La sua storia in Brasile comincia nel 1974, quando insieme ad altri due sacerdoti fu inviato come fidei donum dalla diocesi di Lucca a quella di Rio Branco, nello Stato dell’Acre. «Ci appassionammo subito: operavamo nelle comunità ecclesiali di base, visitavamo tutte le realtà locali, vivevamo con le popolazioni della foresta, gli indios, i seringueiros (i raccoglitori di caucciù dagli alberi dell’Amazzonia)».A parlare è don Massimo Lombardi, presbitero lucchese da 48 anni a Rio Branco, dove vive tutt’oggi. Descrive i suoi primi anni da missionario «come i migliori della sua vita, una meraviglia, un entusiasmo straordinario».Con il passare del tempo, il sacerdote ha visto cambiare il modo di fare e vivere la missione, ma certamente la passione e l’impegno non sono venuti meno. Tanto che oggi è immerso tra i poveri più poveri di Rio Branco, quelli che vivono nella «Città del popolo». Si tratta di un’area abitativa a 20 chilometri dal centro, voluta dal primo governo Lula per dare un alloggio dignitoso alle migliaia di famiglie che vivevano in baracche lungo il fiume Acre, spazzate via dalle alluvioni sempre più frequenti. Il progetto iniziale prevedeva che, una volta ultimata, la «Città del popolo» potesse ospitare 10.518 famiglie in altrettante case e che vi andassero ad abitare anche persone di estrazione sociale più alta, proprio per non trasformarla in un luogo di emarginazione. Ma così non è stato. L’area, inaugurata nel maggio 2014 con l’assegnazione delle abitazioni alle prime 200 famiglie, ogni due mesi ha visto aumentare la popolazione di 300 unità familiari. Ma con l’arrivo del governo Bolsonaro, il progetto si è interrotto. E quanto realizzato è ormai diventato un vero e proprio ghetto, in mano alle varie gang criminali che si spartiscono il territorio e ne controllano ogni ambito. Anche il Municipio e il Governatorato si rimpallano competenze e responsabilità: sembra che la vita di chi abita in quell’area non interessi più a nessuno. Solo la Chiesa è rimasta, con la presenza del missionario lucchese, coadiuvato da due diaconi, due suore e alcune famiglie cattoliche che abitano lì e si impegnano in attività pastorali ed educative, a beneficio di tutti.È qui che don Massimo ha trascorso i lunghi mesi di pandemia: «Non potevo percorrere ogni giorno 15 chilometri al mattino e altrettanti la sera. E così ho messo un’amaca nel salone polifunzionale che abbiamo costruito con l’aiuto economico di molti, e ho deciso di trasferirmi nella “Città del popolo”». Le iniziative a cui si dedica per coinvolgere gli abitanti dell’area sono tante: incontri per i giovani, scuola di musica, corsi di capoeira, laboratori. Ovviamente non mancano le celebrazioni eucaristiche, il catechismo, anche il gruppo dei ragazzi e adolescenti missionari. Purtroppo, aiutare questa gente a trovare un’occupazione è quasi impossibile: nessun datore di lavoro è disposto ad assumere chi abita lì.Ormai la «Città del popolo» è diventata sinonimo di criminalità, rapine, assalti, tanto che persino i tassisti e i corrieri non vogliono entrarci. «Ma non è così! Ci sono dei problemi, non lo si può negare. Ma merita impegnarsi per risollevare queste persone e questo luogo», afferma con forza il missionario. E, infatti, è quello che cerca di fare ogni giorno, insieme ai suoi collaboratori: «Proviamo a smorzare quest’idea lanciando varie iniziative e richiamando gente da fuori. Si organizzano incontri ed eventi per creare socialità. Si promuovono progetti sociali in collaborazione con enti locali e istituzioni. Inoltre ogni giorno si cerca di raccontare attraverso i social ciò che di bello e “normale” accade nella “Città del popolo”». Ma la sfida è notevole. Eppure don Lombardi non si arrende: «Come potrei lasciare questa Chiesa meravigliosa che lavora accanto ai poveri, ai carcerati e agli esclusi della società?», si chiede il missionario lucchese. «Rimango qui con la stessa convinzione e lo stesso entusiasmo di 50 anni fa», risponde con la determinazione e il sorriso che lo caratterizzano.