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Europa, il cammino oltre i fuochi d’artificio

di Vittorio CitterichDal primo maggio 2004 l’Europa «dei quindici», con l’aggiunta di dieci nazioni nella comunità, si è trasformata in una «nuova Europa dei venticinque». Esultanza e fuochi d’artificio. Non da smemorati, però. Il processo di unificazione europea, dopo il diluvio della seconda guerra mondiale, è stato come un promettente arcobaleno di pace indicato sui nostri cieli da grandi uomini politici, dal tedesco Adenauer, all’italiano De Gasperi, al francese Schumann. La premessa era stata una «comunità europea del carbone e dell’acciaio» (Ceca) che, non a caso, intendeva disinnescare le rivalità economiche «nazionali» ed i conseguenti nazionalismi da cui erano derivati i più nefasti conflitti bellici del mondo. Da qui lo sviluppo economicista, probabilmente inevitabile, del primo nucleo (l’Europa dei «sei») di un’integrazione politica segnata dal peso dominante ed atlantico degli Stati Uniti nell’arrischiato contrasto della «guerra fredda» con l’Unione Sovietica ed i suoi «satelliti» in quel sistema totalitario che si voleva, insieme, comunista ed ateo. Il limite di quella prima, giusta e lunga fase dell’unificazione europea derivava dalla sua delimitazione geopolitica nell’area mitteleuropea.

In una seconda fase, con l’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo, l’asse europeo si spostava più equamente verso il Mediterraneo. L’Italia, con La Pira, Fanfani, Andreotti, non era più la sola a perseguire, sin dagli anni cinquanta, il dialogo con l’altra riva. E tuttavia permaneva la spaccatura più profonda. Che senso può avere un’Europa senza Varsavia, Budapest, Praga, Kiev, Mosca? Che senso può avere senza le cattedrali e le chiese impedite, si domandava La Pira, l’«utopista». Per questo, come un novello san Francesco che entrò in piena crociata nella tenda del Sultano per parlargli di Cristo, La Pira bucava disarmato la cortina di ferro per dire a Krusciov «togliete di mezzo il cadavere dell’ateismo di stato, riaprite le chiese e le cattedrali». Nel 1978 l’utopia realizzata. Giovanni Paolo II, il primo Papa slavo della storia. «Uomini non abbate paura!».

Torna in Polonia nel tempo di Pentecoste 1979. Dice che non si può togliere Cristo dalla storia degli uomini. L’Europa deve ritrovarsi unita sulle comuni radici cristiane da rilanciare nelle due grandi tradizioni d’occidente e d’oriente. Ed infatti, dieci anni dopo, cadono le mura che sembravano incrollabili. Gorbaciov, un successore di Lenin, viene a Roma, preceduto da una mostra di icone russe in Vaticano, per dire al Papa che l’ateismo sarà abolito dalla costituzione sovietica, secondo la lontana utopia lapiriana. In qualche misura anche l’allargamento dell’Europa a venticinque appartiene a questa storia straordinaria. La maggioranza dei nuovi «dieci», insieme alla Polonia, appartiene all’area slava. E dice infatti Giovanni Paolo II ai suoi connazionali: «Si è concluso il processo che era iniziato dai cambiamenti nel nostro Paese».

Indicando anche le vie del futuro: «L’unità dei popoli europei, se vuole essere duratura, non può essere solo economica e politica, l’anima dell’Europa resta unita perché fa riferimento a comuni valori umani e cristiani. La linfa vitale del Vangelo può assicurare all’Europa uno sviluppo coerente con la sua identità, nella libertà e nella solidarietà, nella giustizia e nella pace…Solo un’Europa che riscopra le proprie radici cristiane potrà essere all’altezza delle grandi sfide del terzo millennio: la pace, il dialogo tra le culture e le religioni, la salvaguardia del creato». Esultanza e fuochi d’artificio per l’Europa dei venticinque.

Ma il cammino deve continuare. Uomini non abbiate paura.

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