Cultura & Società
Erasmus, studiare all’estero per dare un’anima all’Europa
Il programma Erasmus ha compiuto 25 anni. Nel giugno del 1987 venne lanciato il primo network tra università europee che consentiva agli studenti di passare un periodo di studio all’estero, riconosciuto nel loro curriculum. In quell’anno gli studenti coinvolti nello scambio furono 3244: oggi è prevista la mobilità di tre milioni di persone.
È fuor di dubbio che questo programma è stato un grande successo. Ha permesso agli universitari di studiare in altri paesi, di conoscerne le lingue, di confrontarsi con altri sistemi di vita, di mescolarsi con i loro coetanei. E bene fanno dunque gli organismi europei a festeggiare questa ricorrenza, anche con l’indicazione di 66 «Ambasciatori Erasmus» (fra questi, uno dei due nominati per l’Italia opera proprio in Toscana, all’Università di Pisa: è Ann Katherine Isaacs). Ma tale successo non è solo legato al fatto di favorire la possibilità di studiare all’estero. Il valore dell’Erasmus è soprattutto un altro: con quest’esperienza, infatti, si costruisce davvero l’Europa.
Non c’è bisogno di spendere tante parole per sottolineare la crisi che attraversa oggi il progetto di unione europea: una federazione che dovrebbe collegare fra loro i vari Stati che ne fanno parte, considerandoli in maniera paritetica e salvaguardandone le specificità. Ma nel tentativo di realizzare questo progetto sono state fatte scelte ben precise. Si è preferito puntare a una comunità di tipo economico. Si è ritenuto che l’unificazione monetaria sarebbe stata la via maestra che avrebbe consentito l’integrazione. Sono state abolite le tariffe doganali e sono stati promossi, fra gli Stati aderenti agli accordi di Schengen, la libertà di movimento dei cittadini e la libera circolazione delle merci. Si è allargato, forse un po’ frettolosamente, il numero dei membri. In una parola: si è costruita l’Europa economica, non quella culturale.
È questo, infatti, il punto. A prescindere dagli egoismi particolari dei vari paesi, da una crescente burocratizzazione delle strutture comunitarie, dai limiti della loro azione, la crisi che abbiamo di fronte deriva da un’idea di fondo davvero sbagliata. Si tratta dell’idea che vede d’accordo, peraltro, sia liberali che socialisti che l’unificazione europea è affare da economisti. Si faccia dunque la moneta unica: il legame fra mentalità diverse e la coscienza di un passato condiviso verranno di conseguenza. Anzi: l’aspetto culturale in qualche caso è stato volutamente trascurato. Il mancato riferimento alle radici cristiane nel Preambolo della Costituzione europea ne è una riprova evidente.
Non è nata dunque, volutamente o meno, una vera e propria «eurosofia»: un sapere, una consapevolezza comuni di ciò che vuol dire essere europei, e non solo Italiani, Tedeschi, Spagnoli. L’Europa, senza contrappesi culturali, si scopre preda dei tecnocrati. E la conseguenza è la crisi che stiamo vivendo. La quale è il riflesso di tante cose: dell’egoismo dei vari Stati, del fatto che non esiste un effettivo governo europea, neppure in ambito economico, dell’impotenza, sul piano locale, a governare meccanismi globali. Ma soprattutto è il segno che manca un’idea condivisa di appartenenza. Perché il riferimento a meri criteri economici, invece che unire, provoca solo divisioni.
Rispetto a tutto ciò l’esperienza dell’Erasmus acquista il significato di un cantiere aperto, nel quale una cultura comune viene costruita dal basso: attraverso gli incontri, lo scambio dei contenuti e la contaminazione delle forme di apprendimento. E soprattutto viene costruita dai giovani. Per realizzare un’unione culturale ci vorrà, certo, ancora tempo. Ma solo sul terreno dell’educazione, dell’educazione condivisa, potrà nascere la consapevolezza di una comune cittadinanza europea. E così, magari in un futuro non lontano, la forza delle idee elaborate anche grazie agli scambi dell’Erasmus potrà dare un’anima all’Europa, e renderla meno fragile.