Dossier

Dove soffia lo Spirito. Viaggio nelle nuove comunità monastiche

di Riccardo Bigi«La storia del monachesimo è fatta di tradizione e di innovazioni: l’importante è che i nuovi rami siano collegati alle radici antiche». Parola di Enzo Bianchi, fondatore e priore della comunità monastica di Bose, in Piemonte, una delle voci più rappresentative delle nuove comunità religiose fiorite in Europa negli ultimi decenni. «Bisogna stare attenti – afferma – e la Chiesa fa bene ad essere prudente nei confronti del nuovo che nasce. Ma si deve anche essere pronti a riconoscere che lo Spirito Santo continua a soffiare».

Lo Spirito dunque soffia ancora: ma dove? Basta guardarsi intorno, nella nostra Toscana, per trovare segni che fanno ben sperare, esperienze interessanti, significative, che si sforzano di tenere insieme tradizione e novità. Basta guardarsi intorno per vedere comunità monastiche che muovono i primi passi, antiche pievi che diventano centro di attrazione, esperienze religiose che cercano di piantare un seme nella nostra regione. Sono le storie che abbiamo raccolto in queste pagine. Piccole gocce, che insieme diventano un fiume. A Enzo Bianchi abbiamo chiesto di aiutarci a capire da dove nasce questo fenomeno, e che futuro può avere.

Si può parlare di un «nuovo monachesimo»?

«La nascita di nuove forme di vita religiosa è un fenomeno che ha toccato soprattutto la Francia e l’Italia. C’è una effervescenza evidente, e la Chiesa lascia un certo spazio. Prima di parlare di rinascita del monachesimo però si deve andare cauti».

Ci sono dei rischi?

«Sono sincero: fino ad alcuni anni fa anch’io pensavo a una fioritura di vita religiosa. Oggi ho qualche dubbio in più, vedo molta dispersione, fenomeni che lasciano a desiderare, avventure isolate dovute a leader che trascinano delle persone. Mi sembra che la Chiesa a volte non sia abbastanza vigilante: si appoggia la novità prima che le comunità possano essere messe alla prova»

Come aiutare queste comunità a crescere, senza soffocarle?

«Lasciare che facciano un cammino autonomo, senza impegnare la Chiesa: un tempo di 15-20 anni, un “noviziato comunitario” che consenta di farsi le ossa. Altrimenti si rischia di dar credito a esperienze che nascono bene, con il coinvolgimento di giovani, ma possono avere esiti molto negativi»

Da dove nasce la necessità di fondare comunità nuove, rispetto alle forme di vita religiosa già esistenti?

«Nella storia della Chiesa ci sono sempre state nuove fondazioni, legate spesso a momenti cruciali di cambiamento. Proprio in Toscana esperienze come quelle di Camaldoli, Vallombrosa, Monte Oliveto sono nate dall’intuizione di monaci riformatori e hanno avuto una risonanza mondiale. Credo che alla fine del Concilio si sentisse l’esigenza, con l’aprirsi di una nuova stagione della Chiesa, anche di un nuovo monachesimo, di aprire cammini che non fossero completamente debitori alla tradizione e all’istituzione. Si sono aperte delle vie, alcune sono fallite, altre si sono attestate e oggi hanno un loro ruolo. I cammini fecondi sono quelli, secondo me, che si attaccano alle radici del monachesimo tradizionale».

Quale apporto possono dare alla Chiesa queste esperienze?

«Nella crisi generale che ha oggi la vita religiosa, se non ci sono tentativi seri di rinnovamento, si rischia di creare un vuoto che sarebbe una perdita grave per la Chiesa e per l’umanità».

Le nuove comunità religiose anche come risposta alla crisi vocazionale?

«In realtà, la crisi non è generalizzata: un monastero come Camaldoli ha tante vocazioni, quanto le nuove comunità: è il segno che anche nella tradizione è possibile continuare a mostrare un volto che attira i giovani e gli uomini di questo tempo. La radicalità del Vangelo, l’essenzialità è il linguaggio che i giovani sentono di più».

Una cosa che si ritrova in molte delle nuove esperienze è quella di unire lo stile di vita monastico all’inserimento nella società, attraverso il lavoro.

«Anche il monachesimo classico pratica il lavoro. Oggi certo non è più possibile l’autarchia degli antichi monasteri, per cui spesso si lavora fuori: ma il lavoro era già di per sè una forma di solidarietà con gli uomini».

L’impressione comunque è che le nuove forme di vita religiosa non cerchino il distacco dal mondo, ma un modo nuovo di vivere la fede nel mondo.

«Questo sì, non c’è più una fuga dall’umanità: il rapporto con la società, con la Chiesa, è una delle caratteristiche delle nuove comunità religiose ma direi di tutta la religiosità del Novecento».