Opinioni & Commenti
Dopo il «caso Dj Fabo» non cediamo a chi vuole negarci per legge persino la speranza
La prima è che, in questo come in altri casi, si è utilizzato un caso estremo – il dramma di un individuo gravissimamente menomato –, che merita il massimo rispetto e di cui si può solo parlare in punta di piedi, per cercare di legittimare un principio universale – ognuno è libero di fare della propria vita e della propria morte ciò che vuole, senza doverne rispondere a nessuno –, che invece si ha il pieno diritto di discutere –, e per invocare una corrispondente legislazione, la cui portata sarebbe anch’essa, ovviamente, ben più estesa dei singoli «casi pietosi». È la stessa strategia usata nel caso del divorzio: si parte dall’esecrazione di situazioni insostenibili di rapporti segnati da violenze o da abbandoni, per arrivare ad una normativa che prevede la possibilità di sciogliere un matrimonio per qualsiasi motivo e in tempi sempre più brevi. Identico procedimento per la questione dell’aborto: dall’accorata denuncia di gravidanze che mettono a rischio la vita della donna o che lasciano prevedere la nascita di un bimbo gravemente malato, si arriva a una legge, come quella attuale, che consente alla madre di abortire senza alcun motivo controllabile dal punto di vista medico o sociale. È appena il caso di sottolineare la scorrettezza logica ed etica di questo modo di impostare il dibattito pubblico, sfruttando le risorse del circo mediatico per suggestionare l’opinione della maggioranza.
Una seconda considerazione è che, in questo come in altri casi, si è polarizzata l’indignazione sugli effetti, nascondendo – volontariamente o involontariamente – il vero problema, che è quello delle cause. Così, invece di cercare di porre rimedio alle situazioni che portavano alla crisi del matrimonio nel nuovo contesto sociale e culturale, invece di eliminare gli ostacoli economici e giuridici che spesso rendono alle donne difficile affrontare la maternità, si è presa la via, molto meno impegnativa, di scaricare sulle persone la responsabilità di scelte spesso dolorosissime, ma rese inevitabili da un contesto che nessuno in realtà ha cercato di cambiare.
Allo stesso modo, forse sarebbe il caso di chiedersi se il problema vero della nostra società sia di rendere più facile il suicidio o di aiutare le persone a non dovervi ricorrere, operando sulle condizioni che possono spingere ad esso. Pochi giorni prima di Dj Fabo un altro giovane, Michele, si era tolto la vita lasciando una terribile lettera in cui puntava il dito su questa società, che lo respingeva e non gli consentiva di trovare un lavoro dignitoso. Si dirà che qui siamo davanti a una situazione diversa, in cui la società non c’entra. In realtà, anche il Dj Fabo forse non avrebbe vissuto la sua condizione come un «inferno di dolore» in un contesto culturale e relazionale diverso da quello che abbiamo creato. In un contesto, intendo, che non metta in primo piano il tema della qualità della vita intesa come salute, prestanza fisica, successo sessuale -, e che permetta di considerare degna di essere vissuta anche la vita di chi non abbia tutte queste cose, ma trovi in qualcos’altro un senso per continuarla. Allora anche la disabilità o la malattia – o l’emarginazione che nasce dalla mancanza di lavoro – potrebbero essere considerate in un’ottica molto diversa, che eliminerebbe alla radice la rivendicazione del suicidio, rendendolo superfluo.
La terza considerazione riguarda la tanto conclamata «libertà di scelta» a cui si sono appellati molti titoli di giornali. Già da quello che si è appena detto dovrebbe scaturire qualche dubbio sulla autenticità di una scelta che, in realtà, dipende moltissimo dal clima culturale e sociale in cui si vive. Ma vorrei aggiungere qualcosa che riguarda la natura stessa di questa libertà, concepita come assoluta autonomia, che la comunità civile avrebbe solo il compito di tutelare e accompagnare, senza aver il diritto di far valere alcun proprio criterio etico. È il modello di libertà già da lungo tempo elaborato dalla civiltà liberale e che si esprime nella classica formula secondo cui «la libertà di ognuno finisce dove comincia quella dell’altro». Nella propria sfera privata, purché non si invada quella dell’altro, si può fare quello che si vuole, senza risponderne a nessuno, meno che mai alla comunità civile e politica.
Una formula che si fonda sul falso presupposto che ciò che ognuno fa nella propria sfera privata non incida sulla vita altrui. In realtà non è affatto così. Il medico che non si aggiorna abbastanza, il docente che si lascia scoraggiare dal deprezzamento sociale, il genitore distratto che trascura il coniuge e i figli, si muovono nell’ambito privato, ma le loro azioni ricadono pesantemente su altre persone. È vero: lo Stato non può intervenire giuridicamente nella loro vita privata per costringerli a fare scelte diverse, ma non può neppure essere eticamente neutrale di fronte ad esse, come se non ricadessero sul bene comune della collettività. Così è di fronte al suicidio. La collettività non può impedire a una persona di suicidarsi, ma – oltre a dover cercare di rimuovere le cause di una simile scelta –, non può neppure impostare la sua legislazione sul presupposto che il suicidio e la lotta per continuare, malgrado le prove, a vivere, siano equivalenti. È questa, ci sembra, la direzione in cui bisogna battersi per cambiare l’attuale contesto giuridico e sociale. Per non doverci ridurre ad avallare, per legge, non solo la fine delle persone, ma quella della speranza.