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È finita la guerra o l’informazione?

«La guerra in Afghanistan non è affatto finita, è finita solo l’informazione». Qualche giorno fa è tornata in prima pagina con la notizia, diffusa dalla Fbi, dell’assassinio del giornalista americano Daniel Pearl da parte di integralisti islamici. A confermare l’equazione è Mimmo Candito, inviato speciale del quotidiano La Stampa, che è stato in Afghanistan per tre mesi dal 15 settembre in poi, e che conosce il Paese asiatico dal 1980, ossia dal periodo dell’invasione sovietica. Da allora è tornato una decina di volte, e ora racconta le sue impressioni.

È finita l’informazione sull’Afghanistan. Ma la guerra è davvero finita?

«La guerra non è affatto finita, è finita solo l’informazione. Come nel mondo ci sono 33 o 34 guerre di cui nessuno parla perché non sono coinvolti grandi interessi geo-economici, così accade per l’Afghanistan. Questa è stata la guerra delle città. Ossia sono state conquistate e liberate le città ma il territorio è ancora in mano a bande di violenti, di banditi, ed è difficile, se non impossibile, spostarsi da una città all’altra. Il leader Karzai in questo momento non è altro che il sindaco di Kabul, mentre le altre città dipendono dai signorotti locali, che non intendono affatto rispondere al governo centrale. Karzai ha una scommessa in mano: riuscire, nel tempo, ad istituzionalizzare il potere centrale su tutto il Paese. La scommessa è basata sostanzialmente sui soldi dati dagli americani e dagli europei. Se questi saranno sufficienti e se Karzai li distribuirà riuscendo a convincere i signori locali della convenienza, allora si costituirà una assemblea nazionale e si creerà un potere istituzionale. Ma non è detto che questa scommessa andrà a buon fine».

Ma ci sono reali passi in avanti verso la democrazia?

«Pochi. Non vorrei sovrapporre una realtà occidentale a quella di un Paese islamico, dove ancora oggi il ministro della giustizia ha affermato che la legge sarà quella della sharia e le donne non hanno smesso di portare il burka. Ma questo fa parte dei processi di modernizzazione della società. Se essi verranno attivati, nel tempo sicuramente la società diventerà più laica. Se ci saranno faide interne, lotte o sovrapposizioni di poteri, questo non si realizzerà».

E i movimenti della società civile?

«Ci sono movimenti femministi di difesa della donna ma sono ancora marginali, incidono poco in una società tradizionalista e passatista. Comunque c’è una grande differenza tra Kabul e il resto del Paese. Kabul è una città, possiede una delle università più aperte dell’Asia centrale, i livelli di alfabetizzazione sono al 57%, mentre nel resto del Paese sono al 2%».

I profughi stanno tornando?

«I profughi cominciano a tornare, è interesse dei pakistani e degli iraniani che tornino. Certamente l’arrivo della primavera faciliterà i ritorni, ma in questo momento il Paese è bloccato dalla neve ed è praticamente impossibile spostarsi dalle frontiere verso le città».

Ma ci sono ancora problemi di sicurezza…

«Se non si riuscirà ad istituzionalizzare questo potere la situazione non sarà sicura per molto tempo. La richiesta iniziale era di distribuire le forze dell’Onu su tutto il Paese, ma sono arrivate delle sonore risate da tutti i signorotti locali. Quindi l’Onu è solo all’interno di Kabul e fa un lavoro di gendarmeria, controllando che la gente non vada in giro con le armi. Il vero potere reale è in mano alle organizzazioni non governative e alle strutture delle Nazioni Unite, perché distribuiscono cibo a più di sette milioni di persone, quindi al 70% della popolazione rimasta nel Paese».

Dopo la morte della Cutuli e degli altri colleghi ci sono state anche voci che accusavano gli inviati di poca accortezza…

«Quando siamo entrati in Afghanistan con altri 150 giornalisti di tutto il mondo ci hanno sconsigliato di andare a Kabul per la pericolosità. Io sono partito lo stesso insieme ad altri colleghi della Bbc, altri hanno detto che era troppo pericoloso e sono rimasti. Tra questi, Julio Fuentes e Maria Grazia Cutuli: quella mattina ci siamo abbracciati e ci siamo detti “ci vediamo”. Julio mi ha detto “ti telefono stasera quando arrivi a Kabul per sapere come è andata”. Loro sono partiti tre giorni dopo, quando era meno pericoloso…Ed è successo quello che è successo».

Quali ricordi o immagini sono rimasti più impressi dell’Afghanistan?

«La faccia triste di Julio che si appoggiava allo stipite della porta quando ci siamo visti per l’ultima volta e il pallore sul viso di Maria Grazia. Un’altra immagine riguarda il periodo del governo del talebani: ero nel ministero dell’educazione, in un atrio polveroso, con tanta gente che sgomitava per una distribuzione di libri di testo. Erano professori che si spintonavano per poter prendere un libro. In mezzo a questi uomini con camicioni e turbanti c’era un ragazzino di dieci anni che è riuscito ad infilarsi nel gruppo e a conquistare un libro di matematica. Gli ho chiesto perché, lui mi ha risposto: “Da grande voglio fare il medico per aiutare il mio paese».