Vita Chiesa
DONI: Ha sempre esaltato i valori della pace e della democrazia
DI RODOLFO DONI
Ricordavo, allorché mi accadde di commentare su un giornale romano l’elezione del precedente Papa, quando io, giovanissimo sottotenente del Corpo italiano di liberazione facente parte dell’Armata polacca che con l’ottava Armata inglese risaliva la penisola, l’espansività gioiosa dei colleghi polacchi che mi issavano sulle spalle per festeggiare la Pasqua.
A chi comunque ha qualche prevenzione giudicandolo di grandissimo spessore ma «conservatore» e «tedesco», dedico questo giudizio storico che accadendomi di spiegare soprattutto ai giovani le cause dell’ultima guerra mondiale ho trovato (riportato nella rivista «Vita e Pensiero» del settembre-ottobbre 2000) riguardo ai responsabili tedeschi: «Un criminale, coi suoi accoliti, era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati fra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in certo senso, di esigere di diritto obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti della autorità dello Stato (Rm 12,1s) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali».
Ma più volte, mi accaduto di osservare l’originalità, la limpidezza di stile e la straordinaria umanità (in senso proprio culturale) del teologo Joseph Ratzinger tanto da citare in miei libri suoi interi articoli.
Do un esempio nel quale dà una dimostrazione per assurdo (si direbbe in matematica) della divinità di Cristo: «Chi era propriamente Gesù di Nazareth? Quale idea si faceva di sé? Se dovessimo dar credito al cliché che oggi si diffonde largamente, le cose sarebbero andate all’incirca così: Il Gesù storico sarebbe stato una specie di maestro profetico, che fece la sua comparsa nell’atmosfera escatologicamente surriscaldata del tardo ebraismo, mettendosi a predicare in maniera consona a tale atmosfera l’avvento del regno di Dio.
Il suo messaggio sarebbe stato un messaggio spiccatamente temporale: sta per venire il regno di Dio, la fine del mondo. Per motivi che non si potrebbero esattamente ricostruire, sarebbe stato giustiziato, finendo così da povero fallito. Dopo di che, ancora e sempre in maniera quasi inspiegabile, sarebbe nata la fede nella sua resurrezione. A poco a poco questa fede si sarebbe ulteriormente rafforzata, trasformandosi anche nell’idea che Gesù sarebbe ritornato come figlio dell’Uomo o come Messia. In un secondo tempo si sarebbe proiettata questa speranza sul Gesù storico mettendola in bocca a lui stesso, e quindi interpretando la sua persona di conseguenza. A questo punto si sarebbe presentato il tutto come se lui stesso si fosse annunziato figlio dell’Uomo o Messia. Subito dopo, il messaggio imperniato su lui sarebbe passato dal mondo semitico a quello ellenistico. Nel mondo semitico si era data a Gesù un’interpretazione basata su categorie ebraiche (figlio dell’Uomo, Messia), nel mondo ellenistico gli si aggiunsero le categorie dell’uomo divino, dell’uomo-Dio il quale sarebbe caratterizzato dall’essere taumaturgo e di origine divina: così il mito della sua nascita da una vergine. E su tale mitico tracciato la fede dell’antica Chiesa sarebbe poi proseguita sino a concretizzare il tutto nel dogma di Calcedonia, col suo concetto di filiazione ontologica di Gesù da Dio. Questo mito sarebbe stato dogmatizzato e circonfuso di erudizione, sino al punto di giungere ad elevare questo mitico asserto a parola d’ordine della ortodossia, capovolgendo così definitivamente il punto di partenza. Tutto ciò, commenta concludendo, si presenta a chi possiede qualche solida nozione storica come un quadro completamente assurdo, anche se oggi trova schiere di gente che vi crede. Per parte mia , conclude , confesso candidamente, basandomi solo sulla mia familiarità con la storia, di essere più facilmente disposto a credere che Dio si sia fatto uomo, anziché ammettere che un tale conglomerato di ipotesi colga nel segno».
Questo brano colsi in uno dei suoi primi libri tradotti, Introduzione al Cristianesimo (Queriniana), che noi della giuria del premio culturale-letterario «Isola d’Elba», segnalammo o (non ricordo bene) premiammo. Fu un grosso atto laico, di cui fu pars magna, questo lo ricordo bene, Mario Gozzini.
E ancora un altro atto testimoniava anch’esso il valore culturale-laico degli scritti di lui che è uno dei maggiori teologi del nostro tempo; fu il premio assegnatogli per la sua intera opera dalla giuria del premio «Basilicata» sezione saggistica, in quello stesso anno che la sezione letteraria assegnava il premio per la sezione corrispondente al mio romanzo Un filo di voce (Mondadori). Era l’ottobre 1993, dodici anni fa. Fu allora che, salendo sul palco vicino a lui potei ammirare anche il suo fine aspetto, l’eleganza semplice che, in tempo di «media», oggi, gli assegna, si può dire, oltre che sicurezza che ispira, anche, se così posso dire, le phisique du rôle.
Ma la chiarezza e la fortezza che usa con chiunque ricordiamo le sue parole di denunzia contro i mali propri della stessa Chiesa («quanta sporcizia!») l’ha ancora mostrata in quella denuncia del «dominio del relativismo» che pone l’io di ciascuno a giudizio di tutto. Per cui, ad esempio, una coscienza di un maitre à penser come Eugenio Scalfari di cui abbiano letto un articolo tra i più belli in memoria del defunto papa può insegnare ai suoi lettori, che la morale come valore assoluto non esiste ma è frutto dell’istinto di sopravvivenza. E ciò proprio mentre denunciava nell’articolo la degradazione della morale. Il fondamento dell’essere e della convivenza è la libertà, e la morale cambia col tempo. Il che è appunto il relativismo e il trionfo dell’io che il filosofo-teologo Ratzinger denuncia: egli, «umile lavoratore della vigna del Signore», come si è detto.
Quanto al suo essere umano, ne ebbi più precisa sensazione in un nuovo incontro quando fui chiamato a far parte della Commissione cultura per il Giubileo: trovai un uomo che sa ascoltare, forse timido, gentile e intimamente accogliente, che non ha forse quelle capacità di accoglienza festosa dei colleghi ufficiali polacchi né tanto meno lo attesta il suo stesso fratello prete in una intervista al quotidiano di Monaco , le capacità straordinarie per relazione del precedente papa. Ma il suo rigore di defensor fidei che ha avuto finora non lo farà travalicare, come Papa: esso si esercita d’altronde sulla stessa mente e cultura, come accade nei veri uomini di grande intellettualità. Insomma, se fossi chiamato a sbilanciarmi complessivamente in una previsione, direi che sarà anch’egli, per altro verso, un grande Papa; il Papa comunque, a mio umile parere, che occorreva.