Vita Chiesa
Fare il prete in carcere, un «lavoro» difficile
di Silvia Borghesi
Don Leonardo Basilissi, cappellano della casa circondariale di Prato e responsabile regionale per la pastorale carceraria, mi ha accolto nella sua cucina-studio per illustrarmi il quadro delle carceri toscane così com’è emerso anche dal suo recente incontro con don Vincenzo Russo e don Roberto Filippini, i cappellani carcerari di Firenze e Pisa. La scorsa settimana, don Basilissi ha anche partecipato all’incontro della Conferenza Episcopale Toscana presentando ai vescovi toscani attese, speranze, problemi di chi cerca di annunciare il Vangelo dietro le sbarre.
L’immagine è quella di una stazione ferroviaria in cui entrano ed escono tante persone e difficilmente si possono creare relazioni durature. Il carcere è un luogo dove, dice don Basilissi, «tu lavori, ti massacri e cosa ottieni non si sa». In realtà sa bene cosa ottiene perché quando a fine intervista gli domando se ci sono aspetti positivi nel suo «impiego», mi risponde: «Come? Tutto questo che le ho detto è positivo, ci sono i risultati, c’è l’attaccamento, gli devi dare la vita, è come fare la mamma: bisogna che i detenuti vedano l’affetto».
È necessario, dice don Leonardo, che la pastorale carceraria si svolga in carcere, ma anche nelle parrocchie e nelle città perché in carcere si lavora per fare Chiesa e quindi sarebbe importante interessarsi delle famiglie dei carcerati, visitare i detenuti agli arresti domiciliari, creare relazioni che permettano alla persona di diventare autonoma una volta uscita di prigione, di sentirsi davvero recuperata.
Don Basilissi individua proprio in questo il problema fondamentale delle carceri: non si recuperano più le persone non perché non si voglia, ma perché è davvero difficile farlo. Mancano gli agenti, i fondi sono scarsi, il vestiario è insufficiente nonostante le donazioni e le carceri sono estremamente sovraffollate di persone che si ricambiano spesso, creando un flusso continuo.
Don Leonardo mi consegna una tabella da cui riporto alcuni dati del 22 gennaio 2010. Diciotto istituti penitenziari in Toscana (escluso il minorile fiorentino) per 4309 detenuti. Nella gran parte dei casi la capienza regolamentare è superata e in alcuni anche quella tollerabile: un caso per tutti la Casa Circondariale di Sollicciano con 970 detenuti presenti e una capienza tollerabile di 890 persone.
Si capisce bene, dunque, cosa intenda don Basilissi quando parla di difficoltà: tante persone che si ricambiano velocemente con scarse possibilità di creare un cammino. Ecco che il cappellano ha inventato «la spiritualità dell’effimero e dell’occasionale»: approfitta di ogni momento per fare rete, creare relazioni, «dando un francobollo cerco di stabilire il massimo della fraternità» dice ancora don Leonardo.
È un cappellano che ha visto circa trenta mila detenuti in questi ventiquattro anni e quando parla dei suoi 35/40 battezzati e delle belle celebrazioni eucaristiche i suoi occhi s’illuminano, però torna subito al tema che gli sta a cuore e aggiunge: «il carcere è diventato contenimento, deposito, accantonamento. I problemi sociali che non si affrontano sono risolti nel giudiziale». In questo modo in carcere aumentano il numero d’immigrati, dei tossici e dei disagiati psichici che in realtà avrebbero avuto bisogno solo di qualche servizio sociale in più che li orientasse.
Problema che non si risolve in carcere perché, dice ancora don Basilissi, «il recupero si basa sulla possibilità di trovare al detenuto un posto per dormire e un lavoro, ma che lavoro posso dargli se sono senza documenti, se hanno bisogno di cure psichiatriche o disintossicanti? È necessario non carcerizzare i problemi sociali. È essenziale risolverli prima».