Toscana

Ebrei e cattolici, il pericolo della distrazione

Il 28 settembre 1989 il Consiglio permanente della Cei, accogliendo una proposta del Segretariato per l’ecumenismo e il dialogo, ha istituito la «Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei» da tenersi ogni anno il 17 gennaio, alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Giunta alla XIV edizione, la Giornata ha quest’anno per tema «Mosè parlava con Dio e tutto il popolo ne fu testimone».

L’istituzione della «Giornata», è «segno di una Chiesa che sa essere inviata in una storia che essa riconosce come storia di salvezza dell’unico Dio. Per questo – nulla togliendo alla propria coscienza di verità – dialoga e lavora con tutti gli uomini senza considerare barriere invalicabili le diversità di culture, radici storiche, fedi religiose», secondo la definizione della ricorrenza data nel 1992 dal vescovo di Assisi e presidente del Segretariato Cei per l’ecumenismo e il dialogo, monsignor Sergio Goretti, nella «Nota in occasione della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei». «Un’occasione preziosa – sono ancora parole di monsignor Goretti – per educare i cattolici al dialogo rispettoso e sereno» con i propri «fratelli maggiori». Un dialogo che trova la propria ragion d’essere nello speciale rapporto «che la Chiesa ha con gli ebrei», popolo cui appartengono Cristo e sua madre. Anche una decisa condanna per l’olocausto e per l’antisemitismo tuttora diffuso «contrario al Vangelo e alla legge naturale» trovano spazio nella nota di mons. Goretti, che invita all’incontro con «i fratelli ebrei, passo importante verso una più piena comunione con tutti gli uomini».

Secondo stime dell’Unione italiana delle comunità ebraiche (Ucei), sono oltre 40mila gli ebrei presenti sul territorio italiano, di cui circa 30mila iscritti alle ventuno comunità concentrate principalmente nel Centro-Nord. Oltre ai due rami maggiori, i sefarditi (discendenti dagli ebrei spagnoli e diffusi soprattutto nell’Europa occidentale) e gli askenaziti (residenti in gran parte nell’Europa dell’Est), è presente nel nostro Paese, l’unico al mondo nel quale gli ebrei vivono ininterrottamente da oltre duemila anni, una particolare tradizione, detta “rito italiano”.G.P.T. di Maria Chiara BiagioniMosè parlava con Dio «e tutto il popolo ne fu testimone…». Questo, tratto dall’Esodo, è il tema della «Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei». Ne parliamo con Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, in partenza per Israele dove resterà fino al 19 gennaio per portare la solidarietà degli ebrei italiani a parenti e amici «perché – dice – non è giusto che si sentano soli e abbandonati in un’impresa che ci coinvolge tutti». A Luzzatto abbiamo chiesto di spiegarci il tema della Giornata di quest’anno, ma anche di tracciare un bilancio del dialogo ebraico-cristiano ed una prospettiva di lavoro comune per il futuro.

Chi è Mosè?

«Mosè rappresenta una figura contraddittoria che da un lato ha delle qualità eccezionali e dall’altro forti debolezze umane. Partiamo dalle qualità. Non è dato a tutti colloquiare con Dio. Chi lo fa rivela una maturità eccezionale e una grande elevazione. Addirittura di Mosè è detto che parlava con Dio “faccia a faccia”. Una metafora che indica una comunicazione profonda e intima. C’è anche da dire che Mosè si avvicina a Dio la prima volta quando vede il roveto ardente, quando cioè scorge qualcosa che sfugge alla sua ragione e proprio per questo lo attira. Vuol dire allora che c’è una chiamata di Dio e una controparte umana che recepisce e accoglie».

Dov’è la contraddizione di Mosè?

«Mosè non si sente adeguato alla chiamata e dice a Dio di mandare qualcun altro. Compie cosi un atto profondamente debole perché ha la sfacciataggine e non la modestia di mettere in dubbio la scelta divina. La grandezza di Mosè sta nel fatto di superare il dubbio e accogliere la chiamata. Andrà infatti dal faraone, e non ci andrà da solo perché sa di avere bisogno del fratello. Però ci va e supera il dubbio. Mosè è quindi un uomo eccezionalmente maturo ed elevato ma resta pur sempre un uomo».

Cosa ha da dire oggi questa figura?

«Ci dice di andare a cercare questo dialogo con Dio, pur sapendo di essere inadeguati».

Ma l’uomo di oggi lo cerca questo dialogo o è troppo distratto per avvertirne l’esigenza?

«Non sarei così pessimista. Credo piuttosto che l’uomo di oggi senta profondamente il bisogno di instaurare con Dio un dialogo profondo e intimo. E lo avverte molto di più di quanto lo avvertiva 40 anni fa. Il quesito è se oltre al bisogno trova la strada giusta».

Dove si sbaglia?

«Il problema è che si cerca a tentoni e ci si perde in un mondo che è pieno di sollecitazioni ed interessi collaterali. C’è troppa distrazione. Ecco allora che la comunità dei credenti dovrebbe riprendere in mano la Bibbia e leggerla molto attentamente, perché la Bibbia può ancora parlare all’uomo di oggi».

La Giornata è sempre un momento di bilancio per il dialogo. Qual è il suo?

«Il bilancio lentamente sta guadagnando terreno. Il problema è che lo sta guadagnando lentamente, troppo lentamente. Credo che il dialogo dovrebbe procedere più velocemente e meglio. Quello che crea molte volte delle difficoltà è l’introduzione di polemiche politiche al suo interno. Occorre poi considerare che il dialogo ebraico-cristiano è tra due grandi movimenti religiosi strettamente connessi tra loro. Dovrebbe quindi andare un po’ più spedito. Qualche volta invece si arena nel contingente, e lì ci si ferma mentre avremmo tante cose da dire insieme».

Si dice che in questo periodo la comunità ebraica italiana si sia chiusa in se stessa, quasi avesse bisogno di ritrovare la propria identità. È vero?

«È un po’ quello che sta accadendo anche alla comunità cristiana. È un momento difficile per tutti. I dubbi, soprattutto di fronte agli eventi dell’oggi, sono enormi. C’è la paura che ogni decisione sbagliata possa comportare grandi sofferenze per la specie umana. I motivi per questi timori e titubanze ci sono e non è pensabile dire che si dovrebbero superare come se non ci fossero. Si tratta di vedere qual è la strada per venirne fuori».

Cosa suggerisce?

«Il coraggio. Io di solito indico come portatore di coraggio, il vecchio Giobbe che ha la forza di vivere con dubbi atroci e di affrontarli, arrivando al limite dell’eresia. Giobbe recupera da solo con le proprie forze la sua fede perché ha il coraggio di metterla in discussione. Credo che è forse quello di cui abbiamo bisogno oggi».

Cosa si auspica?

«Mi auspico che tutte le persone, le genti, le comunità recuperino la capacità di parlarsi che molte volte mi sembra scomparsa. Troppo spesso la parole vengono soffocate dalla violenza. E’ triste e disperante. Non è pensabile che siamo capaci di dialogare solo con i pugni e con i calci. Sì, mi auguro che si riscopra la capacità di adoperare la parola».