Toscana
Fenomeno badanti, segno della carenza di politiche sociali
La grande regolarizzazione del 2002 collegata alla cosiddetta «Bossi-Fini» (l.189/2002) consentì l’emersione dall’irregolarità di oltre 230mila lavoratrici e lavoratori migranti inserite nel settore domestico. Questo fatto colse impreparato il sistema politico poiché si trattava di un fenomeno largamente ignorato, «sommerso» eppure già ben presente nel quotidiano delle famiglie italiane.
La presenza delle lavoratrici di cura immigrate erano un segno premonitore.
In questa situazione si inserisce il fenomeno delle lavoratrici di cura straniere, protagoniste di un «welfare informale» nato dal basso e tutto a lato degli interventi istituzionali che potremmo definire inesistenti.
Quello delle lavoratrici di cura straniere non è un fenomeno nuovo per il nostro Paese visto che i primi flussi risalgono all’inizio degli anni ’70 e riguardano soprattutto «colf» (era la definizione ricorrente allora) provenienti da Paesi cattolici (Filippine, Perù e America Latina in genere), dal Corno d’Africa (Somalia, Eritrea ed Etiopia) e da Capoverde.
Le stime più accurate, e recenti, al riguardo indicano in oltre 600mila le cittadine immigrate che in Italia sono impegnate nel lavoro di cura, incluse coloro che si trovano in una posizione d’irregolarità. Quelle regolarmente iscritte all’Inps a fine 2004 erano, invece, oltre 336mila, un valore sensibilmente sottostimato rispetto a quello reale ma, comunque, di cinque volte superiore a quello del 1995: in dieci anni, infatti, il numero dei migranti iscritti all’Inps nel settore del lavoro domestico è aumentato di ben il 408,1%.
Una diffusione così ampia del fenomeno si spiega per l’invecchiamento della popolazione: l’Italia presenta un incidenza della popolazione anziana superiore di 3 punti in percentuale (57.321.000 pari al 19%) rispetto alla media europea del 16,3% (455.022.000) Italia.
Chiaramente l’invecchiamento della popolazione non è il solo elemento di cambiamento. Il ruolo della donna italiana è cambiato da «casalinga-madre-moglie» a «lavoratrice-madre-moglie» anche se ancora oggi il peso maggiore grava ancora sulle donne, che si stima arrivino a lavorare anche 70 ore a settimana.
A fronte di questi cambiamenti il sistema di welfare nazionale si è fatto trovare ampiamente impreparato: il sistema di protezione sociale italiano, infatti, è basato essenzialmente «su trasferimenti di reddito, soprattutto sotto forma di pensioni, e meno su servizi pubblici alle persone e alle famiglie, rispetto ai Paesi dell’Europa settentrionale e centrale» (Ambrosini). Prova ne è che l’Italia è, fra i Paesi Ocse, quello che dispone del numero più basso di posti letto in residenze protette per anziani: 20 per ogni mille ultrasessanticinquenni mentre nessun altro Paese industrializzato scende sotto la media dei sessanta. Mentre il nostro sistema sanitario nazionale riesce a raggiungere a domicilio una proporzione inferiore all’1% degli anziani con più di 65 anni.
A differenza di quanto avviene nei paesi scandinavi che si attestano al 20%.
Un ultimo elemento che evidenzia ulteriormente il bisogno di cura delle famiglie italiane è quello definito come «cultura della domiciliarità», laddove si ritiene che sia importante offrire cura dell’anziano nell’ambito del suo contesto di vita.
Nell’ambito di questi cambiamenti si costruisce quel «welfare nascosto» di cui le lavoratrici di cura straniere costituiscono il pilastro fondamentale. Le lavoratrici di cura immigrate, infatti, garantiscono tutta una serie di «requisiti» che incontrano i bisogni delle famiglie autoctone: la disponibilità a svolgere un lavoro che gli italiani non accettano più di fare, a causa certo della bassa retribuzione, ma ancor di più della pesantezza delle mansioni da svolgere e della bassa considerazione sociale di cui gode questa professione, che si collega alla scarso valore dato al lavoro casalingo e di cura dei figli.
Senza contare che questo sistema produce delle economie, una ricerca di alcuni anni fa (novembre 2001) condotta dall’Osservatorio Socio-religioso del Triveneto e dalla Delegazione Caritas Nord-Est stimava in circa 273 milioni di euro il risparmio delle famiglie venete e dell’amministrazione regionale derivante dalla presenza delle circa 15mila lavoratrici di cura immigrate.
Questo welfare informale e nascosto non assicura solo convenienza reciproca ma produce anche svantaggi su ambo i lati della relazione. Le donne migranti, segregate in nicchie occupazionali godono di scarsa considerazione sociale e impieghi inferiori alle loro competenze e aspettative. Sul versante familiare, invece, l’inconveniente maggiore è l’assenza di profili professionali non adeguati per un lavoro, come quello di cura, che domanda non solo disponibilità alla fatica fisica ma anche competenze relazionali e socio-sanitarie specifiche di cui, spesso, le lavoratrici di cura sono sprovviste.
Il fatto che nella prassi, sia comune che scientifica, si faccia ricorso indifferentemente a termini che in realtà richiamano aspetti qualitativamente diversi è dovuto in parte alla normativa, segnatamente il Decreto Legislativo del 30 marzo 2001, che sotto la voce «collaboratore domestico e assimilati» include diverse sottocategorie quali: «balia, bambinaia, collaboratore familiare, donna di servizio, fantesca, guardarobiere domestico, lavoratrice domestica, maestro di casa e servitore»; in misura preponderante, però, ciò è dovuto al fatto che spesso la lavoratrice di cura «svolge allo stesso tempo attività di collaboratrice familiare per cui, pur essendo razionalmente agevole distinguere tra le due funzioni, in pratica bisogna rendersi conto che la stessa persona, contemporaneamente o successivamente, è chiamata ad esercitarle entrambe».