Firenze

Don Lorenzo Milani e Barbiana: “Fu la sua terra promessa”

Sono lieto di portare il mio saluto a questa presentazione di un libro che ritengo molto importante per la coscienza della Chiesa fiorentina. Il saluto va alle Autorità presenti e, insieme a un vivo ringraziamento, a quanti ci presenteranno il libro. Un cordiale saluto a tutti i presenti. Il saluto più affettuoso e grato va ovviamente a Michele Gesualdi, che ha accettato, in queste pagine, di aprire il tesoro dei suoi più cari ricordi per renderci partecipi del dono che è stato per lui e gli altri ragazzi di Barbiana la presenza e l’azione, in quello remoto paesino del Mugello, del Priore don Lorenzo Milani.Di fronte alle grandi figure che hanno costruito l’identità della nostra comunità fiorentina, ecclesiale e civile, abbiamo bisogno certamente di un’accurata ricerca storiografica, che ne illumini il volto e il significato, sulla base di documenti e di adeguate contestualizzazioni. Ma abbiamo anche bisogno che tali figure tornino a parlarci dal vivo, per il tramite dei loro testimoni. Dal confluire di queste due modalità di approccio, la storia torna a parlarci come esperienza di attualità.Da Michele Gesualdi abbiamo già ricevuto la possibilità di entrare in contatto con don Lorenzo Milani tramite gli scritti da lui in diversi modi pubblicati, specialmente le lettere. Ora, con questo libro, Gesualdi fa un passo in avanti, perché le parole scritte dal Priore e divulgate nei precedenti volumi, con questo libro, entrano nel quadro di eventi disposti nella forma di una narrazione. Si svolge davanti ai nostri occhi la continuità di un cammino colto dal vivo, avendo come punto centrale, evidenziato nel titolo, la sua fase più matura e, ahimè, conclusiva, quella appunto di Barbiana. Una stagione della vita di don Lorenzo preceduta da altre due altrettanto importanti e decisive, di cui tener conto necessariamente per comprendere l’ultima.Il primo passaggio nella vita di colui che sarà da tutti conosciuto come il Priore di Barbiana, dopo gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, è quello della conversione e della vocazione al sacerdozio, due eventi che vanno considerati come un tutt’uno, perché incamminarsi verso il sacerdozio cattolico non sembra essere stato per Lorenzo Milani un passo successivo, di natura diversa rispetto a quello di scegliere il Vangelo e Cristo. Egli, incontrato Cristo, fu preso subito tutto da lui. È ben noto quanto disse al riguardo la sua guida spirituale, don Raffaele Bensi: «Incontrare Cristo, incaponirsi, derubarlo, mangiarlo, fu tutt’uno sino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo; partì subito per l’assoluto senza vie di mezzo, voleva salvarsi e salvare ad ogni costo, trasparente e duro come il diamante doveva subito ferirsi e ferire. E così fu». Diventare prete fu per Milani solo dare una forma concreta a questa cessione di sé a Cristo. Questo carattere di totalità contrassegna sempre l’esperienza di don Lorenzo e ne costituisce una chiave imprescindibile di interpretazione, anche della sua intransigenza, a volte persino ruvida.L’altro passaggio nell’itinerario di don Milani è quello degli anni di Calenzano, di cui pure parla Michele Gesualdi nel suo libro, un tempo di cui abbiamo testimonianze vive dagli alunni della scuola popolare a cui lì diede vita e da quella rilettura profetica che egli stesso ne offre in Esperienze pastorali. Sarebbe importante oggi rileggere quel libro alla luce della Evangelii gaudium di Papa Francesco. Sapete quanto mi sia impegnato per togliere il divieto della Congregazione del Sant’Offizio alla pubblicazione e alla diffusione del libro, trovando in Papa Francesco disponibilità pronta e una decisione chiara, che libera da ogni ombra la figura dell’autore e i contenuti del libro, spiegando l’improvvida decisione di allora come legata solo alle circostanze del tempo, con prevalenti responsabilità di ambienti romani – e probabilmente più politici che ecclesiali – piuttosto che fiorentini, dal momento che, in quel frangente specifico, l’agire dal card. Ermenegildo Florit appare ai nostri occhi improvvido più che animato da intenzioni persecutorie. Ma il passo della riabilitazione del libro è ora felicemente compiuto e ritengo che, a questo punto, sia dovere della Chiesa fiorentina riprendere le istanze di fondo di Esperienze pastorali e ripensarle nelle condizioni sociali, culturali ed ecclesiali di oggi.E si giunge al tempo di Barbiana. Sul mio tavolo di studio tengo sempre un ponderoso volume dal titolo La Chiesa fiorentina, cioè l’annuario dell’arcidiocesi del 1970, un testo ricco di notizie storiche su parrocchie e chiese della diocesi, ma anche una preziosa immagine della realtà di questa Chiesa all’inizio degli anni settanta, che non doveva essere troppo diversa di quella dei due decenni precedenti. Leggendo i nomi delle parrocchie del tempo, molte oggi scomparse – quasi la metà -, i dati relativi ai preti a cui erano affidate – il doppio circa degli attuali -, mi colpisce un fatto: di Barbiane, piccole comunità parrocchiali di appena qualche decina di anime, ce n’erano diverse nel nostro circondario (Brentosanico, Casaromana, Casetta di Tiara, Lozzole, Orticaia…), e tutte allora erano fornite del loro parroco.Ma se di Barbiana oggi ne ricordiamo solo una è perché quel prete, don Lorenzo, lì inviato come Priore un po’ perché questo era il tragitto comune dei giovani preti – prima cappellani e poi per qualche anno in una piccolissima e spopolata comunità avanti di passare ad avere in affidamento una parrocchia con almeno qualche centinaio di fedeli -, molto perché c’era da tenere a bada un giovane prete considerato troppo problematico per le abitudini pastorali di allora e lì mantenuto a lungo, anzi fino alla fine, forse anche per qualche regolamento di conti con alcune prese di posizione di quel giovane al tempo del Seminario che lo avevano posto in contrasto con colui che al tempo del confronto sul suo futuro a Calenzano ricopriva proprio il ruolo di Vicario Generale dell’arcidiocesi (vi ha accennato con sobrietà ma con chiarezza don Silvano Nistri in un recente articolo su Toscana Oggi), ebbene è perché quel prete non considerò Barbiana un deserto di confino da cui liberarsi presto, ma la sua terra promessa, il luogo in cui la gente che gli veniva affidata, uno per uno, era un prezioso dono di Dio a cui consacrarsi. Insomma, una questione di fede, molto più che di scelte pastorali. Poi c’è ovviamente anche il nuovo di una pastorale mai osata fino ad allora e difficile da incontrare, almeno nella sua globalità, anche ad oggi: il primato della parola, la promozione della dignità della persona, il pensare il Vangelo come un lievito per la crescita anche sociale (si veda la quarta parte della Evangelii gaudium!). C’è certamente tutto questo, ma prima c’è la fede: credere che l’amore di Dio non può fermarsi a Eboli/Barbiana, che Chiesa è anche un gruppo di contadini con i loro figlioli, ai quali se nessuno pensa li pensa invece Dio e deve perciò pensarli l’uomo di Dio. Ogni vero rinnovamento nella Chiesa inizia dalla fede. Questa è per me la lezione di don Lorenzo Milani: se si fa davvero della fede il caso serio, della propria vita e della vita della gente, ciò comporta serie conseguenze per la Chiesa e per la società, da cui non si può evadere senza infrangere la coerenza della propria coscienza.Giuseppe card. BetoriArcivescovo di Firenze