In quel momento mi trovavo nello studio di don Otello Branchi, sentimmo bussare alla porta, io mi affacciai e lo feci entrare. Ci disse il suo nome e che abitava da pochi giorni a Rigutino dove la sua famiglia si era trasferita da Trapani. Ci disse pure che sua madre era di Castiglion Fiorentino e il padre siciliano. Ricordo in particolare il suo sorriso. Con molta disinvoltura ci disse che desiderava diventare sacerdote. Aveva maturato questa sua vocazione frequentando i Rosminiani di Trapani e che gli sarebbe piaciuto conoscere i seminaristi di Arezzo per continuare a camminare su questa strada che il Signore gli stava indicando. Una nuova vocazione! Fu per me e per don Otello, che condivise con me questo primo approccio, motivo di una gioia immensa. Avevamo appena riaperto il Seminario e i seminaristi erano solo 6, figuratevi la sorpresa! Lo accompagnai nel mio studio ed ebbi con lui una lunga conversazione. Fra le tante cose mi confidò che sarebbe voluto entrare presso i Rosminiani. La cosa non mi fece molto piacere, ma mi sentii molto libero: era pur sempre una vocazione sacerdotale, e lo invitai a frequentarci. Eravamo a febbraio del 1997. Negli ultimi giorni della novena della Madonna del Conforto, lo invitai alla Messa della novena e al pranzo della festa. Era appena diciottenne e frequentava la scuola per diventare geometra. In quei giorni, con l’allora Vescovo padre Flavio Roberto Carraro, stavamo organizzando per i seminaristi un pellegrinaggio in Terra Santa e, su consiglio del Vescovo, lo invitai a prendervi parte. Lui ne parlò con i suoi e decise di venire. Racconto questo particolare, perchè fu proprio in Terra Santa, appena usciti dal Cenacolo, che mi si avvicinò e mi disse: «Ho deciso, se mi prendi, dopo le vacanze di Pasqua, entro in Seminario da voi». In quei giorni avevo pregato molto per lui e molto di più forse aveva pregato il Vescovo, ma nulla avevo fatto per convincerlo ad entrare così in fretta e tanto meno da noi. Tanta fu la mia sorpresa che subito corsi ad avvertire padre Flavio. Il momento comunque più commovente fu quando, proprio l’ultimo giorno del pellegrinaggio, ad Emmaus, durante la Messa, dopo la comunione, mi venne accanto e mi chiese: «Posso cantare una mia canzone?». Prese la chitarra e cominciò a cantare. Quella sua canzone mi è rimasta nel cuore. Essa aveva come contenuto il pane e il vino dell Eucaristia. Ancora giovanissimo, ancora ignaro di ciò che è la vita del prete, Danilo aveva con parole semplici e con tanta freschezza centrato l’essenza della sua missione sacerdotale: spezzare con i fratelli il pane dell’amore di Dio e versare nel loro cuore il sangue redentivo del sacrificio di Cristo. monsignor Giancarlo Rapaccini