Opinioni & Commenti
Eluana, la morte non è mai un diritto
di Angelo Passaleva
«E’ vero che la vita è fatta per la serenità e la gioia», come affermano i Vescovi italiani nel loro messaggio in occasione della trentunesima «Giornata per la Vita», ma è anche vero che la vita si accompagna spesso al dolore fisico ed alla sofferenza o al disagio psichici o morali. Il dolore fa parte della vita e, in molti casi, è provvidenziale. Il dolore, oggi controllabile con svariate cure mediche, è spesso il sintomo di allarme che segnala l’inizio di una malattia quasi sempre guaribile, se curata in tempo.
La questione è più complessa per la sofferenza psichica o morale. La malattia di una persona cara, specialmente se incurabile, o la sua morte; il timore per una prova o un impegno difficili; l’ansia per un nuovo evento da affrontare o per un pericolo che incombe; l’incertezza per l’oggi e per il futuro; un tracollo finanziario o la mancanza di mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia e così via sono esperienze dolorose e purtroppo frequenti nella vita, non curabili, ovviamente, con terapie mediche. Tuttavia anche questo tipo di sofferenza non è inutile. Se affrontata con fortezza, può essere occasione, dal punto di vista puramente umano, di rafforzamento del carattere, di maturazione interiore e di affinamento dei sentimenti. Può essere motivo di crescita spirituale se illuminata dalla fede e dalla speranza e sostenuta dalla preghiera.
È vero anche che la sofferenza può diventare talmente insopportabile da condurre alla disperazione fino a desiderare per sé o per le persone care la morte. Questo accade specialmente nella solitudine. Quando chi soffre trova conforto, condivisione e incoraggiamento da parte di persone vicine, la sofferenza si fa più sopportabile e torna ad avere spazio la speranza o, almeno, la rassegnazione. Per questo il mistero della sofferenza umana non è soltanto un problema individuale, ma è della comunità. Una società coesa e fondata sulla solidarietà può e deve essere capace di trovare le risposte più coerenti verso la prima e fondamentale aspettativa di ogni persona: la voglia di vivere. La morte non può essere un rimedio né, tanto meno, un diritto individuale, è «semplicemente» un destino ineluttabile.
Si deve dare atto che alcune volte la fine dell’esistenza è desiderata, o voluta fermamente, come conseguenza della disperazione per sofferenze insopportabili, vissute nella solitudine, ma la risposta più giusta non è dare o favorire la morte. Quante volte, come medico, mi è capitato di assistere persone che mi dicevano: «mi lasci morire perché non ne posso più», ma quante volte le stesse persone, appena superato il momento difficile, mi hanno detto: «grazie per avermi aiutato a vivere». Perché «la forza della vita è più forte della sofferenza».
Tuttavia assistiamo da molti mesi ad una campagna mediatica martellante e organizzata che tende a far passare nell’opinione pubblica il concetto che la morte è un diritto della persona, alla stessa pari del diritto alla vita. Basta pensare ai casi Welby e, attualmente, alla vicenda Englaro. Non passa giorno che non si parli di Eluana con ogni pretesto. È sufficiente un’affermazione di qualche personaggio o una sentenza o dichiarazione di qualche autorità giudiziaria per trovare sui quotidiani titoli a tutta pagina e articoli che ripropongono ogni volta e da capo tutto il percorso, certamente molto doloroso, di una figlia gravemente disabile e di un padre che ne invoca la morte; percorso che dovrebbe richiedere prima di tutto rispetto, solidarietà, comprensione, silenzio e non essere usato come strumento per manipolare la pubblica opinione. I tanti casi analoghi, dei quali numerose famiglie o istituzioni si fanno carico con fortezza, sofferenza e speranza, anche quando questa è molto flebile, senza chiedere il «rimedio» della morte, non trovano altrettanto spazio e non sono segnalati con uguale insistenza. Perché?
Le opinioni divergenti e la stessa voce del Magistero della Chiesa vengono spesso ridicolizzate, anche con espressioni volgari, e presentate come atteggiamenti oscurantisti e «talebani». Viva la libertà di pensiero!
Eluana non è attaccata ad una macchina, riceve semplicemente nutrimento e acqua attraverso un sondino naso-gastrico, che non è un’attrezzatura né complessa né costosa: pochi euro. Non è accanimento terapeutico: dare da mangiare e da bere non è una terapia!
La scienza non è in grado di dire nulla sullo stato di coscienza di persone, come lei, in «stato vegetativo persistente». Non ci sono reazioni al dolore o agli stimoli, semplicemente perché sono impossibili i movimenti, compresi quelli che segnalano all’esterno le sensazioni piacevoli o dolorose e le emozioni. Qualcuno ha detto che morire di fame e di sete non causerebbe disagi ad Eluana. E se invece lei avvertisse tutta la terribile tortura della disidratazione e dell’inedia senza poterla manifestare e senza potersi difendere? E se sentisse cosa si decide per lei senza poter reagire? Una norma indiscussa del diritto è che nel dubbio si deve sempre essere dalla parte dell’«indiziato». Qual è la sua volontà? Chi non ha detto almeno una volta nella sua vita, di fronte a situazioni di grave non autosufficienza o di malattie progressive e fortemente invalidanti: «io preferirei morire»? È questa un’espressione reale e irreversibile di volontà?
Finchè c’è vita c’è speranza afferma un detto popolare, con la morte tutto finisce, «anche la speme», come dice Ugo Foscolo. La vita, dunque, è oggettivamente un bene superiore alla morte, e quindi esige il massimo di tutela, dal concepimento fino alla morte naturale. Chi sostiene che la decisione di morire come e quando si vuole rientra fra i diritti fondamentali della persona (andrà inserito nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?) si è mai chiesto se potrebbe trattarsi di istigazione al suicidio?. Se dopo questa campagna mediatica si dovesse constatare un aumento dei suicidi potremmo rimanere tranquilli?
Le «Giornate per la vita» sono un richiamo a dare un senso positivo all’esistenza, anche quando questa è marcata dalla sofferenza, perché esortano alla solidarietà. Alle mamme o alle famiglie in difficoltà per una gravidanza indesiderata si può e si deve dare tutto l’aiuto materiale, sociale e psicologico perché possano accogliere una nuova vita, evitando di aggiungere altro dolore con la scelta dell’ aborto. Per ogni sofferenza, da quelle ritenute insopportabili perché irreversibili a quelle legate a stati cronici di non autosufficienza, da quelle generate da malattie psichiatriche, ai vari tipi di disabilità i Vescovi italiani invitano i singoli cittadini e le autorità responsabili a dare risposte positive senza cedere alla tentazione di invocare o proporre per legge «forme più o meno esplicite di eutanasia».
LA SCHEDA: IL CASO ENGLARO