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Esortazione «Evangelii gaudium»
«In questa Esortazione – scrive il Papa – desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (1). Infatti, «il grande rischio del mondo attuale» è di cadere in «una tristezza individualista». «Anche i credenti corrono questo rischio» (2), perché «ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua» (6): un evangelizzatore non dovrebbe avere «una faccia da funerale» (10).
Il Papa invita a «recuperare la freschezza originale del Vangelo», trovando «nuove strade» e «metodi creativi». Ma è Gesù stesso che rompe «gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina» (11). Occorre partire da un duplice principio: «Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno» (14). L’attività missionaria – dunque rappresenta, anche oggi, «la massima sfida per la Chiesa». I Vescovi latinoamericani – ricorda il Papa – hanno affermato che «non possiamo più rimanere tranquilli, in attesa passiva, dentro le nostre chiese» e che è necessario passare «da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (15).
Di fronte agli innumerevoli temi connessi all’evangelizzazione, il Pontefice afferma di non ritenere «opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso – precisa – avverto la necessità di procedere in una salutare ‘decentralizzazione’» (16).
L’appello rivolto a tutti i cristiani è quello di «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo»: «tutti siamo chiamati a questa nuova ‘uscita’ missionaria» (20) senza «escludere nessuno» (23). Si tratta «di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno» e che spinge a porsi in uno «stato permanente di missione» (25). A questo scopo è necessaria una «riforma delle strutture» ecclesiali perché «diventino tutte più missionarie» (27). Partendo dalle parrocchie, il Papa nota che l’appello al loro rinnovamento «non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione» (28). «Le altre istituzioni ecclesiali, comunità di base e piccole comunità, movimenti e altre forme di associazione, sono una ricchezza della Chiesa», ma non devono perdere il contatto con la parrocchia, anzi devono integrarsi «con piacere nella pastorale organica della Chiesa particolare» (29). Il vescovo, da parte sua, «deve sempre favorire la comunione missionaria», nonché stimolare «la maturazione degli organismi di partecipazione» e «di altre forme di dialogo pastorale, con il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni, sempre pronti a fargli i complimenti» (31).
Quindi aggiunge: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Il Papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare «una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Siamo avanzati poco in questo senso. Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente». Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale . Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (32).
Poi, con decisione, invita tutti ad «abbandonare il comodo criterio pastorale del ‘si è fatto sempre così’» e «ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (33). Innanzitutto, è necessario concentrarsi sull’essenziale dell’annuncio, evitando una pastorale «ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere» (35): «in questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (36). Invece, succede che si parli «più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di Dio» (38). Se l’annuncio, poi, diventa «un catalogo di peccati ed errori», «l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamente il Vangelo ciò che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni ideologiche. Il messaggio correrà il rischio di perdere la sua freschezza e di non avere più ‘il profumo del Vangelo’» (39).
«Inoltre, in seno alla Chiesa vi sono innumerevoli questioni intorno alle quali si ricerca e si riflette con grande libertà. Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo» (40).
Il Papa chiede «costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere» la permanente novità del Vangelo (41). Occorre anche riconoscere consuetudini della Chiesa «non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso della storia»: «non abbiamo paura di rivederle», afferma il Papa. «Allo stesso modo, ci sono norme o precetti ecclesiali che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita». «San Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio «sono pochissimi». Citando sant’Agostino, notava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posteriormente si devono esigere con moderazione «per non appesantire la vita ai fedeli» e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando «la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera». Questo avvertimento, fatto diversi secoli fa, ha una tremenda attualità. Dovrebbe essere uno dei criteri da considerare al momento di pensare una riforma della Chiesa e della sua predicazione che permetta realmente di giungere a tutti» (43).
Nello stesso tempo, osserva, «senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (44).
«La Chiesa – scrive il Papa – è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. Così che, se qualcuno vuole seguire un mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di una porta chiusa. Ma ci sono altre porte che neppure si devono chiudere. Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi. Questo vale soprattutto quando si tratta di quel sacramento che è ‘la porta’, il Battesimo. L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (47).
Quindi ribadisce quanto diceva a Buenos Aires: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37)» (49).
Parlando di alcune sfide del mondo attuale, denuncia l’attuale sistema economico: «Questa economia uccide» perché fa prevalere la «legge del più forte, dove il potente mangia il più debole». L’attuale cultura dello «scarto» ha creato «qualcosa di nuovo»: «gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’» (53). Viviamo «quasi senza accorgercene» una «globalizzazione dell’indifferenza» (54) dove c’è una «nuova idolatria del denaro», una «dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (55), «una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale» di un «mercato divinizzato» dove regnano «speculazione finanziaria», «corruzione ramificata», «evasione fiscale egoista» (56). Il Papa chiede «una riforma finanziaria che non ignori l’etica» (58). Si tratta di un sistema che genera immense disparità sociali e, di conseguenza, violenza, «perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice» (59).
Il documento affronta poi gli «attacchi alla libertà religiosa» e le «nuove situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di odio e di violenza. In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista» (61). In altri casi si assiste ad una «proliferazione di nuovi movimenti religiosi, alcuni tendenti al fondamentalismo ed altri che sembrano proporre una spiritualità senza Dio» (63). Inoltre, «il processo di secolarizzazione tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo» (64).
La famiglia, «cellula fondamentale della società» – prosegue il Papa – «attraversa una crisi culturale profonda». Ribadendo, quindi, «il contributo indispensabile del matrimonio alla società» (66), il Papa sottolinea che «l’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita … che snatura i vincoli familiari»(67).
Per quanto riguarda l’evangelizzazione nelle città, il Papa sottolinea la necessità «di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative» (73) senza dimenticare che «la città è un ambito multiculturale» e che «la Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile»; nella consapevolezza delle «sofferenze laceranti» presenti nelle zone urbane, dove «sono moltissimi i ‘non cittadini’, i ‘cittadini a metà’ o gli ‘avanzi urbani’» che «reclamano libertà, partecipazione, giustizia» (74).
Il testo affronta poi le «tentazioni degli operatori pastorali». Innanzitutto, il Papa, afferma, «come dovere di giustizia, che l’apporto della Chiesa nel mondo attuale è enorme. Il nostro dolore e la nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa, e per i propri, non devono far dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore», aiutando tantissime persone ((76). Ciononostante, «si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro» (78); in altri, invece, si nota «una sorta di complesso di inferiorità, che li conduce a relativizzare o ad occultare la loro identità cristiana e le loro convinzioni» (79), o «un’accidia paralizzante» (81). «La più grande minaccia» è «il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità» . Si sviluppa «la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come ‘il più prezioso degli elisir del demonio’», come scriveva Bernanos (83).
Il Papa invita con forza a non lasciarsi prendere da un «pessimismo sterile», cita i «profeti di sventura» stigmatizzati da Giovanni XXIII (84). Nei deserti della società sono molti i segni della «sete di Dio»: c’è dunque bisogno di persone di speranza, «persone-anfore per dare da bere agli altri» (86). «Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo», pretendendo «relazioni interpersonali solo mediate da apparecchi sofisticati, da schermi e sistemi che si possano accendere e spegnere a comando». Invece, «il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo». «Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza» (88). Occorre rifuggire dal «consumismo spirituale» e dal suo «morboso individualismo» (89) da quella «spiritualità del benessere» che rifiuta «impegni fraterni» (90): «Non lasciamoci rubare la comunità!» esclama il Papa (92).
«La mondanità spirituale, che si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa, consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana ed il benessere personale». «All’esterno tutto appare corretto» (93). Questa mondanità si esprime in due modi: «il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo» e «il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. E’ una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare» (94). In altri «si nota una cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia. In tal modo la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi». In altri ancora, la mondanità «si esplica in un funzionalismo manageriale, carico di statistiche, pianificazioni e valutazioni, dove il principale beneficiario non è il Popolo di Dio ma piuttosto la Chiesa come organizzazione» (95). In tutti questi casi si perde «il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele» (96). «E’ una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!» (97).
Altro appello del Papa: «No alla guerra tra di noi»: «all’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre!»: per «invidie e gelosie». «Alcuni smettono di vivere un’appartenenza cordiale alla Chiesa per alimentare uno spirito di contesa. Più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, appartengono a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale» (98). «Attenzione alla tentazione dell’invidia! Siamo sulla stessa barca e andiamo verso lo stesso porto! Chiediamo la grazia di rallegrarci dei frutti degli altri, che sono di tutti» (99). «Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?» (100).
Il Papa sottolinea quindi la necessità di far crescere «la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa». Talora, «un eccessivo clericalismo» mantiene i laici «al margine delle decisioni». Altre volte i laici si limitano «a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società» (102).
«La Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società», ma «c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa». Occorre garantire la presenza delle donne «nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali» (103). «Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne …non si possono superficialmente eludere. Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere». «Nella Chiesa le funzioni «non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri» . Di fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi» (104).
Il Papa rileva che i giovani devono avere «un maggiore protagonismo». «Che bello che i giovani siano ‘viandanti della fede’, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra!» (106). I giovani «ci aprono al futuro, in modo che non rimaniamo ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale» (108).
«In molti luoghi scarseggiano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Spesso questo è dovuto all’assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso». Nello stesso tempo, «non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione, tanto meno se queste sono legate ad insicurezza affettiva, a ricerca di forme di potere, gloria umana o benessere economico» (107).
Il Papa lo ribadisce: «non vi può essere autentica evangelizzazione senza una proclamazione esplicita che Gesù è il Signore». La «predicazione gioiosa, paziente e progressiva della morte salvifica e della resurrezione di Gesù Cristo, dev’essere la vostra priorità assoluta» (110). Questo: «vuol dire annunciare e portare la salvezza di Dio in questo nostro mondo, che spesso si perde, che ha bisogno di avere risposte che incoraggino, che diano speranza, che diano nuovo vigore nel cammino. La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (114).
Affrontando il tema dell’inculturazione, il Papa ricorda che «il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale» e che «la Chiesa esprime la sua autentica cattolicità» mostrando la bellezza di un «volto pluriforme». (116) L’unità «non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae. L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa. Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica». Ma «a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore» (117). Così «non possiamo pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti, nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia» (118).
Il Papa sottolinea che «tutti siamo discepoli missionari» (119). «La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù» (120). «Essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada» (127). »Al tempo stesso ci adoperiamo per una migliore formazione» perché «la missione è uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere» (121).
Il testo ribadisce «la forza evangelizzatrice della pietà popolare» (122): la pietà popolare «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere» e che «rende capaci di generosità e sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede» (123). «Non coartiamo né pretendiamo di controllare questa forza missionaria!» (124).
I carismi sono «al servizio della comunione evangelizzatrice»: «non sono un patrimonio chiuso, consegnato ad un gruppo perché lo custodisca». «Un chiaro segno dell’autenticità di un carisma è la sua ecclesialità, la sua capacità di integrarsi armonicamente nella vita del Popolo santo di Dio per il bene di tutti. Un’autentica novità suscitata dallo Spirito non ha bisogno di gettare ombre sopra altre spiritualità e doni per affermare se stessa» (130).
Il Papa incoraggia «il carisma dei teologi e il loro sforzo nell’investigazione teologica» ma li invita ad avere «a cuore la finalità evangelizzatrice della Chiesa e della stessa teologia» e a non accontentarsi «di una teologia da tavolino» (133).
A questo punto, il Papa si sofferma in modo ampio «e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie» (135). Innanzitutto, «chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dov’è vivo e ardente il desiderio di Dio» (137). «L’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione». «Deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione». «Ciò richiede che la parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro» (138). Il predicatore deve parlare «come una madre che parla a suo figlio». «Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di ‘cultura materna’, in chiave di dialetto materno (cfr 2 Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso» (139). Bisogna dire «parole che fanno ardere i cuori», rifuggendo da una «predicazione puramente moralista o indottrinante» (142). Il Papa sottolinea l’importanza della sintesi: «Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore. La differenza tra far luce sulla sintesi e far luce su idee slegate tra loro è la stessa che c’è tra la noia e l’ardore del cuore. Il predicatore ha la bellissima e difficile missione di unire i cuori che si amano: quello del Signore e quelli del suo popolo» (143). «La preparazione della predicazione è un compito così importante che conviene dedicarle un tempo prolungato di studio, preghiera, riflessione e creatività pastorale», rinunciando anche «ad altri impegni, pur importanti». «Un predicatore che non si prepara non è ‘spirituale’, è disonesto ed irresponsabile verso i doni che ha ricevuto» (145). «La cosa più importante è scoprire qual è il messaggio principale, quello che conferisce struttura e unità al testo» (147). «Chiunque voglia predicare, prima dev’essere disposto a lasciarsi commuovere dalla Parola e a farla diventare carne nella sua esistenza concreta. In questo modo, la predicazione consisterà in quell’attività tanto intensa e feconda che è «comunicare agli altri ciò che uno ha contemplato»». «Anche in questa epoca la gente preferisce ascoltare i testimoni: ‘ha sete di autenticità’» (150).
Parlando dei metodi, il Papa afferma che «uno degli sforzi più necessari è imparare ad usare immagini». «Una buona omelia, come mi diceva un vecchio maestro, deve contenere ‘un’idea, un sentimento, un’immagine’» (157). Diceva già Paolo VI che i fedeli «si attendono molto da questa predicazione, e ne ricavano frutto purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta» (158). «Altra caratteristica è il linguaggio positivo. Non dice tanto quello che non si deve fare ma piuttosto propone quello che possiamo fare meglio». «Una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività. Che buona cosa che sacerdoti, diaconi e laici si riuniscano periodicamente per trovare insieme gli strumenti che rendono più attraente la predicazione!» (159).
Affrontando il tema della catechesi, il Papa poi afferma: «nella catechesi ha un ruolo fondamentale il primo annuncio o ‘kerygma’, che deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale. Il kerygma è trinitario. E’ il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di lingue e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica l’infinita misericordia del Padre. Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: ‘Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti’» (164). Il Papa elenca «alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (165). Inoltre «è bene che ogni catechesi presti una speciale attenzione alla ‘via della bellezza’ (via pulchritudinis). Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove» (167). Il Papa indica l’arte dell’accompagnamento, «perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cfr Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (169). «Chi accompagna sa riconoscere che la situazione di ogni soggetto davanti a Dio e alla sua vita di grazia è un mistero che nessuno può conoscere pienamente dall’esterno». Il Papa invita così ad «essere pazienti e comprensivi con gli altri», capaci «di trovare modi di risvegliarne in loro la fiducia, l’apertura e la disposizione a crescere» (172).
Il Papa ricorda poi la dimensione sociale dell’evangelizzazione: «se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice» (176). «Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana» (178). In questo contesto, il Papa ribadisce il diritto dei Pastori «di emettere opinioni su ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo» (182). «Nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza nella vita sociale e nazionale». «Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra». E cita Giovanni Paolo II laddove dice che la Chiesa «non può né deve rimanere al margine della lotta per la giustizia» (183). «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società» (187). La Chiesa «ascolta il grido per la giustizia e desidera rispondervi con tutte le sue forze”, anche se oggi la parola “solidarietà” si «è un po’ logorata e a volte la si interpreta male» (188). «La solidarietà è una reazione spontanea di chi riconosce la funzione sociale della proprietà e la destinazione universale dei beni come realtà anteriori alla proprietà privata». In questo senso, «la solidarietà si deve vivere come la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde» (189). «A volte si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra, perché ‘la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli’. Deplorevolmente persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi. Rispettando l’interdipendenza e la cultura di ciascuna Nazione, bisogna ricordare sempre che il pianeta appartiene a tutta l’umanità» (190). Il papa denuncia la «cattiva distribuzione dei beni e del reddito. Il problema si aggrava con la pratica generalizzata dello spreco» (191). Quindi lancia un monito: «Non preoccupiamoci unicamente di cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza. Perché ‘ai difensori «dell’ortodossia» si rivolge a volte il rimprovero di passività, d’indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono’» (194). Oggi «tende a svilupparsi un nuovo paganesimo individualista». In questo contesto «c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (195). «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica». «Per questo chiedo una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci» (198). «Senza l’opzione preferenziale per i poveri ‘l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima delle carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui ogni giorno l’odierna società della comunicazione ci espone’» (199). Il Papa poi afferma che «la peggior discriminazione che soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (200). Quindi ribadisce: «nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale» (201). «Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri … non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. La carenza di equità è la radice dei mali sociali» (202). «Quante parole – afferma il Papa -sono diventate scomode per questo sistema! Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia» (203).
«La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune» – scrive il Papa – «Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri!». «Sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale» (205)
Poi un nuovo monito: «Qualsiasi comunità all’interno della Chiesa, nella misura in cui pretenda di sussistere tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa nella mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con vuoti discorsi» (207).
Il Papa invita ad avere cura dei più deboli: «i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, ecc. I migranti mi pongono una particolare sfida per il fatto di essere il Pastore di una Chiesa senza frontiere, che si sente madre di tutti. Per questo esorto i Paesi ad una generosa apertura, che, al posto di temere la distruzione dell’identità locale, sia capace di creare nuove sintesi culturali» (210). Il Papa parla «di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta delle persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti: ‘Dov’è tuo fratello?’ (Gen 4, 9). Dov’è il tuo fratello schiavo? Dov’è quello che stai uccidendo ogni giorno nella piccola fabbrica clandestina, nella rete della prostituzione, nei bambini che utilizzi per l’accattonaggio, in quello che deve lavorare di nascosto perché non è stato regolarizzato? Non facciamo finta di niente. Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti! Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta» (211). «Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza» (212).
«Tra questi deboli di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo. Frequentemente, per ridicolizzare allegramente la difesa che la Chiesa fa delle vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualsiasi situazione e in ogni fase del suo sviluppo. É un fine in se stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sottomessi alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana» (213). «Non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione. Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un argomento soggetto a presunte riforme o a ‘modernizzazioni’. Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero che abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie, particolarmente quando la vita che cresce in loro è sorta come conseguenza di una violenza o in un contesto di estrema povertà. Chi può non capire tali situazioni così dolorose?» (214)
«Ci sono altri esseri fragili e indifesi, che molte volte rimangono alla mercé degli interessi economici o di un uso indiscriminato. Mi riferisco all’insieme della creazione. Come esseri umani non siamo dei meri beneficiari ma custodi delle altre creature» (215). «Piccoli, però forti nell’amore di Dio, come San Francesco d’Assisi, tutti i cristiani siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo» (216).
Riguardo al tema della pace, il Papa afferma che è «necessaria una voce profetica» quando si vuole attuare una falsa riconciliazione che «metta a tacere» i poveri, mentre alcuni «non vogliono rinunciare ai loro privilegi» (218). Per la costruzione di una società «in pace, giustizia e fraternità» indica quattro principi (221): «il tempo è superiore allo spazio» (222) significa «lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati» (223). «L’unità prevale sul conflitto» (226) vuol dire operare perché gli opposti raggiungano «una pluriforme unità che genera nuova vita» (228). «La realtà è più importante dell’idea» (231) significa evitare che la politica e la fede siano ridotte alla retorica (232). «Il tutto è superiore alla parte» significa mettere insieme globalizzazione e localizzazione (234).
«L’evangelizzazione – prosegue il Papa – implica anche un cammino di dialogo» che apre la Chiesa a collaborare con tutte le realtà politiche, sociali, religiose e culturali (238). L’ecumenismo è «una via imprescindibile dell’evangelizzazione». Importante l’arricchimento reciproco: «quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri!», per esempio «nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità» (246); «il dialogo e l’amicizia con i figli d’Israele sono parte della vita dei discepoli di Gesù» (248); «il dialogo interreligioso», che va condotto «con un’identità chiara e gioiosa», è «una condizione necessaria per la pace nel mondo» e non oscura l’evangelizzazione (250-251); «in quest’epoca acquista notevole importanza la relazione con i credenti dell’Islam (252): il Papa implora «umilmente» affinché i Paesi di tradizione islamica assicurino la libertà religiosa ai cristiani, anche «tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali!». «Di fronte ad episodi di fondamentalismo violento» invita a «evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza» (253). E contro il tentativo di privatizzare le religioni in alcuni contesti, afferma che «il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi in modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose» (255). Ribadisce quindi l’importanza del dialogo e dell’alleanza tra credenti e non credenti (257).
L’ultimo capitolo è dedicato agli «evangelizzatori con Spirito», che sono quanti «si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo» che «infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente» (259). Si tratta di «evangelizzatori che pregano e lavorano» (262), nella consapevolezza che «la missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo» (268): «Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri» (270). «Nel nostro rapporto col mondo – precisa – siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano» (271). «Può essere missionario – aggiunge – solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri» (272): «se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita» (274). Il Papa invita a non scoraggiarsi di fronte ai fallimenti o agli scarsi risultati perché la «fecondità molte volte è invisibile, inafferrabile, non può essere contabilizzata»; dobbiamo sapere «soltanto che il dono di noi stessi è necessario» (279). L’Esortazione si conclude con una preghiera a Maria «Madre dell’Evangelizzazione». «Vi è uno stile mariano nell’attività evangelizzatrice della Chiesa. Perché ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto» (288).
testo integrale dell’esortazione in allegato (pdf)