel diffonderlo» (Paolo VI, Omelia nella Messa della Notte di Natale, Firenze 24 dicembre 1966). Parole che illuminano il percorso da fare per uscire dal vicolo cieco della città-vetrina.
E poi le parole di san Giovanni Paolo II, pellegrino tra noi vent’anni dopo: «Insieme con voi io rendo il mio fervido omaggio a Firenze […] Rendo omaggio alla sua storia, al suo incomparabile patrimonio d’arte, al suo genio creativo. Rendo omaggio, in modo speciale, alle ricchezze d’intelletto, di cuore, di umanità, che un tale patrimonio racchiude ed esprime. […] È perciò necessario proclamare alto, da questa città dello spirito, che è oggi urgente dovere promuovere con tutti i mezzi la verità sull’uomo. È un dovere improrogabile. “La verità che tanto ci sublima” (Paradiso, XXII, 42) è un valore incommensurabile. Lo è in se stesso, quale luce dell’intelletto. Lo è nei contesti storici proclivi alla menzogna, facili alla falsificazione, disinvolti nel culto delle mezze-verità o delle pseudo-verità: fenomeni cui sono tributarie quelle forme culturali che riducono l’uomo a una sola dimensione» (Giovanni Paolo II, Discorso al mondo della cultura, Firenze 18 ottobre 1986). Parole assai esigenti, che invitano a resistere alle minacce alla vita umana e alla libertà di coscienza che risuonano in consessi europei, in cui si confondono drammi e diritti e in cui si rischia di essere puniti perché si sta dalla parte dei più deboli. Parole che valgono anche per orientarci nei problemi – tutti i problemi – che animano il contesto nazionale, in cui è necessario creare modalità di confronto rispettose dell’approccio di ciascuno al reale, spazi di dialogo costruttivo, politico e normativo, per cercare insieme una chiarezza che liberi da ogni equivoco.
Le parole di La Pira e quelle dei papi suscitano in noi tutti un moto d’orgoglio, ma inducono anche a un severo esame di coscienza su quanto abbiamo deviato dalla nostra alta vocazione, nell’affanno consumistico che ha segnato i nostri giorni, nel prevalere degli interessi su ogni istanza di valori, di verità sull’umano, di contemplazione e di pace.
Perché sta proprio qui il nodo da sciogliere per una rinascita: l’abbandono della logica degli interessi, dalla ricerca di ciò che mi giova, come singolo o come ceto sociale, per una conversione – quella richiesta dal profeta –, una conversione a un ideale superiore che va oltre la stessa ricerca di convergenza degli interessi – un processo, questo, che alla fine esclude sempre qualcuno –, per attendere davvero alla costruzione di una convivenza di pace, di proporzione, di elevazione, di umanesimo plenario. O dobbiamo pensare che un po’ di rendita in più giustifichi non tener conto della promozione della famiglia, della saldezza dei legami sociali, della cura dei più deboli, di quanto cioè fonda le tenuta sociale di una città?
Ricomponiamo questa immagine di Firenze, senza aver timore di perdere qualche guadagno per conquistare una più compiuta identità delle persone, delle famiglie, delle aggregazioni sociali, dei luoghi. E ricordiamo che, come per il Battista, questa identità si compie nel momento in cui essa si fa servizio: per lui lo fu di Gesù, per noi deve esserlo dei fratelli in cui risplende il volto di Gesù. Anche questo ideale del servizio agli altri, soprattutto ai più fragili è parte essenziale della nostra storia e della nostra identità. Manteniamolo vivo, favoriamone le espressioni, coordiniamone le presenze, apriamolo a sempre nuove necessità. La creatività nel dare valore al lavoro, nell’intelligenza delle cose e nella edificazione del bello si accompagni a quella nella presa in carico dei deboli e dei poveri.
Recentemente la presidente Ursula von der Leyen, per parlare del futuro dell’Europa ha collegato tra loro Firenze, il Rinascimento e l’I Care di don Lorenzo Milani. Un rinascimento per l’Europa e per Firenze avrà bisogno di solide radici che dovranno includere il farsi carico degli altri e dei loro problemi, l’essere attivamente presenti nelle sorti nostre, delle persone e del mondo. Ma mi ha molto colpito quanto detto recentemente da uno degli allievi di don Milani e cioè che il cartello con quella scritta, I Care, non stava appeso sui muri della scuola, ma sulla porta dietro la quale c’era la camera del priore, a dire cioè che il primo a farsi carico degli altri era don Milani stesso verso i suoi ragazzi. Mi ha colpito, perché il fatto segnala che ogni insegnamento, ogni indicazione che possiamo dare sul futuro, deve anzitutto cominciare da una nostra compromissione, quella del samaritano della parabola verso l’uomo ferito, che altro non è se non l’immagine evangelica che sta a fondamento dell’I Care.
Giuseppe card. Betori