Europa

Elezioni europee, solo votando si rafforza la politica

Il moschettone è un «robusto anello d’acciaio, fornito di chiusura di sicurezza, usato dagli alpinisti nelle arrampicate, fissandolo ai chiodi da roccia e facendovi passare la corda». Quindi avere un moschettone permette di agganciarsi saldamente a una corda e procedere nella scalata. La scalata della vita, da giovani ardua e rischiosa perché si ha davanti tanto da salire e ancora poche certezze, ha bisogno di moschettoni da agganciare a corde e chiodi sicuri.

Che la nostra vita attraversi un tempo arduo e rischioso non v’è dubbio: 59 guerre disseminate nel pianeta, arsenali riempiti e granai svuotati, connessioni in aumento e solitudini dilaganti, povertà crescenti, crisi delle istituzioni di rappresentanza. Nel mezzo di tutto questo, e molto altro ancora, andiamo a «votare per l’Europa». Per chi?! Perché?! Domande ficcanti per tutti, ma soprattutto per un giovane che potrebbe avvertire tutto ciò come una fastidiosa distrazione da cui difendersi, voltandosi dall’altra parte.

Il disorientamento e la paura portano a chiusure difensive, all’isolamento che promette salvezza illusoria. Il mondo esterno e il mondo interiore perdono il legame e non corrispondono più. La folla anonima sembra non più orientata ai riti collettivi che si svuotano di significato. E il rito del voto è uno di questi. Quel gesto di libertà e responsabilità, conquistato col sangue e adesso banalizzato, quella possibilità, offerta a portata di matita e agognata ancora nella maggior parte del mondo, è snobbata negli oceani dell’insignificanza. «Tanto non serve a niente» mi diceva un ragazzo che potrebbe votare il prossimo giugno, alle elezioni europee, riassumendo in cinque parole quel mucchio di frasi banali e ciniche pensate o gridate da chi non ne vuole sapere di votare. I giovani sono la maggior parte di quella metà degli aventi diritto che è orientata a non esercitarlo.

Eppure quel voto, quella scheda elettorale e quella matita possono essere paradossalmente il moschettone per l’impervia salita.

A Palazzo Vecchio, qualche giorno fa (Toscana Oggi ne ha dato ampio resoconto), cinque giovani – un israeliano, un palestinese, una ucraina, una russa e un maliano – hanno dato la vibrante testimonianza che un’amicizia è possibile, sempre, nonostante la guerra che li vorrebbe nemici, nonostante tutto. Magari potessero votare, alcuni di loro! Liberamente come possiamo noi. Magari! Non lo possono fare e, anche dove lo possono, il fallimento della politica ha consegnato loro la guerra. Ma la politica cattiva si cura solo con la politica buona. E questa inizia inesorabilmente dal voto. Chi ha ascoltato quei giovani a Palazzo Vecchio ha colto il loro intimo e profondo specchiarsi degli sguardi e ha avuto il privilegio di intuire quei legami unici in persone che avrebbero tutte le ragioni per odiarsi l’un l’altro. Governi, nazioni e popoli sono andati sullo sfondo, mentre in primo piano hanno preso forza i volti, le storie di relazioni, cioè di legami ritenuti impossibili perché intessuti di conflitti. «Dopo uno smarrimento intenso, ascoltando di nuovo il dolore dell’altro, del mio nemico, ho ritrovato me stesso, il mio fondamento etico». Un moschettone agganciato a un «altro» improbabile.

L’altro attrae e entra dentro se glielo permettiamo. L’altro, totalmente differente da me eppure sostanzialmente come me. L’altro, in questa duplicità intrecciata che aggancia, è dove fissare il moschettone. Senza l’altro è impossibile scalare la vita. Il semplice, prolungato, infinito, applauso nel Salone dei 500 è stato un abbraccio che diceva: «Voglio essere con te, con voi, non siete soli».

Una società, votando, si unisce e converge anche se si differenzia e compete.

Se «politica» è ritenuta un fenomeno evanescente, insignificante, l’altro concreto col suo volto può essere la via per un aggancio possibile. Ecco, allora, che penso ai giovanissimi consiglieri comunali, ai giovani assessori, ai giovani militanti di partito che hanno avuto il coraggio di prendere una tessera.

Caro giovane amico che sei chiamato a votare per la prima volta o che, avendo già votato, ti sembra che «non sia cambiato nulla»: vota quel volto che ha avuto il coraggio di impegnarsi, vota quella persona che stimi, incoraggiala col tuo gesto, abbracciala in continuità con l’abbraccio di Palazzo Vecchio.

Una giovane studentessa, sulla soglia di un pesante intervento chirurgico che le cambierà molto la vita mi diceva qualche ora fa: «Dottore non mi abbandoni!». Ecco un bisogno insopprimibile di ogni tempo, ma soprattutto di questo così turbolento e per tanti disperato. Esserci, sempre, nonostante tutto, apre ogni possibilità.

È il brivido della soglia della responsabilità.

Votare, infatti, è credere contemporaneamente nel valore della propria vita e della politica, è agganciare il moschettone e proseguire la scalata, perché solo votando si rafforza la politica.

Non c’è altro gesto tanto piccolo che immetta in un’azione tanto vasta. Se la politica si indebolisce o fallisce vincono il degrado e la guerra. Pensare così – direbbe forse Edgar Morin – è avere una «testa ben fatta».

Stare attaccati a quei giovani di Palazzo Vecchio che restano uniti nella relazione che hanno costruito, nonostante tutto: ecco cos’è il voto alle prossime elezioni, restare attaccati a un sogno, a un progetto, a una possibilità, nonostante tutto.

Sempre, nella storia, chi ha agito così, prima o poi, ha vinto.