Opinioni & Commenti

Famiglia, ci vogliono politiche flessibili e coordinate

di Emanuele RossiMolti e complessi sono i problemi connessi ad un’adeguata azione di politiche familiari nel nostro Paese, come è reso evidente dal paradosso cui si assiste: se infatti nessuna parte politica –in linea teorica- contesta la necessità di sostenere e valorizzare la famiglia, sul piano operativo resta sempre, pur a fronte di talvolta apprezzabili interventi normativi, una diffusa insoddisfazione su come vanno le cose e sulle non risolte difficoltà che la famiglia vive.

Non è possibile in questa sede analizzare temi e contenuti delle (in atto o potenziali) politiche familiari, ma può essere utile soffermarsi su alcuni problemi per così dire preliminari e generali.

Un primo problema è dato dalla estrema complessità che questa realtà che chiamiamo “famiglia” e che vogliamo considerare unitariamente vive nell’attuale contesto storico. Non voglio qui riferirmi e considerare modelli di convivenza diversi e in qualche modo alternativi alla famiglia (che pure rappresentano una realtà con cui fare i conti), ma anche restando al suo concetto tradizionale, occorre ricordare che il censimento della popolazione italiana del 2000 ha registrato –ad esempio- che nei comuni di grandi aree metropolitane quasi una “famiglia” su tre (il 29,7%) è composta da un solo individuo, e che il 15,3% delle famiglie sono formate da un solo genitore. Più in generale, le statistiche indicano che alla diminuzione dei figli fa riscontro un aumento delle famiglie con anziani, un aumento di singles, di coppie senza figli, di singles con figli e di famiglie “ricomposte”.

Cosa significa questo a fronte delle politiche familiari? Significa, mi pare, che è assai difficile, se non si vuole impostare il ragionamento su basi ideologiche, immaginare delle politiche che considerano astrattamente il concetto di “famiglia”, quasi che esso fosse unitario ed omogeneo, e non invece riferirsi, diversificandosi, a realtà così diverse e così complesse, con problematiche spesso opposte. Le politiche familiari devono pertanto essere estremamente flessibili e legate alle differenti esigenze: aspetto che richiede un’attenta conoscenza della realtà non solo generale e teorica, ma anche “caso per caso”; per questo (o, meglio, anche per questo) la via obbligata per le politiche familiari (come per tutte le politiche sociali) è quella di un welfare municipale che realizzi efficacemente il principio di sussidiarietà verticale, l’unica in grado di garantire un’effettiva conoscenza della realtà ed un livello di controllo sociale senza il quale il diritto può rischiare di trasformarsi in abuso.

Ma ciò richiede un’azione integrata e collaborativa tra i diversi livelli di governo. Se infatti oggi le politiche sociali sono attribuite alla competenza legislativa regionale, non si può dimenticare che questa incontra limiti assai penetranti in almeno tre ambiti particolari, fortemente condizionanti la sorte delle politiche familiari, vale a dire l’ambito delle politiche fiscali, quello delle politiche previdenziali e quello legato alla regolamentazione dei rapporti di lavoro. Ciò richiede una forte interazione –in un’ottica di reale sinergia- tra i diversi livelli di governo, senza la quale nessun risultato realmente positivo si può raggiungere. A tale riguardo va sottolineato che il “libro bianco sull’welfare” presentato recentemente dal Governo afferma che “il Governo ritiene che una fiscalità che tenga conto delle spese per la cura e la crescita dei figli costituisce un fattore rilevante per migliorare l’equilibrio demografico e per ristabilire condizioni più favorevoli ad una ripresa della natalità” e che esso pertanto “si impegna nel quadro della diminuzione complessiva della pressione fiscale media ad incentivare il ristabilimento dell’equità orizzontale intesa come la rimodulazione dell’imposta anche secondo la dimensione del nucleo familiare”: auguriamoci che alle promesse possano rapidamente seguire i fatti.

L’integrazione indicata apre poi all’esigenza di più ampie e complessive integrazioni. Come ha sottolineato qualche tempo fa il cardinale Martini, “non di rado una proclamazione solenne del valore della famiglia tradizionale sta insieme con un liberismo incontrollato della politica della casa; o con la carenza di azione efficace a favore del lavoro giovanile, carenza che rinchiude i giovani nel familismo domestico e impedisce loro una famiglia propria e una assunzione piena di responsabilità relazionale. Spesso anche la deriva facile verso i rapporti prematrimoniali è conseguenza di una relazionalità che di fatto non può istituzionalizzarsi e resta affidata alla precarietà dell’attimo”.

Troppo spesso abbiamo pensato, anche da parte del nostro sistema istituzionale, che le politiche familiari fossero riconducibili nell’ambito della “solidarietà” o dell’”assistenza sociale” (non a caso la tutela dalla famiglia rientrava nell’ambito delle competenze di tali ministeri o assessorati), e non fossero invece proprie di chi istituzionalmente si occupa di lavoro, di sviluppo economico, di edilizia, e così via: così che a fronte di politiche che considerano separatamente i vari “comparti del vivere”, la ricomposizione di un (spesso precario) equilibrio è demandato alla famiglia stessa ed ai suoi componenti, con i genitori costretti a conciliare le esigenze produttive (il tempo del lavoro) con quelle riproduttive (il tempo della cura dei figli) e talvolta con quelle assistenziali (anziani, soggetti deboli, ecc.) ed altre ancora.

In conclusione, occorre vigilare ed operare perché la famiglia sia sempre meno problema di politiche sociali e sempre più prospettiva per la politica senza aggettivi.

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