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Ecuador, uccisi tre giornalisti rapiti dai dissidenti delle Farc. I gesuiti: «Il territorio è in mano alle rotte del narcotraffico»
Si tratta di Javier Ortega (32 anni, inviato di El Comercio), Paúl Rivas (45 anni, fotografo) e Efraín Segarras (60 anni, autista). La frontiera tra i due Paesi è uno dei punti strategici del traffico di cocaina e proprio su quanto sta accadendo in quella zona avevano puntato l'attenzione i giornalisti. Non è un gesto isolato. Dall'inizio dell'anno è stata un'escalation di fatti violenti, attribuiti a gruppi dissidenti delle Farc, l'ex guerriglia colombiana ufficialmente smobilitata dopo gli accordi di pace di fine 2016.
Un intero Paese sotto choc: così si presenta l’Ecuador a meno di tre giorni dall’accertamento della morte dei tre giornalisti di cui non si avevano notizie dallo scorso 26 marzo, cioè dal giorno del loro rapimento avvenuto nella regione di Esmeraldas, ai confini con la Colombia. Si tratta di Javier Ortega (32 anni, inviato di El Comercio), Paúl Rivas (45 anni, fotografo) e Efraín Segarras (60 anni, autista). La frontiera tra i due Paesi è uno dei punti strategici del traffico di cocaina e proprio su quanto sta accadendo in quella zona avevano puntato l’attenzione i giornalisti. Non è un gesto isolato. Dall’inizio dell’anno è stata un’escalation di fatti violenti, attribuiti a gruppi dissidenti delle Farc, l’ex guerriglia colombiana ufficialmente smobilitata dopo gli accordi di pace di fine 2016. Invece il cancro si sta espandendo oltreconfine, alimentato da grossi interessi economici. Almeno quattro gli attentati di una certa rilevanza. Il 21 marzo a Mataje, in seguito a un’esplosione erano rimasti uccisi tre soldati e sette erano rimasti feriti.
Il cordoglio del Papa e dell’Episcopato. «E’ un momento di dolore e profonda preoccupazione». Così i vescovi dell’Ecuador, nella conferenza stampa che venerdì ha concluso la loro assemblea plenaria, si sono riferiti, praticamente «in diretta» alla tragica notizia. E ieri è stato Papa Francesco a far sentire la sua voce, dopo il Regina Coeli: «Con dolore ho ricevuto la notizia dell’uccisione dei tre uomini rapiti dalla fine di marzo al confine tra Ecuador e Colombia. Prego per loro e per i loro familiari, e sono vicino al caro popolo ecuadoriano, incoraggiandolo ad andare avanti unito e pacifico, con l’aiuto del Signore e della sua Santissima Madre». Un appello a cui invita a unirsi mons. Luis Cabrera Herrera, arcivescovo di Guayaquil e vicepresidente della Conferenza episcopale ecuadoriana: «Gesù – scrive in una nota – ci offre la sua pace, però non come risultato dell’imposizione delle armi né della compravendita della coscienza, della libertà o della dignità. La sua pace sgorga dal sentirci amati e perdonati da lui».
I vescovi rivolgono un appello «ai governi dell’Ecuador e della Colombia, per creare o consolidare condizioni di vita più degne, fraterne e giuste, soprattutto nella zona di confine, sviluppando opportunità di lavoro e politiche di benessere sociale, e rafforzando al tempo stesso i sistemi di sicurezza».
Situazione nuova, che arriva da lontano. Un messaggio che trova conferma nelle affermazioni di chi opera quotidianamente alla frontiera. Come Fernando López, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati (Sjr), che spiega al Sir: «Si tratta di una situazione dolorosa e nuova per l’Ecuador, violenta e assurda. Io sono colombiano, ma vivo da molto tempo in Ecuador. In quanto sto accadendo vedo continuità con la situazione colombiana degli ultimi decenni, ma certe cose qui accadono per la prima volta». Ciò nonostante il direttore del Sjr spiega che la situazione, anche se inedita, viene da lontano: «La frontiera tra i due Paesi è molto permeabile, negli anni della guerra colombiana 250mila persone si sono rifugiate qui. E già da tempo sono entrate anche persone legate alla guerriglia». Dall’altra parte, «è il risultato di un abbandono grande di questo angolo di Paese, al quale stiamo assistendo. Così il territorio è in mano alle rotte del narcotraffico, del commercio di armi, della tratta. Oltre il confine, in Colombia, lo Stato è praticamente assente. E qui in Ecuador il nuovo Governo non ha dato continuità a qualche progetto che era stato intrapreso». Insomma, «quella militare non può essere l’unica risposta, lo Stato deve essere presente in maniera integrale».
Prospera ogni tipo di violenza. Una prospettiva confermata da suor Maria Lélis da Silva, che dirige la Missione scalabriniana in Ecuador: «La frontiera è diventata molto pericolosa. I gruppi guerriglieri dissidenti della Colombia hanno iniziato a riorganizzarsi e si sono ramificati. Una situazione che porta con sé ogni tipo di violenza: esecuzioni sommarie, tratta, estorsioni… alcune zone vicino alla località di Mataje sono state minate». Tutto questo mentre aumentano ogni giorno i migranti che attraversano la frontiera: «Si tratta di 4mila persone al giorno, in gran parte venezuelane e destinate ad aumentare. Alcuni cercano di raggiungere il Perù, ma molti rimangono qui e alimentano malaffare, tratta, prostituzione». Una mancanza di diritti «favorita dalla recente legge sulla mobilità umana. In tredici organizzazioni abbiamo contestato la costituzionalità di un provvedimento che non permette assistenza medica e i diritti basilari a queste persone».
Suor Maria ha saputo delle parole dette dal Papa al Regina Coeli: «Ci ha informato il nunzio apostolico». E conclude: «Segnali di quanto stava per succedere non erano mancati. La cosa più importante è sempre lavorare sulla prevenzione».
Nel sudovest della Colombia la pace non è mai arrivata. Una voce, molto preoccupata, arriva anche dalla vicina Colombia. E’ quella di mons. Orlando Olave Villanoba, vescovo di Tumaco, città del dipartimento di Nariño quasi ai confini con l’Ecuador, dove nei mesi scorsi sono stati uccisi diversi leader sociali: «La firma dell’accordo di pace è stata molto importante per la Colombia, ma a Tumaco la pace non è mai arrivata – dice quasi sulla scaletta dell’aereo che lo sta per riportare in Sudamerica dopo un pellegrinaggio in Terrasanta e a Santiago de Compostela -. In questi giorni ho seguito solo indirettamente la vicenda dei tre giornalisti. Ma in generale posso dire che i gruppi dissidenti delle Farc controllano la produzione e il traffico della cocaina. In particolare sono tre gruppi a contendersi il mercato della droga. L’Ecuador è appena al di là del fiume, in pratica la frontiera non esiste. Come Chiesa cerchiamo di impegnarci al massimo», in una zona «lontana dalle città, dove mancano scuole, ospedali, possibilità di sviluppo».