Toscana

E il credente si scoprì debole

di Andrea FagioliIl tema dell’esperienza religiosa è tornato alla ribalta: ne parlano le persone e lo studiano i ricercatori. «Per la verità, la tenuta della religione nella sfera privata – dice il sociologo Franco Garelli – non è mai stata messa in dubbio, in quanto, anche in un’epoca di forte secolarizzazione, i riferimenti religiosi sembrano rappresentare un’indubbia risorsa di significato a disposizione degli individui e dei gruppi». Semmai abbiamo assistito ad alcuni decenni «d’irrilevanza collettiva», mentre ora «si guarda al fenomeno religioso in termini assai diversi, in rapporto ad una situazione sociale e culturale che sembra essere più aperta alle istanze dello spirito».

La ripresa del tema dell’esperienza religiosa è, del resto, documentata da vari fenomeni sociali, a partire dalla diffusione dei nuovi movimenti religiosi e dai recenti flussi in Occidente di soggetti di origine islamica che portano sulla scena pubblica l’influenza dell’Islam. «Ma il primato dell’esperienza nelle nuove forme di religiosità – dice ancora Garelli – emerge anche nelle forme più vitali delle religioni cristiane, soprattutto all’interno dei movimenti e dei gruppi di militanza religiosa». È così che si scopre che il grado di influenza delle convinzioni religiose in alcuni ambiti di vita è molto elevato. Stando infatti ad una recente ricerca – raccolta dallo stesso Garelli, in collaborazione con Gustavo Guizzardi ed Enzo Pace, nel volume Un singolare pluralismo, edito dal Mulino (pp. 336, euro 24,00) con il sottotitolo «Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani» –, gli italiani sarebbero piuttosto influenzati dalla religione nello stabilire i criteri di bene e di male, così pure nelle decisioni più importanti.

Inoltre, circa la metà del campione intervistato per la ricerca (oltre 2 mila persone in tutta Italia) «attribuisce grande rilevanza ai riti religiosi per solennizare le tappe fondamentali della vita (quali la nascita, il matrimonio e la morte), mentre un altro 20-22% della popolazione vi riconosce un’importanza medio-alta». Al di là di questo, la maggioranza degli intervistati si definisce «credente debole».

Garelli, nel saggio «L’esperienza e il sentimento religioso» all’interno del volume citato, individua un’interessante tipologia di religiosità. «Il primo gruppo è quello che potremmo definire degli atei-agnostici, rappresentati – a giudizio del sociologo – da quanti ritengono di non essere persone religiose e di non avere una vita spirituale o di essere assai poco interessate a queste due dimensioni». Questo gruppo rappresenta il 12,3% del campione.«Il secondo gruppo (pari al 17,3%) è costituito da quanti esprimono una religiosità etnico-culturale, tipica di chi si ritiene persona religiosa senza essere attraversato da una qualche tensione spirituale. In altri termini, l’adesione alla fede della tradizione assume – spiega Garelli – la forma di un’identificazione nelle radici culturali e storiche della vita del popolo cui si appartiene».C’è poi il gruppo della spiritualità critica (8,8%), che «considera positivamente l’espressione personale e individuale della fede (spiritualità) e attribuisce un significato negativo alle forme organizzate del sentimento religioso (religiosità)». Il quarto gruppo, il più diffuso (23%), è quello accennato del credente debole, composto «da quanti attribuiscono un’intensità intermedia sia al loro essere persone religiose sia alla presenza nella propria vita di una tensione spirituale. In questi casi, saremmo di fronte – spiega ancora Garelli – ad un’atteggiamento non caratterizzato da particolari slanci sia nell’attribuire valore alla dimensione dello spirito sia nell’espressione pubblica della fede religiosa». Qualche studioso ha definito questa «normalità» come la «zona grigia» della religiosità.Un altro tipo di religiosità è quella che «si può definire sbilanciata, essendo composta da soggetti che, a seconda dei casi, si ritengono molto religiosi e mediamente spirituali (10,3%) o molto spirituali e mediamente religiosi (9,5%)».L’ultimo tipo è quello «della religiosità integrata, definizione applicabile a quanti si dichiarano persone molto religiose e caratterizzate da un’intensa vita spirituale». Per questi soggetti (pari al 18,8% del campione) le due dimensioni vanno di pari passo.

Nei giorni scorsi alcuni giornali hanno parlato anche di «rivincita della preghiera», con un incremento del 4,5% rispetto ad una decina di anni fa delle persone che almeno qualche volta pregano. In base a quanto riportato ad esempio da «Repubblica» (lunedì 12 gennaio), sembra che poco meno del 35% degli italiani preghi ogni giorno, il 17,2% più di una volta alla settimana e il 9,4% almeno una volta alla settimana. Uno su 10 una volta al mese. Pregano più le donne e si comincia a pregare di più superati i 35 anni di età. A non pregare per niente resterebbero poco più di 13 italiani su cento.

Su questi dati, però, Garelli storce il naso. Per telefono ci confida che sta lavorando sull’argomento, che ha altri dati sui quali al momento ci può solo dire che confermerebbero una tenuta, ma non una riscoperta o una rivincita della preghiera. «Eppoi – dice il sociologo dell’Università di Torino –, c’è da chiedersi che cosa significa preghiera. Per qualcuno è un riferimento molto vago: una riappacificazione con se stessi, un richiamo generale alla trascendenza… Le cose sono quindi un po’ più controverse di come sovente vengono enfatizzate e vendute».Certo è che anche in base a quanto pubblicato da «Repubblica», il modo di pregare varierebbe molto da persona e persona e in molti casi (almeno nel 30%) risulta essere un misto tra la riflessione sulla vita, sulle vicende personali e il silenzio più o meno contemplativo. La meditazione su testi biblici o comunque religiosi riguarderebbe solo il 10% di coloro che dicono di pregare che, nella maggior parte dei casi (ben oltre il 50%) lo farebbe recitando preghiere «tradizionali».

Ma «il rapporto con la divinità e con il sacro – tornando alla ricerca di Garelli – si esprime anche attraverso i simboli», ad «un insieme di oggetti sacri che nella nostra cultura e tradizione vanno dalle immagini dei santi a medaglie raffiguranti figure religiose, da uno strumento di preghiera come il rosario ad oggetti che richiamano le qualità straordinarie di alcuni luoghi sacri (acqua di Lourdes), ecc. Si tratta perlopiù di segni della religiosità popolare, alcuni dei quali sono però così diffusi da interessare anche soggetti che non si riconoscono in questo tipo di sensibilità religiosa».

Fatto sta che il possesso di un oggetto sacro è assai diffuso tra gli italiani, interessando quasi il 90% degli individui. La casa è il luogo per eccellenza dove si conservano queste immagini e questi oggetti (93%). C’è anche un buon 30% che li tiene in macchina. La maggior parte di chi fa ricorso a questi oggetti è convinto che abbiano una funzione positiva, «anche se l’intensità di tale convinzione – spiega ancora il sociologo – varia a seconda dei casi. Il 62% vi attribuisce un medio-alto potere benefico, l’11% li considera poco influenti, il 26% non vi attribuisce alcuna influenza positiva. Il fatto dunque di possedere un oggetto sacro (medaglietta, immagine, ecc.) non si accompagna necessariamente alla convinzione che detto oggetto svolga una funzione di protezione o d’aiuto nella propria vita. L’idea che questi oggetti sacri abbiano un potere protettivo – conclude Garelli – è assai più diffusa tra le donne che tra gli uomini».

La ricercaIl pluralismo morale degli italianiIn maggioranza non credono più che la loro religione sia l’unica vera, però continuano a dichiararsi cattolici e ad andare in chiesa. Ecco gli italiani secondo la fotografia scattata da Un singolare pluralismo, approfondita indagine sociologica condotta all’interno di un progetto di ricerca internazionale da Franco Garelli, Gustavo Guizzardi ed Enzo Pace e stampata da Il Mulino (pp. 336, euro 24,00) con il sottotitolo «Il pluralismo morale e religioso degli italiani». Dunque, solo il 27,61% è convinto che il cattolicesimo sia l’unica verità (e il dato si riduce drasticamente con l’aumentare dell’età e del grado di cultura), tuttavia il 29,87% dei laureati dichiara di osservare il precetto festivo: più dei diplomati (24,67%) e dei senza titolo di studio (24,71%). Va in chiesa una volta a settimana il 29,11% dei settantenni, ma solo il 18,93% dei nati tra il 1975 e il 1981. Per quanto riguarda l’approccio con l’aldilà, il 40% crede in « qualcosa» dopo la morte, solo il 16,80% pensa che non ci sia nulla e il 16,98% s’aspetta un paradiso o l’inferno. Confessione o gruppo d’appartenenzaLa ricerca sul pluralismo religioso è stata realizzata interpellando un campione di 2.149 persone. Di questi il 79,2% (1.703) si è dichiarato di religione cattolica, il 18,8% di nessuna religione, lo 0,6% Testimone di Geova. Percentuali inferiori allo 0,5% ciascuno per protestanti, ebrei, musulmani, buddisti e altre religioni. I cattolici e la pena di morteLa ricerca sul Singolare pluralismo degli italiani, ci offre dati interessanti anche su come la pensano i cattolici a proposito della pena di morte. Stando alla ricerca, il 78,2% dei cattolici italiani è contrario alla pena di morte, mentre il 21,8% (e non è poco) è favorevole alla pena capitale. Bisogna comunque dire che tra chi si dichiara di non appartenere a nessuna religione il dato dei favorevoli sale al 24,9%. Religione e politica, pareri contrappostiCirca la metà del campione intervistato (2.149 persone) per la ricerca pubblicata dal Mulino, «è convinto che la religione attualmente svolga una funzione politico-pubblica rilevante e al tempo stesso eccessiva, mentre gli scontenti per motivi opposti (esiguità dell’apporto della religione alla politica) rappresentano una piccola minoranza». Lo spiegano Fanny S. Cappello e Giancarlo Gasperoni nel saggio «Religione e morale: un carico di peso variabile». A proposito di religione e politica, vengono individuate cinque posizioni:

• a) gli individui che sono contrari a un rapporto stretto fra religione e politica e che sono soddisfatti dell’attuale situazione, in quanto vi ravvisano una debole influenza della religione sulla politica (il 25% delle persone interpellate);

• b) gli individui che sono contrari a un rapporto stretto fra religione e politica e che sono insoddisfatti dell’attuale situazione, in quanto ritengono che la religione abbia invece un rilevante ruolo politico (il 48%);

• c) gli individui che sono favorevoli a un rapporto stretto fra religione e politica e che sono soddisfatti dell’attuale situazione, in quanto vi intravedono una forte influenza della religione sulla politica (l’8%);

• d) gli individui che sono favorevoli a un rapporto stretto fra religione e politica e che sono insoddisfatti dell’attuale situazione, in quanto credono che la religione abbia una debole incidenza sulla politica (il 7%);

• e) gli individui che assumono stati intermedi o di sostanziale indifferenza su entrambe le dimensioni (il 12%).

Barsotti: ecco cosa significa pregareNei numerosi incontri avuti negli ultimi anni con don Divo Barsotti, per interviste o servizi, il tema della preghiera è tornato più volte. La sua stessa vita, giunta alle soglie dei 90 anni (li compirà il prossimo 25 aprile), è un esempio di preghiera, anche se lui ripete «di non saper pregare». Proprio lui, fondatore di una comunità contemplativa, conosciuto per i suoi studi di spiritualità e le meditazioni sui misteri cristiani, che passava ore e ore nella cappella del suo piccolo eremo intitolato all’espressione più alta del monachesimo russo, San Sergio.Se gli chiediamo cos’è la preghiera, Barsotti risponde che dobbiamo prima chiederci se esiste: «Che rapporto possiamo stabilire noi con un Dio che è trascendenza infinita, che è al di là del tempo e dello spazio? Come mai l’uomo, nonostante tutto, ha sempre creduto di poter stabilire con Dio questo contatto che sembra impossibile?».

Semplice e difficile al tempo stesso la risposta: «Perché il Dio in cui crediamo – dice Barsotti – è il Dio dell’alleanza, che ha voluto stabilire un rapporto, che ha reso possibile un incontro nostro con Lui. Ma ancora non è una risposta vera. La preghiera presuppone un grande mistero, il mistero dell’Incarnazione. Dio si è fatto uomo. Facendosi uomo può parlarmi e io posso parlare a Lui. La comune natura rende possibile un contatto, un incontro. E la preghiera per i cristiani è proprio questo: parlare ad una persona vivente. Ma tutto è possibile perché è Dio che ha preso l’iniziativa. Dunque, è lui che prega. La preghiera nostra presuppone Lui. Non potremmo parlare a Lui senza che prima Lui parli a noi. E la nostra preghiera tanto più è vera, quanto più noi sentiamo che è Lui il primo che parla, il primo che entra nella nostra vita. E ci dà la speranza, ci viene in soccorso, ci conosce e ci ama. La preghiera presuppone dunque prima di tutto la fede. È la fede che dà la possibilità della preghiera. Il dono che l’uomo fa di sé a Dio è il dono della sua povertà e dei suoi peccati. Lui non può chiederci altro, anche perché l’unica cosa che non ha è il peccato. Lo riceve da noi. Si è fatto uomo per addossare su di sé le nostre pene e i nostri peccati».

E se qualcuno chiedesse a don Barsotti «insegnami a pregare», cosa risponderebbe il sacerdote teologo e poeta? «Prima di tutto gli direi che Dio è con lui, che gli parla, che lo ama. Se si riesce a pensare che c’è un Dio che ci ama, la preghiera nasce da sola. Una delle cose più grandi per l’uomo è sentire che vi è un’altra creatura che lo ama, che pensa a lui. Sentirsi pensati, amati, è la gioia più grande. Non per nulla il fidanzamento è il periodo più ricco che l’uomo viva, perché è un rapporto d’amore che nasce dalla consapevolezza e dall’esperienza di amare e di essere amati». «Chiedete e vi sarà dato», dice il Vangelo.

Dunque, nella preghiera si possono chiedere cose anche molto terrene? «Possiamo chiedere tutto – risponde Barsotti –. Dio viene incontro a noi così come siamo e noi siamo di carne, siamo piccoli. Dio non dimentica la nostra povertà e la nostra pochezza. Ci ha detto Lui stesso di chiedere il pane quotidiano, ovvero tutto quello che riguarda i bisogni elementari dell’uomo. Con Dio siamo in un rapporto di amicizia, anche se un po’ strano, perché da una parte c’è Lui che è tutto e dall’altra ci siamo noi che siamo nulla. Ma se Lui ci ama così come siamo deve venire incontro ai bisogni reali dell’uomo, che sono anche quelli dello stipendio, di un amore umano, di una certa felicità, di un certo successo, anche sul piano sociale. Tutto questo il Signore lo sa. Non ci condanna per il fatto che sentiamo questi bisogni. Ma se fossimo presi dall’amore di Dio questi bisogni cadrebbero. Chi è convinto di essere amato da Dio può fare a meno di tutto. In questo senso la preghiera ci spoglia dei nostri bisogni, perché è un dono più grande di quanto possono esserlo i bisogni dell’uomo».