Lettere in redazione

È finito il tempo della beneficenza?

Caro Direttore,il volontariato e le vocazioni sono cose preziose. In ogni epoca della storia dei popoli emergono delle virtù utili al prossimo. Nei nostri tempi si manifestano delle attività ammirevoli, quali il volontariato operante nelle Misericordie, Pubbliche Assistenze, Croce Rossa, Istituti vari e negli Ospedali. Queste attività sono di immenso ausilio laddove la voce dei sofferenti trasforma in vera santità tutto il lavoro compiuto pel bene dell’Umanità. Ma è, anche, una contrapposizione a tanti mali che non onorano i popoli civili e cristiani! Perciò, l’osservazione di questi immensi beni lenenti tanti dolori, diventa per me contrapposizione a chi sostiene che «il tempo della beneficenza è terminato». Ed, infatti, sarebbe la pretesa di annullare l’esortazione paolina che possiamo leggere nell’Epistola del convertito di Damasco! Ma, purtroppo, in questi tristi tempi in cui tutto viene incatenato dai diritti amministrativi, trionfa l’imposizione al posto dello slancio umanitario!

Parimenti, fortunatamente, sorgono ancora vocazioni che trasformano tante giovanette in Suore di Carità, come quelle del Cottolengo, di Don Orione, delle Carmelitane, delle Vincenziane, di Santa Giovanna Antida e di tante altre, le quali fanno nascere nel cuore dell’umanità i bianchi gigli coronanti la fatica consumata per chi attende al lenimento del dolore del male o della povertà o dell’abbandono in questa società dove, purtroppo, si dilapidano tante sostanze in cose frivole.

Elio Giacomelli TosiCampiglia Marittima (LI)

E’ vero, caro Giacomelli: il volontariato – e non solo quello di ispirazione cristiana – viene incontro a tante povertà, giunge là dove le Istituzioni non arrivano e sana, o per lo meno allevia, anche quelle ingiustizie che ancora caratterizzano la nostra società. E con la sua azione, spesso silenziosa, segna in positivo la nostra epoca e dà speranza, anche perché coinvolge un gran numero di giovani.

Molti si chiedono se il «tempo della beneficenza» – che altri chiamano solidarietà o carità – terminerà quando finalmente si riuscirà a costruire una società che elimini del tutto la povertà e ogni forma di ingiustizia.

Benedetto XVI nella sua prima enciclica ««Deus caritas est» (25 dicembre 2005) affronta al § 26 la questione, ricordando che «fin dall’Ottocento contro l’attività caritativa della Chiesa è stata sollevata una obiezione, sviluppata poi con insistenza dal pensiero marxzista. I poveri – si dice – non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di carità – le elemosine – in realtà sarebbero per i ricchi in modo di sottrarsi all’instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei lori diritti». Il Papa riconosce che in questa argomentazione c’è del vero, che compito dello Stato deve essere il perseguimento della giustizia e che i cristiani devono operare per la costruzione di una società che elimini per quanto possibile le cause che determinano povertà e ingiustizia. Ma al p. 28 afferma che «l’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta». La povertà infatti ha vari volti e vicino a quella materiale ne esistono da sempre tante altre che causano anch’esse «una sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto»: basta solo pensare alle tante situazioni di solitudine. In quest’ottica «non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa render superfluo il servizio dell’amore».

Ci sarà quindi sempre bisogno di uomini e donne che per amore si fanno prossimo per gli altri nella consapevolezza che anche non aver nessuno è una povertà dura da sopportare. E oggi questa forma di povertà è largamente sperimentata.