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Dopo lo sciopero generale: il coraggio della responsabilità

DI ALBERTO MIGONELo sciopero generale ha dimostrato che i sindacati hanno forte radicamento nella base e capacità grande di mobilitare, intorno a temi che toccano, anche se in misura varia, i diritti di chi lavora. Il governo dichiara peraltro che è intenzionato a procedere perché legittimato da un consenso che è espressione del corpo elettorale che gli ha assicurato un’ampia maggioranza parlamentare. L’associazione industriale, da parte sua, al convegno di Parma ha riformulato in termini netti le sue richieste, affermando che «se c’è e ci sarà occupazione è merito nostro». Si può dire che finora ognuna delle parti ha messo in campo la propria forza, anche se all’interno le posizioni sono più articolate e i distinguo non mancano. Contemporaneamente, però, tutti dicono di voler riprendere al più presto le trattative per scongiurare un grave scontro sociale, dannoso per tutti. È possibile allo stato dei fatti trovare una soluzione soddisfacente?

Gli esperti dicono di sì, ma per questo in ognuno dovrebbe prevalere il senso di responsabilità. Ed è difficile perché ormai il dibattito sull’articolo 18 ha assunto connotazioni che vanno al di là della questione, diventata ormai prevalentemente politica e, come è stato detto in questi giorni, «nessuno vuole né può perdere la faccia». È questo che rende la situazione difficile e per vari aspetti preoccupante. Le stesse manifestazioni – di per sé legittime – che per i motivi più diversi si organizzano (perfino un quotidiano le promuove!), unite a affermazioni di membri anche autorevoli del governo – più da comizio che da Palazzo – finiscono per surriscaldare ancora di più il clima generale in un tempo in cui servirebbero pacatezza, concretezza e soprattutto valutazione intelligente delle conseguenze.

Tutto questo evidenzia una grave crisi della politica in una caratteristica che dovrebbe esserle propria: quella di essere sì attenta agli interessi delle singole categorie e agli umori della società, ma di saper poi fare con autorevolezza sintesi in nome del bene comune. Ma il «bipolarismo all’italiana» non facilita perché tende ad assolutizzare le posizioni e ad acutizzare lo scontro. E al contempo rende, al di là dei numeri, ambedue gli schieramenti deboli nell’azione, perché composti da forze molto eterogenee. Questa è la differenza rispetto ai modelli anglosassoni, molto a torto evocati. Certamente da una parte e dall’altra non mancano uomini che per cultura e tradizione politica conoscono il valore (e anche l’utilità) della paziente ricerca dei punti di convergenza, ma, finora almeno, non sanno (o non vogliono) superare gli attuali schematismi, che in questa circostanza, ma anche in altre, appaiono sempre più fittizi. È questo – a nostro parere – un nodo della politica italiana che andrà affrontato con chiarezza, anche superando luoghi comuni.