Vita Chiesa
Don Claudio Piccinini, quel «ciclone» benefico da Grosseto alla Bolivia
di Affrico Dondolini
Questa volta non vi presenteremo la veneranda figura di un vecchio sacerdote, che ha dedicato tutta una vita al servizio della comunità di un’umile parrocchia di montagna, o che ha speso tutte le sue energie per star dietro ai ragazzi delle nostre periferie cittadine ed alle loro famiglie. Vogliamo presentarvi invece la figura, altrettanto venerabile, di un prete poco più che cinquantenne che è piombato come un ciclone (ecclesiasticamente però come sacerdote fidei donum) in una delle più disagiate plaghe del pianeta; e in dieci anni ha fatto cose che in genere richiedono una vita intera.
Si tratta di don Claudio Piccinini, presbitero della Chiesa di Grosseto, che nei primi anni ’90 faceva il parroco a Roccastrada, ridente cittadina delle Colline Metallifere dell’Alta Maremma, in un lavoro, duro quanto volete, ma in una realtà socialmente evoluta, economicamente tranquilla, e ben dotata di servizi e di strutture.
Sulla base di una convenzione tra l’allora Vescovo di Grosseto Angelo Scola, oggi Cardinale e Patriarca di Venezia, e l’arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, Julio Terrazas Sandoval, anch’egli oggi Cardinale, don Claudio parte, nell’ottobre 1995, per la parrocchia di S. Maria Rejna de la Paz nella sterminata periferia di una città di circa 1 milione e 600.000 abitanti, molti dei quali immigrati dai villaggi della vicina foresta amazzonica e dalle comunità andine della Sierra.
Ma dire periferia cittadina non significa pensare ai casermoni in cemento armato delle propaggini di Roma o di Milano, ma nemmeno alle «banlieues» di Parigi, di triste e recente notorietà; lì si trattava, e, ahimè!, si tratta tutt’ora, di un’immensa baraccopoli, fatta in gran parte da vecchi vagoni dismessi delle ferrovie boliviane (quelli di legno, se ricordate), dato che il Barrio Guaranachi, dove sorge la parrocchia affidata a don Claudio, è il quartiere ferroviario e «industriale» (si fa per dire…) di Santa Cruz de la Sierra. E qui don Claudio si rimbocca le maniche.
Prima di tutto urge il pensiero per i bambini e i ragazzi, tanti ragazzi!, da accogliere, sfamare, educare, in ambienti idonei e con persone motivate e capaci. Nascono così, ristrutturando vecchie e fatiscenti stamberghe di proprietà dello Stato, il «Nidito S, Lorenzo», per i bambini fino a tre anni, e la «Casa Tutelar» per quelli da 4 a 10 anni. Bambini e ragazzi sottratti all’emarginazione sociale, raccolti nelle strade o tolti alle famiglie disadattate da parte della magistratura boliviana, salvati dal traffico di organi, dallo sfruttamento sessuale e dalla mendicità per le strade cittadine. Il tutto messo in piedi in un Barrio privo di fognature, di acqua corrente, di elettricità, e chi più ne ha più ne metta. Poi ci sono i ragazzi più grandi, quelli che sono già incorsi nei rigori della legge e che hanno qualche conto da pagare alla giustizia. Rinchiusi per lo più in riformatori, in confronto ai quali i nostri sono alberghi svizzeri. Nascono così il centro «Fortaleza» per ragazzi da 12 a 17 anni, ed il centro «Renacer» per le ragazze della stessa età. Accogliendoli in strutture prese in prestito e adeguatamente sistemate, o in edifici sequestrati ai narcotrafficanti, questi adolescenti cominciano così una vita che li educa, li riconcilia con se stessi e con il mondo, li prepara ad un mestiere o ad una professione.
Ma tutto questo non è sufficiente per l’impegno missionario di don Claudio, che, non dimentichiamocelo, tira avanti nel frattempo il ministero parrocchiale per tutti i 30.000 abitanti del Barrio. Pensa così agli ammalati, ai centri sanitari della grande città andina, dove il ricovero è più un rischio che un rimedio. La Provvidenza gli fa incontrare il dottor Mario Maiani, un veterinario di Caldana (altro paesino della Maremma), un uomo ricco di fede e di senso della carità, e, per fortuna, ricco anche di sostanze, che si offre per aiutare don Claudio a dotare il Barrio Guaranachi di un ospedale, fornendolo anche, in concorso con altri generosi ammiratori dell’opera del prete di Roccastrada, delle attrezzature e dei mezzi più moderni. Nasce così l’Ospedale «Selene Maiani», chiamato così in memoria della sorella del benefattore, deceduta in ancor giovane età, mentre si dedicava a Napoli all’educazione dei bambini sordomuti.
Poi don Claudio si ammala, e nel 2005 deve sottoporsi, qui in Italia, ad un complicato intervento chirurgico. Appena rimessosi in piedi, parte nuovamente per la sua Bolivia, ma le forze non l’assistono quanto lui vorrebbe. Così è costretto a non chiedere il rinnovo della convenzione tra la Diocesi di Grosseto e l’Archidiocesi di Santa Cruz de la Sierra, e nel 2006 deve tornare definitivamente Grosseto.
«Non ci sono stati motivi eclatanti o di grande spinta missionaria, ma di rendere effettivo un invito dell’allora Vescovo di Grosseto Angelo Scola ad aprire la diocesi di Grosseto in senso missionario strettamente detto. Dopo l’esperienza, oserei dire “privata”, di altri due miei confratelli come il compianto don Rocco Angelucci e don Vittorio Lauri che tutti ben conosciamo, la nostra Diocesi non si era ancora “lanciata” nel settore missionario, quindi fu un invito atteso e sperato, e che poteva allora essere messo in pratica».
Come fu accolta la sua «missione» dalla Chiesa locale, dai responsabili della società civile, dalla gente del Barrio? Quali furono, con franchezza, le aperture e le diffidenze, le collaborazioni e gli ostacoli, con cui dovette confrontarsi?
«La Missione S. Lorenzo fu ben accolta dalla Chiesa locale di Santa Cruz de la Sierra, perché quella Chiesa aveva già da molto tempo contatti con le Chiese sorelle del cosiddetto “Primo Mondo”, già erano presenti esperienze spagnole, tedesche, francesi… e italiane, specialmente dalla Diocesi di Bergamo, quindi arrivavamo a completare un cammino, un progetto, nonchè un vuoto da colmare, e più che desiderato dalla diocesi sud-americana, quanto dalla nostra diocesi. Così anche la società civile e la comunità parrocchiale aspettavano una presenza nuova e soprattutto con indirizzo di carattere sociale oltre che religioso e spirituale. Ci sono state comunque all’inizio delle piccole diffidenze che si presentano quando si cambia e soprattutto quando un rullo compressore, e non solo dipendente dal mio vecchio peso corporeo, si presenta anche forte della presenza di una comunità più articolata anziché con la semplice presenza di un sacerdote. Ricordo infatti che con me partirono una coppia di sposi con il loro secondo figlio (famiglia Ferrara che attualmente lavora encomiabilmente presso una parrocchia della Diocesi di Firenze), e di una coppia di giovani infermieri di Scarlino. Gli ostacoli sono stati soprattutto con le istituzioni politiche e sociali del governo locale, che con estrema facilità ti assegnava strutture, quasi sempre fatiscenti, e poi si occultava tranquillamente… La cosa si ripete ancora oggi. Poi magari erano sempre pronti con il fucile spianato per rimarcare tuoi eventuali errori».
Quale sostegno poté ricevere nella Diocesi di Grosseto, che la inviava come «fidei donum» ad una Chiesa consorella, in una delle zone più disagiate, economicamente e socialmente, del pianeta? Quali aiuti poté trovare in Italia e altrove?
«La Diocesi di Grosseto è stata sempre presente in un modo o nell’altro nelle scelte e nei progetti della Missione, ma la svolta decisiva e definitiva è avvenuta quando mons. Agostinelli, in occasione del mio 25° di sacerdozio, è venuto a visitare la stessa missione e lì si è verificata una svolta radicale per la missione e per la nostra Diocesi. Gli aiuti sono stati molteplici anche perché mi sono sempre sentito un missionario itinerante… ossia non mi sono fermato solo alla mia realtà locale grossetana, ma ho fatto conoscere le nostre opere, sia parrocchiali che sociali, a tante persone italiane e no, e che a loro volta hanno potuto costatare de visu la realtà partecipando ai nostri progetti come volontari».
Seri motivi di salute l’hanno costretta a non chiedere il rinnovo del suo mandato. A volte, nelle notti insonni, quali sono, tra le tante iniziative intraprese, quelle che l’angustiano di più, perché rimaste incompiute o comunque in una situazione ricca solo di grandi insormontabili difficoltà? Naturalmente con il conforto della fiducia nella Provvidenza Divina.
«Certo, se non si fosse presentato il problema della salute, forse la mia opera come sacerdote sarebbe destinata ancora a quella realtà, che ha ancora bisogno di aiuti e di sostegni, sia di carattere economico che presenziali, da parte della nostra Chiesa. Comunque spero che ugualmente anche a distanza si possa continuare ad aiutare quella Chiesa, che sarà povera economicamente, ma che è ricchissima di valori e di spiritualità. Comunque devo dire che la parrocchia Maria Rejna de la Paz mi manca moltissimo».