Italia

Dov’è finita la Giornata degli stati vegetativi?

Era ieri, e non se ne è accorto nessuno. La Giornata nazionale degli stati vegetativi avrebbe dovuto celebrare la sua sesta edizione il 9 febbraio, ma se qualcuno ha «festeggiato» lo ha fatto sottovoce, se non in silenzio. Dopo le iniziative promosse con forza e interesse i primi anni, quelle successive sono andate via via sciamando in tono sempre minore.

Ripercorrerne brevemente la storia dà la misura di come la testimonianze si perdano, in una società che corre tra nuove emergenze e vecchie abitudini che contano sulla poca memoria degli italiani. La Giornata degli stati vegetativi è un appuntamento nato a un anno dalla morte di Eluana Englaro, avvenuta il 9 febbraio 2009, per ricordare lei e per accendere i riflettori sulle migliaia di persone che si trovano in stato di minima coscienza, sui loro famigliari, sul loro mondo. A parlarne adesso sembra di discorrere di cose successe tantissimo tempo fa, di cui non si serba immagine.

La Giornata nazionale degli stati vegetativi era sorta sull’onda della grande partecipazione e commozione popolare che aveva accompagnato la vicenda di Eluana Englaro, la ragazza divenuta disabile gravissima a seguito di un incidente d’auto e che è stata al centro di un’aspra battaglia giudiziaria combattuta per la sua vita.

Per diciassette anni il padre Beppino ha rivendicato, in nome della figlia incosciente, la sua possibile scelta di interrompere la nutrizione assistita e morire. Sull’altro fronte, una grande mobilitazione percorse l’Italia e il mondo per mantenere in vita Eluana che non era in fine vita, solo addormentata: furono raccolte migliaia di firme, furono organizzati sit in di preghiera e di protesta. Non servì, non bastò.

Per trarre una luce positiva da quella drammatica vicenda, con direttiva del presidente del Consiglio dei ministri si indicò quel 9 febbraio come una data simbolo in cui dare voce a chi non aveva voce, ovvero le 3mila persone che nel nostro Paese vivono in condizione di disabilità gravissima e invalidante, assistite in tutto da famigliari, professionisti, volontari e amici.

Da allora molte cose sono cambiate, la ricerca ha proseguito con successo il suo percorso, si è imposta una nuova terminologia: non più «stato vegetativo», dacché si parla di persone e non di verdura, ma stato di «minima coscienza» o «sindrome di veglia a-responsiva».

I pazienti ci sono e senza poter dire nulla, solo con lo sguardo, chiedono il riconoscimento della loro umanità, del loro essere vivi dietro la barriera dell’incomunicabilità. Anche perché la scienza registra i casi clamorosi di chi è uscito dalla bolla in cui era imprigionato, come, solo pochi mesi fa, è accaduto per Giorgio Grena a Bergamo. E poi c’è il lavoro continuo, instancabile e ostinato delle associazioni che li assistono e che combattono contro i tagli alla spesa sanitaria, contro le riorganizzazioni, contro la carenza di personale per portare avanti l’assistenza di più alto livello possibile. Accanto a tutti le famiglie, che con tenacia, perseveranza, inesauribile energia, non si arrendono ma coltivano la speranza, anche quando stremati dall’indifferenza delle istituzioni.

Ecco, la Giornata dovrebbe esistere per dire a tutte queste persone una sola cosa: non siete soli, non siete abbandonati e dimenticati, ci ricordiamo di voi.

Per questo il disinteresse generale è ancora una volta un’occasione persa. Rimettere al centro dell’attenzione tutto un mondo silenzioso e vivo, anche solo una volta l’anno e solo per un giorno tra i tanti delle innumerevoli «giornate» che si celebrano, servirebbe a far capire che davvero si sta operando per la dignità di tutti, dei più deboli, di chi non si arrende. Dimenticarsi di un compleanno è segno di trascuratezza, tralasciare ripetutamente la stessa ricorrenza è imperdonabile.