Cultura & Società
Don Milani, l’etica della scrittura
Una testimonianza, si direbbe, in punta di penna, ma al contempo nitida, precisa e dunque capace di farci da indicatore per avvicinare la personalità di Don Milani al di là di tutti gli schieramenti di parte di cui è stato oggetto nel corso degli anni. Di fatto, questi tratti dell’uomo Don Milani debbono aver interferito, in qualche modo, con tutta la sua esistenza vissuta intensamente sul crinale di quella storia italiana del dopoguerra che compiva, proprio nella seconda metà del Novecento, un salto, per certi aspetti drammatico, nel pieno crogiolo della modernità. Così, su Don Milani è stato scritto o detto quasi tutto e il contrario di tutto, fino al tentativo di fare di lui una bandiera per ideologie contrapposte e, tutto sommato, perdenti.
In realtà, Don Milani, a distanza di tanti anni dalla sua parabola umana e spirituale, ci appare una personalità ricca e composita in cui la dimensione del sacerdote è strettamente legata a quella dell’educatore per vocazione, ad un uomo di fede molto attento ai problemi di quella società e di quella cultura in cui stava avvenendo una trasformazione che oggi possiamo, sotto certi aspetti, intravedere anche nel nostro inquieto e confuso presente. In questo senso, ha scritto bene Tullio De Mauro quando annota: «A me continua a parere che alla radice di tutta l’esperienza di Don Milani ci sia stata la scelta religiosa, la scelta del Vangelo. Questa scelta gli fa percepire la difficoltà immane di viverla e farla vivere nella realtà popolare di San Donato, nel suburbio fiorentino. Era una realtà già in via di disgregazione sotto i colpi del consumismo nascente.
C’è già negli anni Cinquanta in Don Milani una percezione acuta e precoce di questo e dei guasti che arreca: c’è in lui come, in quegli anni, che io sappia, solo in Pier Paolo Pasolini. In quella realtà è impossibile portare il Vangelo perché vi manca o vi si sta isterilendo la parola, perché vi manca o vi si sta isterilendo una cultura capace di reagire alle trasformazioni indotte dal consumismo». La citazione è lunga, ma preziosa e puntuale, poiché ci consente di prendere in mano l’opera scritta di Don Lorenzo Milani e di guardarla ben oltre gli accadimenti e le polemiche che, in un modo o nell’altro, l’hanno investita.
È tempo, dunque, di studiare e di capire lo stile di Don Milani, così in apparenza immediato, appassionato, ma che muove da un centro ben preciso e che spiega tutto il suo sforzo di portare la parola e la cultura ai poveri, agli emarginati, ma certo non solo a quelli. Un aspetto che, chissà perché, non sembra aver attirato molto l’attenzione su questo prete che ha scritto tanto e ha scritto libri senza i quali, forse, ci mancherebbe una comprensione più lucida del nostro immediato passato.
Infatti, la sua polemica contro la cultura scolastica delle classi così dette alte, quale emerge soprattutto in Lettera a una professoressa, non era fine a se stessa, non era dettata, cioè, solo dal fatto che i poveri di Barbiana ne venissero ingiustamente esclusi. La sua passione, la forza del suo stile, in un certo senso, lo tradisce e ci fa intuire che egli avvertiva, forse confusamente ma con determinazione, che la cultura, come primato della ricerca della coscienza e della dignità dell’uomo, stava cambiando di segno così come stava cambiando la funzione della parola e della comunicazione. Il consumismo, in altre parole, stava cambiando proprio questa visione umana, non solo scolastica, della cultura. Questo mutamento lo cogliamo nello svuotamento che ha subìto la parola nella società attuale.