E’ lunga la serie di delitti che riguardano sempre più la famiglia o, in senso allargato, avvengono nella cerchia dei suoi rapporti parentali, o di amicizia o di vicinato. Le statistiche parlano chiaro: mentre i delitti imputabili alla criminalità organizzata scendono al terzo posto superati dalla criminalità comune, al primo posto in Italia si attestano i delitti di «prossimità» maturati in ambienti spesso apparentemente tranquilli.Il possesso di un’arma da fuoco sembra associabile ad una propensione all’omicidio e quindi è una prerogativa maschile, i minori e le donne costituiscono la più alta percentuale di vittime. Quando il ruolo del carnefice si inverte, ecco allora che il fatto desta maggior scalpore. Eppure, malgrado l’emozione iniziale, tutte queste storie finiscono col divenire immagini sempre più illanguidite dal trascorrere, anche breve, del tempo. Una volta celebrato il processo, si esaurisce l’attenzione generale. Non siamo riusciti ad ottenere giustizia per i civili morti negli eccidi della Seconda Guerra Mondiale, anche quando si conoscevano i nomi degli esecutori ed i rispettivi reggimenti e divisioni di appartenenza, consentendo loro di percepire comodamente a casa la pensione di guerra.Uno stillicidio enorme di bambini uccisi, costretti a pagare le colpe (presunte) dei genitori o ammazzati (anch’essi) perché piangevano e invocavano l’aiuto della mamma: da Anna Pardini, 20 giorni, di Sant’Anna di Stazzema, a Italo Tuti, 4 anni, di Anghiari (entrambi morti dopo circa un mese a seguito di mutiliazioni e ferite inferte dai mitra); dai neonati usati come bersaglio delle pistole nei villaggi dell’Alta Versilia, alla bambina di 5 anni sventrata a Tavolicci, in Romagna; dai cinque ragazzini della stessa famiglia Pratesi fucilati a Pelago (Bruno di 5 anni, Graziano di 7, Marcello di 10, Marisa di 12, Loretta di 14) alle sorelle Primitivi di Ponte alla Piera, trascinate via nei boschi e violentate dai soldati in ritirata (solo Elisa si salverà, seppur gravemente ferita). E ai nostri giorni Maria Geusa, la bambina di 3 anni e mezzo uccisa giusto due anni fa a Città di Castello.Ormai nessuno ricorda, nessuno ne immagina le voci (perché le immagini di guerra non vengono accompagnate dall’audio delle grida di dolore?), ma quanti altri nomi di bambini, e con essi di donne potrebbero essere citati? Soprattutto quando si parla di storie temporalmente vicine, non sembrano esistere spazi pubblici di riflessione. Eppure la «memoria» non è un cadavere, bensì il tesoro rappresentato dal passato che viene trasformato in promessa per l’avvenire. Paradossalmente il fulcro del crimine si impernia sugli assassini, attorno a cui le vittime orbitano come semplici asteroidi: conosciamo tutto sui serial killer, ma niente sulle loro vittime; parliamo di Erika e Omar, ma non sappiamo i nomi della madre e del fratellino della ragazza.Andrea Bertocci