Opinioni & Commenti
Fedeli alla tradizione, ma aperti alle nuove forme di comunicazione
Si è aperto l’11 ottobre scorso l’Anno della fede. E questo cammino della Chiesa tutta, voluto da papa Benedetto XVI per promuovere una «nuova evangelizzazione», è stato inaugurato in coincidenza con le celebrazioni dei cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. La connessione fra i due eventi non è, naturalmente, un caso. Lo ha detto subito il Pontefice, ricordando con commozione la sua presenza ai lavori del Concilio e l’atmosfera che vi si respirava, ma anche segnalando il problema decisivo che il Concilio fino in fondo non ha forse risolto. Si tratta della questione riguardante il rapporto che la Chiesa ha con il mondo moderno. Si tratta, soprattutto, della necessità di giungere a una piena comprensione della modernità e dei suoi presupporti.
È necessario dunque, anzitutto, tentar di chiarire in tutte le loro implicazioni i principali caratteri della mentalità moderna. Si tratta di quella mentalità che si è progressivamente imposta in Occidente a partire dal Cinquecento e da cui oggi non abbiamo affatto preso le distanze: visto che sotto molti aspetti la nostra non è tanto l’epoca del post-moderno, quanto quella della «iper-modernità». È la mentalità che fin dall’inizio rompe gli equilibri su cui l’epoca precedente si era basata e a partire da cui era fiorita: l’equilibrio, soprattutto, tra uomo, mondo e Dio, nell’ottica del rapporto tra creatore e creatura, e quello tra fede e sapere. Nell’età moderna l’essere umano diviene invece il centro, il fondamento di ogni relazione con altro: si tratti delle cose o dello stesso Dio. E lo sviluppo del sapere, soprattutto nell’ambito della conoscenza scientifica, fa sì che la dimensione della fede venga considerata progressivamente qualcosa di superfluo.
Tutto ciò poi, nel corso dell’età moderna, è rivendicato in maniera astratta e unilaterale, portando questi assunti alle loro estreme conseguenze. L’uomo viene concepito davvero come misura di tutte le cose, la fede si separa dalla ragione, la libertà si trasforma in arbitrio. Di fronte a questi assunti, che anche oggi ci sembrano in larga misura qualcosa di ovvio, la riproposizione del messaggio cristiano ha conosciuto difficoltà crescenti, appunto perché esso si basa sul principio della relazione (con Dio, con il prossimo) e non sull’esaltazione dell’individuo isolato. Ecco perché il Concilio ha considerato urgente confrontarsi con questa situazione, e ha inteso rivolgersi proprio a quest’individuo: allo scopo, potremmo dire, di ricentrarlo e di comunicargli che il suo senso, il senso che dà motivazione alla sua vita, sta solo nella relazione che lo lega al suo altro.
Parlare oggi di «nuova evangelizzazione» significa allora, come sottolinea papa Benedetto XVI, riprendere questo cammino: un cammino che, per stanchezza, per sfiducia, forse per paura aveva talvolta, in questi cinquant’anni, segnato il passo. Significa farlo mantenendosi fedeli alla tradizione di pensiero elaborata dalla Chiesa e, prima ancora, al messaggio evangelico, senza però cristallizzarlo in formule che non sarebbero capite dalla mentalità oggi predominante e che, dunque, non consentirebbero di entrare in dialogo con essa.
Parlare oggi di «nuova evangelizzazione» significa tenere conto – e non si tratta perciò solamente di un mero «aggiornamento» delle modalità di espressione della buona novella – del fatto che questa mentalità si forma ed è veicolata, in una misura assolutamente sconosciuta nel passato, dai mezzi di comunicazione di massa e, soprattutto, dall’uso delle nuove tecnologie. E dunque sono anzitutto questi strumenti comunicativi e queste tecnologie che devono essere considerati e utilizzati nell’ottica di quella relazione, di quella relazione buona, che è necessario oggi rivendicare rispetto a un individualismo senza sbocchi.
Che di tali forme di relazione ci sia un sempre crescente bisogno lo mostrano, pur con certi limiti, le stesse forme di comunicazione oggi più diffuse, specialmente in ambito giovanile: mi riferisco ai social network. Ma, di nuovo, non si tratta solamente di dire cose antiche in forme nuove. Si tratta piuttosto di far vedere come determinati contenuti elaborati nel passato e, soprattutto, un messaggio che è sempre nuovo si ritrovino ad animare il presente e, anzi, siano i soli a poter dare al presente il suo senso.
In quest’ottica, credo, può essere concepito il compito che in questo anno della fede è riservato a ciascuno di noi. Non si tratta solo di una richiesta d’impegno e di disponibilità per portare il Vangelo anzitutto a coloro che ci sono «vicini».
Si tratta di riscoprire all’interno della mentalità comune, e di quelle forme comunicative che la veicolano, proprio ciò che in essa vi è di profondamente cristiano: il primato della relazione rispetto alla chiusura individuale, della fiducia rispetto all’utilitarismo nichilistico, del rispetto della vita rispetto a ogni forma di manipolazione tecnologica.
In tutti questi modi si può realizzare quella testimonianza alla quale, giustamente, il Pontefice richiama ogni cristiano nel contesto dell’anno della fede e a cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II