Una X in alto, sulla lavagna nera. Una riga più in basso, a scorrere da sinistra verso destra come una lunga freccia. E altre frecce più corte, che salivano da punti diversi di quella riga per convergere verso la X. Era lo schema con cui don Giussani spiegava ai suoi ragazzi il cristianesimo. Quelle frecce erano le religioni, i tentativi fatti dagli uomini nel corso della storia per decifrare il Mistero, per conoscere Dio. Tentativi nobilissimi, tutti. Ma incompiuti: la X è troppo più grande della capacità umana. È destinata a restare un’incognita, qualcosa di ultimamente inconoscibile. «A meno che…». E lì tracciava un’altra freccia, in senso contrario: dalla X verso un punto della riga. «A meno che non sia Dio a rivelarsi, in un certo momento della storia: Cristo».Ecco, in fondo la vita di don Luigi Giussani (1922-2005) è stata una continua verifica di questa ipotesi, inaudita e imprevedibile: Dio si è fatto uomo, per farsi incontrare dall’uomo. Ed è stata una verifica non intellettuale, astratta, fatta (solo) di libri e studi, ma condotta attraverso l’esperienza. Perché se Cristo è «un avvenimento, un evento reale nella vita dell’uomo», è soltanto lì che possiamo incontrarlo oggi: nella realtà, nella carne della Chiesa e della «compagnia di uomini» che vivono di Lui.Per Giussani è stato chiaro da subito. Dal «bel giorno» in cui lui, nato a Desio (nella Brianza milanese) ed entrato bambino nel seminario di Venegono, sentì il suo professore di prima liceo leggere l’inizio del Vangelo di Giovanni e spiegarlo così: «Il Verbo si è fatto carne: perciò, la bellezza s’è fatta carne, la bontà s’è fatta carne, la giustizia s’è fatta carne, l’amore, la vita, la verità s’è fatta carne…». Giussani ne rimase toccato, per sempre. «Da quel momento, l’istante non fu più una banalità per me», ha raccontato più volte. Al punto da spendere tutta l’esistenza per conoscere e far conoscere Cristo a chi aveva preso a trattarlo da estraneo, in un mondo in cui le chiese erano ancora piene, ma la fede c’entrava sempre meno con la quotidianità.Quando, negli anni Cinquanta, decise di lasciare una promettente carriera da teologo per entrare nella scuola, volle ripartire proprio da lì: dall’insegnare ai ragazzi non idee e dottrine, ma un metodo. Ovvero, un modo di usare la ragione, di imparare dalla propria esperienza, di prendere sul serio le proprie domande e i propri desideri per verificare «la pertinenza della fede alle esigenze della vita». Ed è una verifica che attraversa tutto: la cultura e la vita sociale, la famiglia e la scuola, il lavoro e gli affetti, la carità e la missione.È questo sguardo pieno, integrale, che è stato capace di attirare, nel tempo, migliaia di uomini e donne di tutto il mondo, partendo dal gruppetto sparuto di ragazzi incontrati sulle scale del Berchet, il liceo della «Milano bene» dove Giussani iniziò a insegnare religione nel 1954. Era il primo nucleo del movimento che nel 1969 diventò Comunione e Liberazione, e che oggi è diffuso in novanta Paesi. Dall’Uganda al Kazakistan, dal Brasile al Giappone, ha dato origine a decine di scuole e opere di carità, realtà culturali e caritative. Ma soprattutto, ha accompagnato – e accompagna – chi vi appartiene nella continua, avventurosa scoperta di come Cristo renda la vita dell’uomo più piena, carica di gusto e significato, lieta. Persino nella sofferenza o nel dolore.Oggi don Giussani, scomparso nel 2005, è servo di Dio. E il centenario della sua nascita cade il 15 ottobre. Proprio nel giorno in cui papa Francesco riceverà in udienza il movimento di CL. Piazza San Pietro sarà piena di gente di tutte le età, arrivata da ogni angolo del mondo. Un popolo, vivo. E il segno di quanto sia vivo il carisma di quel prete brianzolo che, come ricordò l’allora cardinale Joseph Ratzinger nell’omelia per i suoi funerali (resta la sintesi più bella per cogliere lo spessore della vita di Giussani), «è divenuto davvero padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo».