Vita Chiesa
Ecumenismo, Ablondi risponde al pastore Langeneck
La lettera, cui il quotidiano livornese «Il Tirreno» ha dato spazio nelle pagine locali, ha suscitato un ampio dibattito: sul tema sono intervenuti esponenti del Sae (Segretariato per le attività ecumeniche), dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo, della scuola diocesana di teologia, del Cedomei. Tra le altre risposte, particolarmente significativa è quella del vescovo emerito di Livorno Alberto Ablondi, che riportiamo integralmente in questa pagina. Una lettera che il pastore Langeneck ha accolto con gioia come segno, pur nella differenza di posizioni, di affetto e stima. «Non ho nessuna intenzione – ha affermato Langeneck – di ritirarmi dal dialogo ecumenico: la mia lettera voleva essere una provocazione, un contributo alla ricerca della verità ecumenica, e sono soddisfatto delle reazioni che ha provocato e che sta provocando». Questo dibattito potrebbe presto dare origine anche a un momento pubblico di confronto, mentre gli interventi più significativi potrebbero essere raccolti in un volumetto.
Caro pastore, dialoghiamo nella verità e nella carità
La preoccupazione di rispettare il contesto eviterà che un documento si fossilizzi nel passato perdendo la sua attualità. Scusi caro pastore, questo potrebbe essere l’atteggiamento a cui ci costringe l’attuale visuale del Papa Benedetto XVI, se si tiene conto di episodi che appartengono al suo passato pastorale.
Sempre con l’attenzione al delicato contesto debbo riconoscere nella sua lettera il merito di provocare la vitalità dell’ecumenismo che già dalle sue origini, due secoli or sono, attribuiva al movimento ecumenico la possibilità e la capacità di evangelizzazione in tutte le chiese.
Sono così convinto del rapporto fra unità e verità che anche a questa lettera voglio dare una veste semplice e didattica, proprio per non lasciare in ombra il contesto popolare dei nostri fedeli; con la triste conseguenza di fare dell’ecumenismo un dialogo di elite che non raggiunge l’attenzione popolare.
Anzitutto lei pastore si domanda: «chi ha dato al capo della Chiesa Cattolica Romana il potere di giudicare le altre chiese?» Davanti a questa provocazione sento il dovere di riflettere sul modo con cui un cattolico si rapporta con la verità.
Un uomo, ma mi sentirei di dire un cristiano, deve sempre assumersi la responsabilità di un cammino nella verità e verso la verità. Il primo passo consiste nel «cercare», perché la verità qualunque essa sia presenta sempre nuove dimensioni. Non solo la verità cercata dovrà essere «accolta», nella condivisione con la comunità, ma questa accoglienza deve sempre essere soggetta ad una «verifica» che la riveli non in contrasto o contraddizione con i valori che la mia comunità professa.
A questo punto i responsabili della comunità ma anche ogni singolo membro dovranno proclamare la verità proposta e acquisita affermando la validità di alcuni valori e la conseguente esclusione di affermazioni in contrasto. Non è dunque la mia autorità, come lei dice, «a decidere quali debbano essere gli attributi della chiesa».
Non si tratta dunque di un potere decisionale ma di un atto di proclamazione della fede che affermando alcuni valori esclude quelli ad essi contrari. Così quando i valdesi rifiutano il valore del sacramento dell’Ordine non compiono un atto di ingerenza nella mia chiesa ma piuttosto esprimono un’affermazione cui hanno diritto anche se questo viene a toccare una importante verità cattolica. Si potrebbe dunque dire la stessa cosa delle affermazioni cattoliche sulla pienezza o meno di essere chiesa. È evidente infatti che come cattolico non posso affermare in assoluto la completezza di una chiesa che io non accetto proprio perché carente di aspetti che ritengo fondamentali.
Dirò allora che non è la Chiesa Cattolica Romana a disistimare le altre confessioni. Infatti proprio per evitare confusione introdurrà nel suo linguaggio ecclesiale dal suo punto di vista, la distinzione tra «Chiesa» e «Ecclesialità». Lo scopo è di far capire che la chiesa non può ritenere certe affermazioni o esclusioni solo accentuazioni teologiche incompatibili coi valori fondamentali. Non mi pare proprio, come lei afferma, che la Chiesa Cattolica Romana con questo atteggiamento porti in se rigurgiti di altri tempi, che lei pesantemente definisce «integralismo settario e antiecumenico». Direi piuttosto che si tratta di quella ricerca di verità che non permette la sottovalutazione o equivoco.
Cammino faticoso questo perché chi vuol dialogare deve avere sempre il coraggio di continuare nonostante gli insuccessi. Inoltre non deve mancare la consapevolezza che nel dialogo le due parti devono essere disposte a cambiare qualcosa. Ma la carità ecclesiale deve farsi consapevole che l’incontro nel dialogo diventerà più facile quando le due parti guarderanno non solo al futuro, ma si sentiranno sospinte e sostenute da un passato che è già comune a tutte le chiese nella loro partecipazione, anche se incompleta, alla vitalità della Chiesa Universale.
Mi piace pensare che queste proposte di dialogo sono sostenute e illuminate dalla lettera di Giovanni in cui si dice: «Misericordia e pace siano con noi da parte di Dio Padre, da parte di Gesù Cristo figlio di Dio nella verità e nell’amore» (Giov. 2. 1).
Questa coniugazione di «verità» e «carità» è un appello che attraverso i secoli, raggiunge l’insegnamento di Giovanni Paolo II che nell’enciclica Ut unum sint afferma: «Il dialogo ecumenico stimola le parti in esso coinvolte ad interrogarsi e capirsi, a spiegarsi reciprocamente e permette così inattese scoperte».
Illuminati da questa vocazione di unità e carità i cristiani dovrebbero farsi consapevoli che l’ecumenismo chiede anzitutto di amare il fratello di altra confessione. E qui, caro pastore, mi permetta di tradurre questa raccomandazione in un piccolo sfogo personale: tra noi c’è rapporto di stima e di affetto, ma dopo tanti anni non possiamo ancora dirci «amici». Non saremo anche noi condizionati da un passato per un futuro che vorremmo diverso?
Purtroppo circostanze diverse possono dar maggiore risalto ai peccati e alle povertà dell’altro. Invece di aggiungere un arricchimento vicendevole attraverso i nostri limiti. Ma un’altra convinzione non possiamo dimenticare, perché dovrebbe essere la base delle nostre prospettive di dialogo, quando fossimo convinti che «chiese» e «comunità», appartengono alla «Chiesa Cattolica». Un legame che supera ogni divisione, tanto fecondo se ogni chiesa sentisse come propri ricchezza e povertà, problemi e difficoltà dell’altra.
Questo passaggio dalla indifferenza alla insufficienza mi fa scoprire ancora una volta che ognuno di noi è povero della assenza dell’altro.
Sono questi gli autentici sintomi di un Medioevo che tutti dobbiamo superare, nella speranza laboriosa di un Dio che sa sempre ricominciare.