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Dopo Verona, chiamati a potenziare la riserva di energie morali

di Andrea FagioliDa buon (o cattivo) toscanaccio, entrando nell’Arena di Verona, lunedì 16 ottobre per la celebrazione d’apertura del Convegno ecclesiale nazionale, ho sperato che quelle grandi «figurine» dei santi almeno non si illuminassero. Mi sembravano, infatti, già pacchiane così. Invece, non solo si sono illuminate una per volta durante la lunga preghiera litanica, ma alla fine si sono illuminate tutte insieme durante il concerto.

Da buon (o cattivo) toscanaccio mi sono poi pentito anche solo di aver pensato quello che ho pensato. La chiave del Convegno, infatti, era proprio lì, in quelle figure di «santi storici» e in quelli di «santità recente» che alla Fiera di Verona facevano ala all’ingresso dei delegati nell’aula assembleare. Nel primo caso San Procolo o Santa Caterina da Siena, nell’altro Giorgio La Pira o Rosario Livatino. Da tutti la proposta unica di «quella misura alta della vita cristiana ordinaria che è la santità».

Per troppo tempo gli «aspetti organizzativi e burocratici», come li ha chiamati il cardinale Ruini, hanno prevalso. Le diocesi, con i loro uffici e le loro riunioni, assomigliano ormai a piccoli ministeri. Era forte il bisogno di ribadire i motivi profondi che spingono alla testimonianza.

In questo senso, contrariamente a quanto detto e scritto da molti osservatori, sembra di poter individuare una linea unica veronese che va dal cardinale Tettamanzi (che ha aperto il Convegno), al Papa (che è stato il centro del Convegno), al cardinale Ruini (che lo ha concluso), al lavoro dei delegati nei gruppi e sottogruppi dei cinque ambiti (vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza).

Ce l’hanno menata con i cosiddetti «teocon» o gli «atei devoti» (come se fossero milioni e invece sono un paio: Pera, Ferrara e pochi altri), ma la frase di Tettamanzi («è meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo») era forse rivolta ai cristiani e non a chi cristiano, in effetti, non si proclama. Vero, invece, il passaggio del discorso del Papa in cui si fa riferimento a «importanti uomini di cultura» che, pur non condividendo o non praticando la nostra fede, avvertono «la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà».

Ammesso questo, mi sembra che il filo conduttore di Verona e le indicazioni per il dopo siano chiare. «Che la Chiesa in Italia – ha detto il Papa – possa ripartire da questo Convegno sospinta dalla parola del Signore risorto che ripete a tutti e a ciascuno: siate nel mondo di oggi testimoni della mia passione e della mia risurrezione. In un mondo che cambia, il Vangelo non muta».

Ovvero, per dirla con Tettamanzi, non muta la «carta costituzionale» dei cristiani.

Ai laici, che sono stati protagonisti (evocati e di persona) del Convegno, Ruini ha detto che spetta a loro «una forma di testimonianza missionaria» che «appare decisiva per il futuro del cristianesimo e in particolare per mantenere viva la caratteristica popolare del cattolicesimo italiano, senza ridurlo a un cristianesimo minimo». Gli spazi d’intervento sono aperti e ampi, anche in campo sociale e politico, per «potenziare la riserva di energie morali di cui l’Italia ha bisogno».