Un appuntamento, organizzato in sinergia dal Centro diocesano di pastorale familiare e dal Centro pastorale migrantes, che è iniziato la mattina con una tavola rotonda, con testimonianze davvero interessanti e che sicuramente avrebbero meritato una partecipazione di pubblico più numerosa. Significativo il tema («Famiglie e migranti oltre le frontiere»): a raccontarsi quelle famiglie di culture diverse o allargatesi grazie all’arrivo di ragazzi stranieri. Moderata da Andrea Cuminatto, la tavola rotonda ha visto la presenza di Maurizio Ambrosini, sociologo, autore del libro «Famiglie nonostante», che ha analizzato il ruolo della famiglia, sia quella autoctona che quella composta da immigrati, sul piano politico, etico e religioso. Kaaj Thsikalandand invece ha raccontato la sua storia, di famiglia congolese ma «fiorentina a tutti gli effetti». E ancora, abbiamo ascoltato la famiglia Navarrete, formata da tre persone «provenienti da altrettanti continenti», e la famiglia Cei, di Empoli, due figli naturali, altri due in affido, uno dei quali originario del Senegal, l’altro italiano. Un bello spaccato, insomma, della società attuale, fatto di testimonianze, anche di momenti difficili, iniziato più in modo «tecnico». Con le parole del professor Ambrosini, che si è soffermato più di una volta, fra le altre cose, su un paio di concetti: quello di «mescolanza» ma anche quello di «stabilità familiare», le cui problematiche, spesso, non vengono prese in considerazione dall’esterno quando si parla di famiglie di immigrati. E che ha concluso il proprio intervento sintetizzandolo in quattro punti: le problematiche derivanti dal ricongiungimento familiare, la necessità di una maggiore sensibilità, le opportunità di «cittadinizzazione» che derivano dallo scambio di esperienze e di vita vissuta tra famiglie italiane e famiglie di immigrati e il fatto che «l’integrazione non si costruisce con la politica ma con il quotidiano». Partendo da un altro presupposto, ovvero che «oltre la metà degli immigrati che arrivano in Italia sono donne e che spesso trovano lavoro nelle case delle famiglie di italiani». Kaaj, invece, ha 26 anni, «immigrata di seconda generazione», è una mediatrice culturale e anche lei, che a Firenze ha frequentato l’asilo per poi tornare, dopo una parentesi in Congo, per l’Università, ha voluto evidenziare due punti: «Per arrivare a un’integrazione che si dica tale, bisogna agire, dobbiamo essere tutti attori attivi. Perchè la cosa importante è trovare un punto di incontro per “spogliarsi” dai rispettivi stereotipi e fare comunità». Concetti, questi, ribaditi dalla famiglia Navarrete, Mario, Rita e Yngat: babbo argentino, mamma toscana e figlia, adottata, di origine vietnamita, appartenenti al movimento dei Focolari «Famiglie nuove»: «Per arrivare alla stabilità e alla serenità di oggi, abbiamo dovuto superare tanti momenti difficili. Causati inevitabilmente anche dalle abitudini, dalle tradizioni e dai modi diversi di pensare dei nostri rispettivi paesi di origine. Il nostro, però, è stato un incontro di anime, basato su un incessante allenamento dell’arte di amare. Il nostro stare insieme è ed è sempre stato una sfida, gli scontri ci sono ma, puntando all’essenziale, è questa la cosa importante, ci sentiamo ogni volta preparati a ricominciare».Arriva da Empoli, infine, l’ultima testimonianza, quella della famiglia Cei che, nel loro racconto, hanno voluto mettere due punti fermi in quella che è stata l’esperienza di vita fino a oggi: l’Opera Madonnina del Grappa e l’Organizzazione non governativa che li ha fatti conoscere. Due figli naturali e altri due, di età diversa, in affido. Cisse, originario del Senegal, con loro da oltre cinque anni, e un altro, più piccolo, con genitori eroinomani, che è andato ad arricchire il nucleo familiare formato inizialmente da Maurizio ed Elisa: «Tutte queste esperienze ci hanno insegnato a guardare oltre e a dare un senso di spiritualità alla strada intrapresa da tutta la famiglia».Betori: «È in gioco la nostra umanità»Il primato di Dio rispetto alle cose del mondo, a ciò che può costituire una ricchezza, materiale o affettiva, per noi è ciò che decide nel nostro atteggiamento verso i migranti come pure nella nostra considerazione ed esperienza della famiglia». Così il cardinale Giuseppe Betori si è espresso nell’omelia durante la Messa celebrata domenica pomeriggio, nell’ambito della Festa diocesana della famiglia e della Giornata del migrante, celebrate insieme a Spazio Reale. L’arcivescovo ha ripreso il Messaggio di Papa Francesco, che ha proposito del fenomeno migratorio afferma: «Non si tratta solo di migranti». Ciò che è in gioco infatti sono le nostre paure, la nostra umanità, la nostra capacità di non escludere nessuno e di mettere gli ultimi al primo posto. Si tratta di riconoscere la dignità di ogni persona, di costruire la città di Dio e dell’uomo. «Un insieme di richiami – ha aggiunto Betori – che valgono per ciascuno ma toccano anche specificamente la realtà familiare, anch’essa minacciata da chiusure, in cui faticano compassione e perdono, considerata realtà marginale nei processi economici e nelle ideologie individualiste».