Opinioni & Commenti

Dopo le urne resta incerto il futuro dell’Iraq

di Romanello Cantini

Ci vorranno settimane prima di conoscere i risultati definitivi delle elezioni in Iraq del 7 marzo. Per il momento si può dare un giudizio sullo svolgimento delle votazioni e sulla partecipazione alle urne, e prima ancora sulla presentazione delle liste e sulla campagna elettorale. Nonostante gli attentati promessi ed attuati da Al Qaeda, che nel giorno delle elezioni hanno provocato una quarantina di vittime, i seggi sono rimasti aperti e le elezioni si sono svolte in forma regolare.

Sembra che siano andati a votare il 62% dei diciannove milioni di iracheni che ne avevano diritto. È una percentuale assai inferiore all’ottanta per cento degli elettori che si recò alle urne alle prime elezioni di cinque anni fa, ma di ben dieci punti superiore a quella delle amministrative dell’anno scorso. Segno che le abitudini elettorali degli iracheni si stanno ormai stabilizzando su standard americani non solo per una campagna elettorale vistosa e chiassosa che è ricorsa a tutti i mezzi di comunicazione di massa, ma anche per il tasso di partecipazione, con in più il merito di rischiare la vita per andare a mettere una scheda nell’urna.

Dalla repressione alla trasgressione il passo è breve. Ma certamente più di ottanta liste presentate sono state un po’ troppe anche mettendo sul conto la necessità di sfogarsi dopo il partito unico durato fino a sette anni fa.

Soprattutto avanza con difficoltà il processo di aggregazione dei tanti partiti e partitini intorno a grandi poli capaci di garantire maggioranze tanto ampie e omogenee da assicurare stabilità e durata di governo al Paese. Tuttavia, in questa prova elettorale sono emerse due novità significative. La prima è costituita dal fatto che anche i grandi poli che puntano alla vittoria e che per origine e ispirazione fanno capo alle grandi Confessioni religiose o nazionali – sciita, sunnita o kurda – non sono più monoliti e questa volta hanno inserito nelle proprie liste personalità di fede diversa. La seconda è che, durante la campagna elettorale, il tema del richiamo all’unità nazionale è prevalso su quello della fedeltà al proprio credo religioso e ai propri correligionari, seguendo uno spunto che aveva portato al successo il partito del premier Al-Maliki già nelle ultime amministrative.

Dopo gli anni terribili del 2006 e del 2007, quando la guerra civile fra sunniti e sciiti provocava in media 180 attentati o attacchi al giorno, è prevalsa seppure lentamente la tregua e la tendenza ad una sorta di compromesso necessario. La svolta si è avuta agli inizi del 2008, quando la maggioranza dei sunniti ha rotto con il terrorismo un po’ perché centomila di essi sono stati stipendiati nel nuovo esercito iracheno e un po’ perché ci si è accorti che la guerra civile portava al disastro soprattutto la propria parte. Attualmente sono proprio gli americani, che nel 2003, licenziando l’esercito di Saddam ed epurando i membri del partito Baas, spinsero i sunniti verso Al Qaeda, a premere per il reinserimento dei sunniti nell’ambito del potere. Al contrario nei due grandi schieramenti sciiti dell’Alleanza per lo Stato di diritto (Al-Maliki) e dell’Alleanza nazionale irachena (Al-Hakim, Al-Sadr, Chalabi), soprattutto il secondo continua a scagliarsi contro gli «assassini di ieri». Questa volta i sunniti, a differenza delle ultime elezioni, sono andati a votare.

E gli americani che nel 2003 dipingevano Saddam e i suoi seguaci sunniti come i loro principali nemici di allora si sono nel frattempo accorti che questo teorema era troppo teorico, mentre gli sciiti sono davvero forse troppo vicini al nemico di oggi che è l’Iran.

Gli eletti del 7 marzo governeranno il Paese anche quando, se gli americani manterranno la promessa di ritirarsi entro l’anno prossimo, l’Iraq avrà ritrovato la sua piena sovranità. Ma, secondo i sondaggi che corrono, nessuna delle grandi formazioni politiche e confessionali che si sono presentate alle elezioni è capace di raggiungere la maggioranza assoluta. Dopo le ultime elezioni ci vollero addirittura cinque mesi per trovare una maggioranza di governo. Anche questa volta la governabilità e la stabilità sono tutt’altro che assicurate. Soprattutto dopo la partenza delle truppe americane non sappiamo se reggerà la tregua interreligiosa che Washington ha promosso. Molto dipenderà dai rapporti interni e dai rapporti internazionali, ad esempio fra Iran e Usa. Le tensioni religiose, anche se nel frattempo sono coperte dalla cenere, sono tutt’altro che spente. Quello che stanno soffrendo in queste settimane i cristiani di Mosul sta lì a dimostrarlo, anche se l’intolleranza si esercita più facilmente e più vilmente per il momento su una minoranza che non ha né protezione, né rappresentanza politica.