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Discorsi nel viaggio in Bulgaria e Macedonia del Nord

Incontro con le Autorità, con la Società civile e con il Corpo Diplomatico (Piazza Atanas Burov – Sofia)

Signor Presidente,Signor Primo Ministro,Illustri Membri del Corpo Diplomatico,Distinte Autorità,Rappresentanti delle varie Confessioni religiose,Cari fratelli e sorelle, Christos vozkrese!

Sono lieto di trovarmi in Bulgaria, luogo d’incontro tra molteplici culture e civiltà, ponte tra l’Europa dell’est e quella del sud, porta aperta sul vicino oriente; una terra in cui affondano antiche radici cristiane, che alimentano la vocazione a favorire l’incontro sia nella regione sia nella comunità internazionale. Qui la diversità, nel rispetto delle specifiche peculiarità, è vista come un’opportunità, una ricchezza, e non come motivo di contrasto.

Saluto cordialmente le Autorità della Repubblica e le ringrazio per l’invito rivoltomi a visitare la Bulgaria. Ringrazio il Signor Presidente per le cortesi espressioni che mi ha indirizzato accogliendomi su questa storica piazza che porta il nome dello statista Atanas Burov, che subì i rigori di un regime che non poteva accettare la libertà di pensiero.

Invio con deferenza il mio saluto a Sua Santità il Patriarca Neofit – che incontrerò tra poco –, ai Metropoliti e ai Vescovi del Santo Sinodo, e a tutti i fedeli della Chiesa Ortodossa Bulgara. Rivolgo un affettuoso saluto ai Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose e a tutti i membri della Chiesa Cattolica, che vengo a confermare nella fede e ad incoraggiare nel loro quotidiano cammino di vita e testimonianza cristiana.

Porgo il mio cordiale saluto ai cristiani delle altre Comunità ecclesiali, ai membri della Comunità ebraica e ai fedeli dell’Islam e riaffermo con voi «la forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Approfittiamo dell’ospitalità che il popolo bulgaro ci offre affinché ogni religione, chiamata a promuovere armonia e concordia, aiuti la crescita di una cultura e di un ambiente permeati dal pieno rispetto per la persona umana e la sua dignità, instaurando vitali collegamenti fra civiltà, sensibilità e tradizioni diverse e rifiutando ogni violenza e coercizione. In tal modo si sconfiggeranno coloro che cercano con ogni mezzo di manipolarla e strumentalizzarla.

La mia visita odierna intende idealmente riallacciarsi a quella compiuta da San Giovanni Paolo II nel maggio 2002 e si svolge nel grato ricordo della presenza a Sofia, per circa un decennio, dell’allora Delegato Apostolico Mons. Angelo Giuseppe Roncalli. Questi portò sempre nel cuore sentimenti di gratitudine e di profonda stima per la vostra Nazione, al punto da affermare che, dovunque si fosse recato, la sua casa vi sarebbe stata sempre aperta, senza bisogno di dire se cattolico o ortodosso, ma solo: fratello di Bulgaria (cfr Omelia, 25 dicembre 1934). San Giovanni XXIII lavorò instancabilmente per promuovere la fraterna collaborazione tra tutti i cristiani e con il Concilio Vaticano II, da lui convocato e presieduto nella sua prima fase, diede grande impulso e incisività allo sviluppo dei rapporti ecumenici.

È sulla scia di questi provvidenziali avvenimenti che, a partire dal 1968 – dunque da ormai cinquant’anni – una Delegazione ufficiale bulgara, composta dalle più alte Autorità civili ed ecclesiastiche, compie ogni anno una visita in Vaticano in occasione della festa dei Santi Cirillo e Metodio. Essi evangelizzarono i popoli slavi e furono all’origine dello sviluppo della loro lingua e cultura e soprattutto di abbondanti e duraturi frutti di testimonianza cristiana e di santità.

Siano benedetti i Santi Cirillo e Metodio, compatroni d’Europa, che con le loro preghiere, il loro ingegno e la loro concorde fatica apostolica ci sono di esempio e rimangono, a distanza di più di un millennio, ispiratori di dialogo fecondo, di armonia, di incontro fraterno tra le Chiese, gli Stati e i popoli! Possa il loro fulgido esempio suscitare numerosi imitatori anche ai nostri giorni e far sorgere nuovi percorsi di pace e di concordia!

Ora, in questo frangente storico, a trent’anni dalla fine del regime totalitario che ne imprigionava la libertà e le iniziative, la Bulgaria si trova ad affrontare le conseguenze dell’emigrazione, avvenuta negli ultimi decenni, di più di due milioni di suoi concittadini alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Nel medesimo tempo la Bulgaria – come tanti altri Paesi del vecchio continente – deve fare i conti con quello che può essere considerato come un nuovo inverno: quello demografico, che è sceso come una cortina di gelo su tanta parte dell’Europa, conseguenza di una diminuzione di fiducia verso il futuro. Il calo delle nascite, dunque, sommandosi all’intenso flusso migratorio, ha comportato lo spopolamento e l’abbandono di tanti villaggi e città. Inoltre, la Bulgaria si trova a confrontarsi con il fenomeno di coloro che cercano di fare ingresso all’interno dei suoi confini, per sfuggire a guerre e conflitti o alla miseria, e tentano di raggiungere in ogni modo le aree più ricche del continente europeo, per trovare nuove opportunità di esistenza o semplicemente un rifugio sicuro.

Signor Presidente,

conosco l’impegno con cui i governanti di questo Paese, da anni, si sforzano di creare le condizioni affinché, soprattutto i giovani, non siano costretti a emigrare. Vorrei incoraggiarvi a continuare su questa strada, a compiere ogni sforzo per promuovere condizioni favorevoli affinché i giovani possano investire le loro fresche energie e programmare il loro futuro personale e familiare, trovando in patria condizioni che permettano una vita degna. E a voi, che conoscete il dramma dell’emigrazione, mi permetto di suggerire di non chiudere gli occhi, il cuore e la mano – come è nella vostra tradizione – a chi bussa alle vostre porte.

Il vostro Paese si è sempre distinto come un ponte fra est e ovest, capace di favorire l’incontro tra culture, etnie, civiltà e religioni differenti, che da secoli hanno qui convissuto in pace. Lo sviluppo, anche economico e civile, della Bulgaria passa necessariamente attraverso il riconoscimento e la valorizzazione di questa sua specifica caratteristica. Possa questa terra, delimitata dal grande fiume Danubio e dalle sponde del mar Nero, resa fertile dall’umile lavoro di tante generazioni e aperta agli scambi culturali e commerciali, integrata nell’Unione Europea e dai solidi legami con Russia e Turchia, offrire ai suoi figli un futuro di speranza.

Dio benedica la Bulgaria, la conservi pacifica e accogliente e la renda prospera e felice!

Visita al Patriarca e a al Santo Sinodo (Palazzo del Santo Sinodo – 5 maggio)

Santità, venerati Metropoliti e Vescovi, cari fratelli,

Christos vozkrese!

Nella gioia del Signore risorto vi rivolgo il saluto pasquale in questa domenica, che nell’Oriente cristiano è chiamata “domenica di San Tommaso”. Contempliamo l’Apostolo che mette la mano nel costato del Signore e, toccate le sue ferite, confessa: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Le ferite che lungo la storia si sono aperte tra noi cristiani sono lacerazioni dolorose inferte al Corpo di Cristo che è la Chiesa. Ancora oggi ne tocchiamo con mano le conseguenze. Ma forse, se mettiamo insieme la mano in queste ferite e confessiamo che Gesù è risorto, e lo proclamiamo nostro Signore e nostro Dio, se nel riconoscere le nostre mancanze ci immergiamo nelle sue ferite d’amore, possiamo ritrovare la gioia del perdono e pregustare il giorno in cui, con l’aiuto di Dio, potremo celebrare allo stesso altare il mistero pasquale.

In questo cammino siamo sostenuti da tanti fratelli e sorelle, ai quali anzitutto vorrei rendere omaggio: sono i testimoni della Pasqua. Quanti cristiani in questo Paese hanno patito sofferenze per il nome di Gesù, in particolare durante la persecuzione del secolo scorso! L’ecumenismo del sangue! Essi hanno diffuso un profumo soave nella “Terra delle rose”. Sono passati attraverso le spine della prova per spandere la fragranza del Vangelo. Sono sbocciati in un terreno fertile e ben lavorato, in un popolo ricco di fede e genuina umanità, che ha dato loro radici robuste e profonde: penso, in particolare, al monachesimo, che di generazione in generazione ha nutrito la fede della gente. Credo che questi testimoni della Pasqua, fratelli e sorelle di diverse confessioni uniti in Cielo dalla carità divina, ora guardino a noi come a semi piantati in terra per dare frutto. E mentre tanti altri fratelli e sorelle nel mondo continuano a soffrire a causa della fede, chiedono a noi di non rimanere chiusi, ma di aprirci, perché solo così i semi portano frutto.

Santità, questo incontro, che ho tanto desiderato, succede a quello di San Giovanni Paolo II col Patriarca Maxim, durante la prima visita di un Vescovo di Roma in Bulgaria, e segue le orme di San Giovanni XXIII, che negli anni qui trascorsi tanto si affezionò a questo popolo «semplice e buono» (Giornale dell’anima, Bologna 1987, 325), apprezzandone l’onestà, la laboriosità e la dignità nelle prove. Mi trovo anch’io qui, ospite accolto con affetto, e provo nel cuore la nostalgia del fratello, quella salutare nostalgia per l’unità tra i figli dello stesso Padre, che Papa Giovanni ebbe certamente modo di maturare in questa città. Proprio durante il Concilio Vaticano II, da lui indetto, la Chiesa ortodossa bulgara inviò i propri osservatori. Da allora i contatti si sono moltiplicati. Penso alle visite di delegazioni bulgare, che da cinquant’anni si recano in Vaticano e che ogni anno ho la gioia di accogliere; nonché alla presenza a Roma di una comunità ortodossa bulgara, che prega in una chiesa della mia diocesi. Mi rallegrano la squisita accoglienza qui riservata ai miei inviati, la cui presenza si è intensificata negli ultimi anni, e la collaborazione con la comunità cattolica locale, soprattutto in ambito culturale. Sono fiducioso che, con l’aiuto di Dio e nei tempi che la Provvidenza disporrà, tali contatti potranno incidere positivamente su tanti altri aspetti del nostro dialogo. Intanto siamo chiamati a camminare e fare insieme per dare testimonianza al Signore, in particolare servendo i fratelli più poveri e dimenticati, nei quali Egli è presente. L’ecumenismo del povero.

A orientarci nel cammino sono soprattutto i santi Cirillo e Metodio, che ci hanno legati sin dal primo millennio e la cui memoria viva nelle nostre Chiese rimane come fonte di ispirazione, perché, nonostante le avversità, essi misero al primo posto l’annuncio del Signore, la chiamata alla missione. Come disse San Cirillo: «Con gioia io parto per la fede cristiana; per quanto stanco e fisicamente provato, io andrò con gioia» (Vita Constantini VI,7; XIV,9). E mentre si presagivano i segni premonitori delle dolorose divisioni che sarebbero avvenute nei secoli successivi, scelsero la prospettiva della comunione. Missione e comunione: due parole sempre declinate nella vita dei due Santi e che possono illuminare il nostro cammino per crescere in fraternità. L’ecumenismo della missione.

Cirillo e Metodio, bizantini di cultura, ebbero l’audacia di tradurre la Bibbia in una lingua accessibile ai popoli slavi, così che la Parola divina precedesse le parole umane. Il loro coraggioso apostolato rimane per tutti un modello di evangelizzazione. Un campo che ci interpella nell’annuncio è quello delle giovani generazioni. Quant’è importante, nel rispetto delle rispettive tradizioni e peculiarità, aiutarci e trovare modi per trasmettere la fede secondo linguaggi e forme che permettano ai giovani di sperimentare la gioia di un Dio che li ama e li chiama! Altrimenti saranno tentati di prestare fiducia alle tante sirene ingannevoli della società dei consumi.

Comunione e missione, vicinanza e annuncio, i Santi Cirillo e Metodio hanno molto da dirci anche per quanto riguarda l’avvenire della società europea. Infatti «sono stati in un certo senso i promotori di un’Europa unita e di una pace profonda fra tutti gli abitanti del continente, mostrando le fondamenta di una nuova arte di vivere insieme, nel rispetto delle differenze, che non sono assolutamente un ostacolo all’unità» (S. Giovanni Paolo II, Saluto alla Delegazione ufficiale della Bulgaria, 24 maggio 1999Insegnamenti XXII,1 [1999], 1080). Anche noi, eredi della fede dei Santi, siamo chiamati ad essere artefici di comunione, strumenti di pace nel nome di Gesù. In Bulgaria, «crocevia spirituale, terra di incontro e di reciproca comprensione» (Id., Discorso durante la Cerimonia di benvenuto, Sofia, 23 maggio 2002Insegnamenti XXV,1 [2002], 864), hanno trovato accoglienza varie confessioni, da quella armena a quella evangelica, e diverse espressioni religiose, da quella ebraica a quella musulmana. Incontra accoglienza e rispetto la Chiesa Cattolica, sia nella tradizione latina che in quella bizantino-slava. Sono grato a Vostra Santità e al Santo Sinodo per tale benevolenza. Anche nei nostri rapporti, i Santi Cirillo e Metodio ci ricordano che «una certa diversità di usi e consuetudini non si oppone minimamente all’unità della Chiesa» e che tra Oriente e Occidente «varie formule teologiche non di rado si completano, piuttosto che opporsi» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Unitatis redintegratio, 16-17). «Quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri!» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 246).

Santità, tra poco avrò la possibilità di entrare nella Cattedrale Patriarcale di Sant’Aleksander Nevskij per sostare in preghiera nel ricordo dei Santi Cirillo e Metodio. Sant’Aleksander Nevskij, della tradizione russa, e i Santi fratelli, provenienti dalla tradizione greca e apostoli dei popoli slavi, rivelano quanto la Bulgaria sia un Paese-ponte. Santità, cari Fratelli, assicuro la mia preghiera per voi, per i fedeli di questo amato popolo, per l’alta vocazione di questo Paese, per il nostro cammino in un ecumenismo del sangue, del povero e della missione. A mia volta domando un posto nelle vostre orazioni, nella certezza che la preghiera è la porta che dischiude ogni via di bene. Desidero rinnovare il ringraziamento per l’accoglienza ricevuta e assicurarvi che porterò nel cuore il ricordo di questo incontro fraterno.

Christos vozkrese!

Regina caeli (Piazza di San Alexander Nevsky, Sofia – 5 maggio)

Cari fratelli e sorelle, “Cristo è risorto!”

Con queste parole, dai tempi antichi, in queste terre di Bulgaria i cristiani – ortodossi e cattolici – si scambiano gli auguri nel tempo di Pasqua: Christos vozkrese! [la folla risponde] Esse esprimono la grande gioia per la vittoria di Gesù Cristo sul male, sulla morte. Sono un’affermazione e una testimonianza del cuore della nostra fede: Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo. Tutto ciò che Lui tocca diventa nuovo, si riempie di vita. Perciò, le prime parole che voglio rivolgere a ciascuno di voi sono: Lui vive e ti vuole vivo! Lui è in te, Lui è con te e non ti lascia mai. Lui cammina con te. Per quanto tu ti possa allontanare, accanto a te c’è il Risorto, che continuamente ti chiama, ti aspetta per ricominciare. Lui non ha mai paura di ricominciare: sempre ci dà la mano per rincominciare, per alzarci e rincominciare. Quando ti senti vecchio per la tristezza – la tristezza invecchia –, i rancori, le paure, i dubbi e i fallimenti, Lui sarà lì per ridarti forza e speranza (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 1-2). Lui vive, ti vuole vivo e cammina con te.

Questa fede in Cristo risorto viene proclamata da duemila anni in ogni angolo della terra, attraverso la missione generosa di tanti credenti, che sono chiamati a dare tutto per l’annuncio evangelico, senza tenere nulla per sé. Nella storia della Chiesa, anche qui in Bulgaria, ci sono stati Pastori che si sono distinti per santità della vita. Tra essi mi piace ricordare il mio predecessore, che voi chiamate “il santo bulgaro”, San Giovanni XXIII, un santo pastore, la cui memoria è particolarmente viva in questa terra, dove egli ha vissuto dal 1925 al 1934. Qui ha imparato ad apprezzare la tradizione della Chiesa Orientale, instaurando rapporti di amicizia con le altre Confessioni religiose. La sua esperienza diplomatica e pastorale in Bulgaria lasciò un’impronta così forte nel suo cuore di pastore da condurlo a favorire nella Chiesa la prospettiva del dialogo ecumenico, che ebbe un notevole impulso nel Concilio Vaticano II, voluto proprio da Papa Roncalli. In un certo senso, dobbiamo ringraziare questa terra per l’intuizione saggia e ispiratrice del “Papa buono”.

Nel solco di questo cammino ecumenico, fra poco avrò la gioia di salutare gli esponenti delle varie Confessioni religiose della Bulgaria, che, pur essendo un Paese ortodosso, è un crocevia in cui si incontrano e dialogano varie espressioni religiose. La gradita presenza a questo incontro dei Rappresentanti di queste diverse Comunità indica il desiderio di tutti di percorrere il cammino, ogni giorno più necessario, «di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019).

Ci troviamo vicino all’antica chiesa di Santa Sofia, e accanto alla chiesa Patriarcale di San Aleksander Nevskij, dove, in precedenza, ho pregato nel ricordo dei Santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi. Nel desiderio di manifestare stima e affetto a questa venerata Chiesa ortodossa di Bulgaria, ho avuto la gioia di salutare e abbracciare, in precedenza, il mio Fratello Sua Santità Neofit, Patriarca, come pure i Metropoliti del Santo Sinodo.

Ci rivolgiamo ora alla Beata Vergine Maria, Regina del cielo e della terra, perché interceda presso il Signore Risorto, affinché doni a questa amata terra l’impulso sempre necessario di essere terra di incontro, nella quale, al di là delle differenze culturali, religiose o etniche, possiate continuare a riconoscervi e stimarvi come figli di uno stesso Padre. La nostra invocazione si esprime con il canto dell’antica preghiera del Regina Caeli. Lo facciamo qui, a Sofia, davanti all’icona della Madonna di Nesebar, che significa “Porta del cielo”, tanto cara al mio predecessore San Giovanni XXIII, che ha cominciato a venerarla qui, in Bulgaria, e l’ha portata con sé fino alla morte.

[Canto del Regina caeli]

Gaude et laetare, Virgo Maria, alleluia.[Quia surrexit Dominus vere, alleluia] Oremus.Deus, qui per resurrectionem Filii tui Domini nostri Iesu Christi mundum laetificare dignatus es, praesta, quǽsumus, ut per eius Genetricem Virginem Mariam perpetuae capiamus gaudia vitae. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Benedizione]

Omelia nella Santa Messa  (Piazza Knyaz Alexander I  – Sofia, 5 maggio)

Cari fratelli e sorelle, Cristo è risorto! Christos vozkrese!

È meraviglioso il saluto con il quale i cristiani nel vostro Paese si scambiano la gioia del Risorto in questo tempo pasquale.

Tutto l’episodio che abbiamo ascoltato, narrato alla fine dei Vangeli, ci permette di immergerci in questa gioia che il Signore ci invita a “contagiare” ricordandoci tre realtà stupende che segnano la nostra vita di discepoli: Dio chiama, Dio sorprende, Dio ama.

Dio chiama. Tutto avviene sulle rive del lago di Galilea, là dove Gesù aveva chiamato Pietro. Lo aveva chiamato a lasciare il mestiere di pescatore per diventare pescatore di uomini (cfr Lc 5,4-11). Ora, dopo tutto il cammino, dopo l’esperienza di veder morire il Maestro e nonostante l’annuncio della sua risurrezione, Pietro torna alla vita di prima: «Io vado a pescare», dice. E gli altri discepoli non sono da meno: «Veniamo anche noi con te» (Gv 21,3). Sembrano fare un passo indietro; Pietro riprende in mano le reti a cui aveva rinunciato per Gesù. Il peso della sofferenza, della delusione, perfino del tradimento era diventato una pietra difficile da rimuovere nel cuore dei discepoli; erano ancora feriti sotto il peso del dolore e della colpa e la buona notizia della Risurrezione non aveva messo radici nel loro cuore. Il Signore sa quanto è forte per noi la tentazione di tornare alle cose di prima. Le reti di Pietro, come le cipolle d’Egitto, sono nella Bibbia simbolo della tentazione della nostalgia del passato, di voler indietro qualcosa di quanto si era voluto lasciare. Davanti alle esperienze di fallimento, di dolore e persino del fatto che le cose non risultino come si sperava, appare sempre una sottile e pericolosa tentazione che invita allo scoraggiamento e a lasciarsi cadere le braccia. È la psicologia del sepolcro che tinge tutto di rassegnazione, facendoci affezionare a una tristezza dolciastra che come una tarma corrode ogni speranza. Così si sviluppa la più grande minaccia che può radicarsi in seno a una comunità: il grigio pragmatismo della vita, nella quale apparentemente tutto procede con normalità, ma in realtà la fede si va esaurendo e degenerando in meschinità (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 83).

Ma proprio lì, nel fallimento di Pietro, arriva Gesù, ricomincia da capo e con pazienza esce ad incontrarlo e gli dice «Simone» (v. 15): era il nome della prima chiamata. Il Signore non aspetta situazioni o stati d’animo ideali, li crea. Non aspetta di incontrarsi con persone senza problemi, senza delusioni, senza peccati o limitazioni. Egli stesso ha affrontato il peccato e la delusione per andare incontro ad ogni vivente e invitarlo a camminare. Fratelli, il Signore non si stanca di chiamare. È la forza dell’Amore che ha ribaltato ogni pronostico e sa ricominciare. In Gesù, Dio cerca di dare sempre una possibilità. Fa così anche con noi: ci chiama ogni giorno a rivivere la nostra storia d’amore con Lui, a rifondarci nella novità che è Lui. Tutte le mattine, ci cerca lì dove siamo e ci invita «ad alzarci, a risorgere sulla sua Parola, a guardare in alto e credere che siamo fatti per il Cielo, non per la terra; per le altezze della vita, non per le bassezze della morte», e ci invita a non cercare «tra i morti Colui che è vivo» (Omelia nella Veglia Pasquale, 20 aprile 2019). Quando lo accogliamo, saliamo più in alto, abbracciamo il nostro futuro più bello non come una possibilità ma come una realtà. Quando è la chiamata di Gesù a orientare la vita, il cuore ringiovanisce.

Dio sorprende. È il Signore delle sorprese che invita non solo a sorprendersi, ma a realizzare cose sorprendenti. Il Signore chiama e, incontrando i discepoli con le reti vuote, propone loro qualcosa di insolito: pescare di giorno, cosa piuttosto strana su quel lago. Ridà loro fiducia mettendoli in movimento e spingendoli di nuovo a rischiare, a non dare nulla e specialmente nessuno per perso. È il Signore della sorpresa che rompe le chiusure paralizzanti restituendo l’audacia capace di superare il sospetto, la sfiducia e il timore che si nasconde dietro il “si è sempre fatto così”. Dio sorprende quando chiama e invita a gettare non solo le reti, ma noi stessi al largo nella storia e a guardare la vita, a guardare gli altri e anche noi stessi con i suoi stessi occhi che «nel peccato, vede figli da rialzare; nella morte, fratelli da risuscitare; nella desolazione, cuori da consolare. Non temere, dunque: il Signore ama questa tua vita, anche quando hai paura di guardarla e prenderla in mano» (ibid.).

Giungiamo così alla terza certezza di oggi. Dio chiama, Dio sorprende perché Dio ama. L’amore è il suo linguaggio. Perciò chiede a Pietro e a noi di sintonizzarsi sulla stessa lingua: «Mi ami?». Pietro accoglie l’invito e, dopo tanto tempo passato con Gesù, capisce che amare vuol dire smettere di stare al centro. Adesso non parte più da sé, ma da Gesù: «Tu conosci tutto» (Gv 21,18), risponde. Si riconosce fragile, capisce che non può andare avanti solo con le sue forze. E si fonda sul Signore, sulla forza del suo amore, fino alla fine. Questa è la nostra forza che ogni giorno siamo invitati a rinnovare: il Signore ci ama. Essere cristiano è una chiamata ad avere fiducia che l’Amore di Dio è più grande di ogni limite o peccato. Uno dei grandi dolori e ostacoli che sperimentiamo oggi non nasce tanto nel comprendere che Dio sia amore, ma nel fatto che siamo arrivati ad annunciarlo e testimoniarlo in modo tale che per molti questo non è il suo nome. Dio è amore, un amore che si dona, chiama e sorprende.

Ecco il miracolo di Dio, che fa delle nostre vite opere d’arte se ci lasciamo guidare dal suo amore. Tanti testimoni della Pasqua in questa terra benedetta hanno realizzato capolavori magnifici, ispirati da una fede semplice e da un amore grande. Offrendo la vita, sono stati segni viventi del Signore, sapendo superare con coraggio l’apatia e offrendo una risposta cristiana alle preoccupazioni che si presentavano loro (cfr Esort. ap. pstsin. Christus vivit, 174). Oggi siamo invitati a guardare e scoprire quello che il Signore ha fatto nel passato per lanciarci con Lui verso il futuro, sapendo che, nel successo e negli errori, tornerà sempre a chiamarci per invitarci a gettare le reti. Quello che ho detto ai giovani nell’Esortazione che recentemente ho scritto, desidero dirlo anche a voi. Una Chiesa giovane, una persona giovane, non per l’età ma per la forza dello Spirito, ci invita a testimoniare l’amore di Cristo, un amore che incalza e ci porta ad essere pronti a lottare per il bene comune, servitori dei poveri, protagonisti della rivoluzione della carità e del servizio, capaci di resistere alle patologie dell’individualismo consumista e superficiale. Innamorati di Cristo, testimoni vivi del Vangelo in ogni angolo di questa città (cfr ibid., 174-175). Non abbiate paura di essere i santi di cui questa terra ha bisogno, una santità che non vi toglierà forza, non vi toglierà vita o gioia; anzi, proprio al contrario, perché giungerete voi e i figli di questa terra ad essere quello che il Padre sognò quando vi creò (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 32).

Chiamati, sorpresi e inviati per amore!

Visita al Centro Profughi «Vrazhdebna» di Sofia (6 maggio)

Grazie tante per la vostra accoglienza. Grazie ai bambini, per il loro canto tanto bello. Loro portano gioia nel vostro cammino. Il vostro cammino è non sempre bello, e poi c’è il dolore di lasciare la patria e cercare di inserirsi in un’altra patria… C’è sempre la speranza… Oggi il mondo dei migranti e rifugiati è un po’ una croce, una croce dell’umanità, è la croce che tanta gente soffre… Io ringrazio voi, la vostra buona volontà, e auguro il meglio a voi e a vostri concittadini che avete lasciato nella vostra patria. Che Dio vi benedica e pregate per me.

Omelia nella Santa Messa con le prime Comunioni nella chiesa del Sacro Cuore di Rakovsky (6 maggio)

Cari fratelli e sorelle, Christos vozkrese!

Sono felice di salutare i bambini e le bambine della Prima Comunione, come pure i loro genitori, parenti e amici. A tutti voi rivolgo il bel saluto augurale che si usa anche nel vostro Paese in questo tempo pasquale: «Christos vozkrese!Questo saluto è l’espressione della gioia di noi cristiani, discepoli di Gesù, perché Lui, che ha dato la vita per amore sulla croce per distruggere il peccato, è risorto e ci ha resi figli adottivi di Dio Padre. Siamo contenti perché Egli è vivo e presente tra noi oggi e sempre.

Voi, cari bambini e care bambine, siete venuti qui da ogni angolo di questa “Terra delle rose” per partecipare a una festa meravigliosa, che sono sicuro non dimenticherete mai: il vostro primo incontro con Gesù nel sacramento dell’Eucaristia. Qualcuno di voi potrebbe chiedermi: ma come possiamo incontrare Gesù, che è vissuto tanti anni fa e poi è morto ed è stato messo nella tomba? È vero: Gesù ha fatto un atto immenso di amore per salvare l’umanità di tutti i tempi. È rimasto nella tomba tre giorni, ma noi sappiamo – ce lo hanno assicurato gli Apostoli e molti altri testimoni che lo hanno visto – che Dio Padre suo e Padre e nostro, lo ha risuscitato. E ora Gesù è vivo, è qui con noi, perciò oggi lo possiamo incontrare nell’Eucaristia. Non lo vediamo con questi occhi, ma lo vediamo con gli occhi della fede.

Vi vedo qui vestiti con le tuniche bianche: questo è un segno importante e bello, perché siete vestiti a festa. La Prima Comunione è innanzi tutto una festa, in cui celebriamo Gesù che ha voluto rimanere sempre al nostro fianco e che non si separerà mai da noi. Festa che è stata possibile grazie ai nostri padri, ai nostri nonni, alle nostre famiglie, alle nostre comunità che ci hanno aiutato a crescere nella fede.

Per venire qui, a questa citta di Rakovski, avete fatto una lunga strada. I vostri sacerdoti e catechisti, che hanno seguito il vostro percorso di catechesi,vi hanno accompagnato anche nella strada che vi porta oggi a incontrare Gesù e a riceverlo nel vostro cuore. Egli, come abbiamo ascoltato nel Vangelo (cfr Gv 6,1-15), un giorno ha moltiplicato miracolosamente cinque pani e due pesci, saziando la fame della folla che lo aveva seguito e ascoltato. Vi siete accorti di come è incominciato il miracolo? Dalle mani di un bambino che ha portato quello che aveva: cinque pani e due pesci (cfr Gv 6,9). Allo stesso modo in cui voi oggi aiutate il compiersi del miracolo di far ricordare a tutti noi grandi qui presenti il primo incontro che abbiamo avuto con Gesù nell’Eucaristia e poter ringraziare per quel giorno. Oggi ci permettete di essere nuovamente in festa e celebrare Gesù che è presente nel Pane della Vita. Perché ci sono miracoli che possono accadere solo se abbiamo un cuore come il vostro, capace di condividere, di sognare, di ringraziare, di avere fiducia e di onorare gli altri. Fare la Prima Comunione significa voler essere ogni giorno più uniti a Gesù, crescere nell’amicizia con Lui e desiderare che anche altri possano godere la gioia che ci vuole donare. Il Signore ha bisogno di voi per poter realizzare il miracolo di raggiungere con la sua gioia molti dei vostri amici e familiari.

Cari bambini, care bambine, sono contento di condividere con voi questo grande momento e di aiutarvi a incontrare Gesù. State vivendo davvero una giornata in spirito di amicizia, spirito di gioia e fraternità, spirito di comunione tra di voi e con tutta la Chiesa che, specialmente nell’Eucaristia, esprime la comunione fraterna tra tutti i suoi membri. La nostra carta di identità e questa: Dio è nostro Padre, Gesù è nostro Fratello, la Chiesa è la nostra famiglia, noi siamo fratelli, la nostra legge è l’amore.

Desidero incoraggiarvi a pregare sempre con quell’entusiasmo e quella gioia che avete oggi. E ricordate che questo è il sacramento della Prima Comunione ma non dell’ultima Comunione. Oggi ricordatevi che Gesù vi aspetta sempre. Perciò, vi auguro che oggi sia l’inizio di molte Comunioni, perché il vostro cuore sia sempre come oggi, in festa, pieno di gioia e soprattutto gratitudine.

A questo punto il Santo Padre ha aggiunto un colloquio “a braccio” con i bambini, avvalendosi della presenza del traduttore in lingua bulgara

Papa Francesco: Cari bambini e care bambine, vi do il benvenuto! Sono contento di vedervi qui per fare la Prima Comunione. Vi farò una domanda: siete contenti voi di fare la Prima Comunione?

Bambini: Sì!

Papa Francesco: Sicuro?

Bambini: Sì!

Papa Francesco: E perché siete contenti? Perché viene Gesù! Diciamo insieme: “Sono contento perché viene Gesù”.

Bambini: Sono contento perché viene Gesù!

Papa Francesco: E voi, tutti uniti qui per ricevere Gesù – vi faccio una domanda – voi siete la stessa famiglia?

Bambini: Sì!

Papa Francesco: E come si chiama la nostra famiglia?

Bambini: La Chiesa.

Papa Francesco: Il nostro cognome è: cristiano.

Bambini: Sì!

Papa Francesco: Com’è il nostro cognome?

Bambini: Cristiano.

Papa Francesco: Va bene. Io nell’omelia ho detto una cosa che vorrei che voi ricordiate sempre. Ho parlato della “carta d’identità” del cristiano e ho detto questo: «La nostra carta d’identità è questa: Dio è nostro Padre, Gesù è nostro fratello, la Chiesa è la nostra famiglia, noi siamo fratelli, la nostra legge è l’amore». Adesso ripetiamo insieme. Io dirò di nuovo, il traduttore ripeterà e ripetiamo insieme. Dio è nostro Padre.

Bambini: Dio è nostro Padre.

Papa Francesco: Gesù è nostro fratello.

Bambini: Gesù è nostro fratello.

Papa Francesco: La Chiesa è nostra madre è nostra famiglia.

Bambini: La Chiesa è nostra madre è nostra famiglia.

Papa Francesco: Noi siamo nemici…

Bambini: Noi siamo…

Papa Francesco: È vero? Siamo nemici noi?

Bambini: No!

Papa Francesco: Siamo amici! Noi siamo amici. Tutti! Noi siamo fratelli.

Bambini: Noi siamo fratelli.

Papa Francesco: La nostra legge è l’amore. Tutti!

Bambini: La nostra legge è l’amore!

Papa Francesco: Adesso parlerà Gesù ad ognuno di noi. Oggi pregherete Gesù per la vostra famiglia, per i vostri genitori, i vostri nonni, i vostri catechisti, i vostri sacerdoti, i vostri amici. Pregherete Gesù per tutta questa gente?

Bambini: Sì!

Papa Francesco: Benissimo. Adesso continuiamo la Messa e ci prepariamo per ricevere Gesù.

* * *

Prima dell’ “Agnello di Dio” il Santo Padre ha pronunciato questa monizione:

Cari bambini e bambine, adesso riceverete Gesù. Non bisogna distrarsi, pensare ad altre cose, ma soltanto pensare a Gesù. Venite all’altare per ricevere Gesù in silenzio; fate silenzio nel cuore e pensate che è la prima volta che Gesù viene a voi. Poi, verrà tante altre volte. Pensate ai vostri genitori, ai vostri catechisti, ai vostri nonni, ai vostri amici; e se avete litigato con qualcuno, perdonatelo di cuore prima di venire. In silenzio, ci avviciniamo a Gesù.

Al termine della Messa a Rakovski

Cari fratelli e sorelle,

prima di concludere questa celebrazione, desidero ringraziare tutti voi, a partire dai fratelli Vescovi presenti, i sacerdoti, le religiose e i religiosi e le famiglie. Ringrazio di cuore quanti si sono impegnati nella preparazione e organizzazione; e anche quanti non potevano partecipare ma hanno pregato, specialmente i malati e i più anziani.

Colgo questa occasione per esprimere la mia viva riconoscenza alle Autorità del Paese e a tutti coloro che in diversi modi hanno collaborato per la buona riuscita della mia visita.

Incontro con la Comunità cattolica (Chiesa di San Michele Arcangelo a Rakovsky – 6 maggio)

Cari fratelli e sorelle,

Buon pomeriggio! Vi ringrazio per la calorosa accoglienza, per le danze e le testimonianze. Mi dicono che la traduzione è con gli schermi. Va bene così.

Mons. Iovcev mi ha chiesto di aiutarvi – in questa gioia di incontrare il Popolo di Dio con i suoi mille volti e carismi – di aiutarvi a “vedere con occhi di fede e di amore”. Prima di tutto vorrei ringraziarvi perché avete aiutato me a vedere meglio e a comprendere un po’ di più il motivo per cui questa terra è stata tanto amata e significativa per San Giovanni XXIII, dove il Signore stava preparando quello che sarebbe stato un passo importante nel nostro cammino ecclesiale. Tra voi germogliò un’amicizia forte verso i fratelli ortodossi che lo spinse su una strada capace di generare la tanto sospirata e fragile fraternità tra le persone e le comunità.

Vedere con gli occhi della fede. Desidero ricordare le parole del “Papa buono”, che seppe sintonizzare il suo cuore con il Signore in modo tale da poter dire di non essere d’accordo con quelli che intorno a sé vedevano solo male e da chiamarli profeti di sventura. Secondo lui bisognava aver fiducia nella Provvidenza, che ci accompagna continuamente e, in mezzo alle avversità, è capace di realizzare disegni superiori e inaspettati (Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962).

Gli uomini di Dio sono quelli che hanno imparato a vedere, confidare, scoprire e lasciarsi guidare dalla forza della risurrezione. Riconoscono, sì, che esistono situazioni o momenti dolorosi e particolarmente ingiusti, ma non restano con le mani in mano, intimoriti o, peggio, alimentando un clima di incredulità, di malessere o fastidio, perché questo non fa che nuocere all’anima, indebolendo la speranza e impedendo ogni possibile soluzione. Gli uomini e le donne di Dio sono coloro che hanno il coraggio di fare il primo passo – questo è importante: fare il primo passo – e cercano creativamente di porsi in prima linea testimoniando che l’Amore non è morto, ma ha vinto ogni ostacolo. Gli uomini e le donne di Dio si mettono in gioco perché hanno imparato che, in Gesù, Dio stesso si è messo in gioco. Ha messo in gioco la propria carne perché nessuno possa sentirsi solo o abbandonato. E questa è la bellezza della nostra fede: Dio che si mette in gioco facendosi uno di noi.

In questo senso vorrei condividere con voi un’esperienza di poche ore fa. Questa mattina ho avuto la gioia di incontrare, nel campo-profughi di Vrazhdebna, profughi e rifugiati provenienti da vari Paesi del mondo per trovare un contesto di vita migliore di quello che hanno lasciato, e anche, ho incontrato volontari della Caritas. [applauso ai volontari della Caritas, che si alzano in piedi, tutti con una maglietta rossa] Quando sono entrato qui e ho visto i volontari della Caritas, ho domandato chi fossero, perché pensavo fossero i vigili del fuoco! Così rossi! Lì [al Centro di Vrazhdebna] mi dicevano che il cuore del Centro – di questo Centro di rifugiati – nasce dalla consapevolezza che ogni persona è figlia di Dio, indipendentemente dall’etnia o dalla confessione religiosa. Per amare qualcuno non c’è bisogno di chiedergli il curriculum vitae

Ma per acquistare lo sguardo di Dio abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno che ci insegnino a guardare e a sentire come Gesù guarda e sente; che il nostro cuore possa palpitare con i suoi stessi sentimenti. Per questo mi è piaciuto quando Mitko e Miroslava, con il loro piccolo angioletto Bilyana, ci dicevano che per loro la parrocchia è stata sempre la loro seconda casa, il luogo dove trovano sempre, nella preghiera comunitaria e nel sostegno delle persone care, la forza per andare avanti. Una parrocchia ottimista, che aiuta ad a andare avanti.

La parrocchia, in questo modo, si trasforma in una casa in mezzo a tutte le case ed è capace di rendere presente il Signore proprio lì dove ogni famiglia, ogni persona cerca quotidianamente di guadagnarsi il pane. Lì, all’incrocio delle strade, si trova il Signore, il quale non ha voluto salvarci con un decreto, ma è entrato e vuole entrare nel più intimo delle nostre famiglie e dire a noi, come ai discepoli: “Pace a voi!”. È bello il saluto del Signore: “Pace a voi!”. Dove c’è la tempesta, dove c’è il buio, dove c’è il dubbio, dove c’è l’angoscia, il Signore dice: “Pace a voi!”. E non solo lo dice: fa la pace.

Sono contento di sapere che trovate buona questa “massima” che mi piace condividere con i coniugi: “Mai andare a letto arrabbiati, nemmeno una notte” (e, per quanto posso vedere, con voi funziona). È una massima che può servire anche per tutti  i cristiani. A me piace dire alle coppie di non litigare, ma se litigano, non c’è problema, perché è normale arrabbiarsi. È normale. E a volte litigare un po’ forte – qualche volta volano i piatti –, ma non c’è problema: arrabbiarsi a patto che si faccia la pace prima che finisca la giornata. Mai finire la giornata in guerra. A tutti voi sposi: mai finire la giornata in guerra. E sapete perché? Perché la “guerra fredda” del giorno dopo è molto pericolosa. “E, padre, come si può fare la pace? Dove posso imparare i discorsi per fare la pace?”. Fai così [fa il gesto di una carezza]: un gesto ed è fatta la pace. Soltanto un gesto di amore. Capito? Questo per le coppie. È vero che, come anche voi avete raccontato, si passa attraverso diverse prove; per questo è necessario stare attenti perché mai la rabbia, il rancore o l’amarezza si impossessino del cuore. E in questo ci dobbiamo aiutare, aver cura gli uni degli altri affinché non si spenga la fiamma che lo Spirito ha acceso nel nostro cuore.

Voi riconoscete, e ne siete grati, che i vostri sacerdoti e le vostre suore si prendono cura di voi. Sono bravi! Un applauso a loro. Ma quando vi ascoltavo mi ha colpito quel sacerdote che condivideva non quanto lui fosse stato bravo durante questi anni di ministero, ma ha parlato delle persone che Dio ha messo accanto a lui per aiutarlo a diventare un bravo ministro di Dio. E queste persone siete voi.

Il Popolo di Dio ringrazia il suo pastore e il pastore riconosce che impara ad essere credente – attenti a questo: impara ad essere credente – con l’aiuto della sua gente, della sua famiglia e in mezzo a loro. Quando un sacerdote o una persona consacrata, anche un vescovo come me, si allontana dal Popolo di Dio, il cuore si raffredda e perde quella capacità di credere come il Popolo di Dio. Per questo mi piace questa affermazione: il Popolo di Dio aiuta i consacrati – siano essi sacerdoti, vescovi o suore – ad essere credenti. Il Popolo di Dio è una comunità viva che sostiene, accompagna, integra e arricchisce. Mai separati, ma uniti, ciascuno impara ad essere segno e benedizione di Dio per gli altri. Il sacerdote senza il suo popolo perde identità e il popolo senza i suoi pastori può frammentarsi. L’unità del pastore che sostiene e lotta per il suo popolo e il popolo che sostiene e lotta per il suo pastore. Questo è grande! Ognuno dedica la propria vita agli altri. Nessuno può vivere solo per sé, viviamo per gli altri. E questo lo diceva San Paolo in una delle sue lettere: “Nessuno vive per sé”. “Padre, io conosco una persona che vive per sé”. E quella persona è felice? È capace di dare la vita agli altri? È capace di sorridere? Sono le persone egoiste. È il popolo sacerdotale che con il sacerdote è in grado di dire: «Questo è il mio corpo offerto per voi». Questo è il Popolo di Dio unito al sacerdote. Così impariamo ad essere una Chiesa-famiglia-comunità che accoglie, ascolta, accompagna, si preoccupa degli altri rivelando il suo vero volto, che è volto di madre. La Chiesa è madre. Chiesa-madre che vive e fa suoi i problemi dei figli, non offrendo risposte preconfezionate. No. Le mamme, quando devono rispondere alla realtà dei figli dicono quello che viene loro in mente in quel momento. Le mamme non hanno risposte preconfezionate: rispondono con il cuore, con il cuore di madre. Così la Chiesa, questa Chiesa che è fatta da tutti noi, popolo e sacerdoti insieme, vescovi, consacrati, tutti insieme, cerca insieme strade di vita, strade di riconciliazione; cerca di rendere presente il Regno di Dio. Chiesa-famiglia-comunità che prende in mano i nodi della vita, che spesso sono grossi gomitoli, e prima di districarli li fa suoi, li accoglie tra le mani e li ama. Così fa una mamma: quando vede un figlio o una figlia che è “annodato” in tante difficoltà, non lo condanna: prende quelle difficoltà, quei nodi nelle sue mani, li fa suoi e li risolve. Così è la nostra Madre Chiesa. Così dobbiamo guardarla. È la madre che ci prende come siamo, con le nostre difficoltà, con i nostri peccati pure. È madre, sempre sa arrangiare le cose. Non ci sembra che sia bello avere una madre così? Mai allontanarvi, mai allontanarsi dalla Chiesa! E se tu ti allontani, perderai la memoria della maternità della Chiesa; incomincerai a pensare male della tua Madre Chiesa, e più vai lontano, più quell’immagine di madre diventerà un’immagine di matrigna. Ma la matrigna è dentro il tuo cuore. La Chiesa è madre.

Una famiglia tra le famiglie – questo è la Chiesa –, aperta a testimoniare, come ci diceva la sorella, al mondo odierno la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre. A me ha colpito tanto una cosa che aveva scritto un grande sacerdote. Lui era un poeta e amava tanto la Madonna. Era anche un prete peccatore, lui sapeva di essere peccatore, ma andava dalla Madonna e piangeva davanti alla Madonna. Una volta scrisse una poesia, chiedendo perdono alla Madonna e facendo il proposito di non allontanarsi mai dalla Chiesa. Scriveva così: “Questa sera, Signora, la promessa è sincera. Ma, per ogni evenienza, non dimenticarti di lasciare la chiave dalla parte di fuori”. Maria e la Chiesa mai chiudono da dentro! Sempre, se chiudono la porta, la chiave è di fuori: tu puoi aprire. E questa è la nostra speranza. La speranza della riconciliazione. “Padre, lei dice che la Chiesa e la Madonna sono una casa con le porte aperte, ma se Lei sapesse, padre, le cose brutte che io ho fatto nella vita: per me le porte della Chiesa, anche le porte del cuore della Madonna, sono chiuse” – “Hai ragione, sono chiuse, ma avvicinati, guarda bene e troverai la chiave dalla parte di fuori. Fa’ così, apri ed entra. Non devi suonare il campanello. Apri con quella chiave lì”. E questo vale per tutta la vita!

In questo senso ho un “lavoretto” per voi. Voi siete figli nella fede dei grandi testimoni che furono capaci di testimoniare con la loro vita l’amore del Signore in queste terre. I fratelli Cirillo e Metodio, uomini santi e dai grandi sogni, si convinsero che il modo più autentico per parlare con Dio era farlo nella propria lingua. Questo diede loro l’audacia di decidersi a tradurre la Bibbia perché nessuno rimanesse privo della Parola che dà vita.

Essere una casa dalle porte aperte, sulle orme di Cirillo e Metodio, oggi richiede anche di saper essere audaci e creativi per domandarsi come si possa tradurre in modo concreto e comprensibile alle giovani generazioni l’amore che Dio ha per noi. Dobbiamo essere audaci, coraggiosi. Sappiamo e sperimentiamo che «i giovani, nelle strutture consuete, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, alle loro esigenze, alle loro problematiche e alle loro ferite» (Esort. ap. postsin. Christus vivit202). E questo ci chiede un nuovo sforzo di immaginazione nelle nostre azioni pastorali, per cercare il modo di raggiungere il loro cuore, conoscere le loro attese e incoraggiare i loro sogni, come comunità-famiglia che sostiene, accompagna e invita a guardare il futuro con speranza. Una grande tentazione che affrontano le nuove generazioni è la mancanza di radici, di radici che le sostengano, e questo le porta allo sradicamento e a una grande solitudine. I nostri giovani, nel momento in cui si sentono chiamati ad esprimere tutto il potenziale in loro possesso, molte volte restano a metà strada a causa delle frustrazioni o delle delusioni che sperimentano, poiché non hanno radici su cui appoggiarsi per guardare avanti (cfr ibid.179-186). E questo aumenta quando si vedono obbligati a lasciare la propria terra, la propria patria, la propria famiglia.

Vorrei sottolineare questo che ho detto sui giovani, che tante volte perdono le radici. Oggi, nel mondo, ci sono due gruppi di persone che soffrono tanto: i giovani e gli anziani. Dobbiamo farli incontrare. Gli anziani sono le radici della nostra società, non possiamo mandarli via dalla nostra comunità, sono la memoria viva della nostra fede. I giovani hanno bisogno di radici, di memoria. Facciamo sì che comunichino tra di loro, senza paura. C’è una bella profezia del profeta Gioele: “I vecchi sogneranno e i giovani profetizzeranno” (cfr 3,1). Quando i giovani si incontrano con gli anziani e gli anziani con i giovani, gli anziani incominciano a rivivere, tornano a sognare e i giovani prendono coraggio dai vecchi, vanno avanti e incominciano a fare ciò che è tanto importante nella loro vita, cioè frequentare il futuro. Abbiamo bisogno che i giovani frequentino il futuro, ma questo si può fare solo se hanno le radici dei vecchi. Quando io arrivavo qui alla parrocchia, nelle strade c’erano tanti anziani, tanti vecchietti e vecchiette. Sorridevano… Hanno un tesoro dentro. E c’erano tanti giovani che pure salutavano e sorridevano. Che si incontrino! Che gli anziani diano ai giovani questa capacità di profetizzare, cioè di frequentare il futuro. Queste sono le scommesse di oggi. E non abbiamo paura. Accettiamo nuove sfide, a condizione che ci sforziamo con ogni mezzo di far sì che la nostra gente non venga privata della luce e della consolazione che nascono dall’amicizia con Gesù, di  una comunità di fede che la sostenga e di un orizzonte sempre stimolante e rinnovatore che le dia senso e vita (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 49). Non dimentichiamo che le pagine più belle della vita della Chiesa sono state scritte quando creativamente il Popolo di Dio si metteva in cammino per cercare di tradurre l’amore di Dio in ogni momento della storia, con le sfide che man mano si andavano incontrando. Il popolo unito, il Popolo di Dio, con il sensus fidei che gli è proprio. È bello sapere che potete contare su una grande storia vissuta, ma è ancora più bello prendere coscienza che a voi è stato dato di scrivere ciò che verrà. Queste pagine non sono state scritte. Dovete scriverle voi. Il futuro è nelle vostre mani, il libro del futuro lo dovete scrivere voi. Non stancatevi di essere una Chiesa che continua a generare, in mezzo alle contraddizioni, ai dolori e anche a tante povertà, ma è la Chiesa Madre che continuamente fa dei figli, genera i figli di cui questa terra ha bisogno oggi agli inizi del XXI secolo, tenendo un orecchio al Vangelo e l’altro al cuore del vostro popolo. Grazie… – non ho finito! Vi tormenterò un po’ ancora – Grazie per questo bell’incontro. E, pensando a Papa Giovanni, vorrei che la benedizione che vi do ora sia una carezza del Signore su ciascuno di voi. Lui aveva dato quella benedizione con l’augurio che fosse una carezza; quella benedizione che diede alla luce della luna.

Preghiamo insieme, preghiamo la Madonna che è immagine della Chiesa. Pregate nella vostra lingua. [Recitano l’Ave Maria in bulgaro]

[Benedizione]

Incontro interreligioso per la pace (Piazza Nezavisimost – Sofia 6 maggio)

Parole del Papa dopo la preghiera comune:

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo pregato per la pace con parole ispirate a San Francesco di Assisi, grande innamorato di Dio Creatore e Padre di tutti. Amore che egli ha testimoniato con la stessa passione e sincero rispetto verso il creato ed ogni persona che incontrava sul suo cammino. Amore che ha trasformato il suo sguardo dandogli la consapevolezza che in ognuno esiste «uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 6). Amore che lo portò ad essere un autentico costruttore di pace. Anche ciascuno di noi, sulle sue orme, è chiamato a diventare un costruttore, un “artigiano” di pace. Pace che dobbiamo implorare e per la quale dobbiamo lavorare, dono e compito, regalo e sforzo costante e quotidiano per costruire una cultura in cui anche la pace sia un diritto fondamentale. Pace attiva e “fortificata” contro tutte le forme di egoismo e di indifferenza che ci fanno anteporre gli interessi meschini di alcuni alla dignità inviolabile di ogni persona. La pace esige e chiede che facciamo del dialogo una via, della collaborazione comune la nostra condotta, della conoscenza reciproca il metodo e il criterio (cfr Documento della fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019) per incontrarci in ciò che ci unisce, rispettarci in ciò che ci separa e incoraggiarci a guardare il futuro come spazio di opportunità e di dignità, specialmente per le generazioni che verranno.

Noi questa sera siamo qui a pregare davanti a queste fiaccole portate dai nostri bambini. Esse simboleggiano il fuoco dell’amore che è acceso in noi e che deve diventare un faro di misericordia, di amore e di pace negli ambienti in cui viviamo. Un faro che vorremmo illuminasse il mondo intero. Con il fuoco dell’amore noi vogliamo sciogliere il gelo delle guerre. Stiamo vivendo questo evento per la pace sulle rovine dell’antica Serdika, a Sofia, cuore della Bulgaria. Noi possiamo vedere da qui i luoghi di culto di diverse Chiese e Confessioni religiose: Santa Nedelia dei nostri fratelli ortodossi, San Giuseppe di noi cattolici, la sinagoga dei nostri fratelli maggiori gli ebrei, la moschea dei nostri fratelli musulmani e, vicino, la chiesa degli armeni.

In questo luogo, per secoli, convergevano i Bulgari di Sofia appartenenti a vari gruppi culturali e religiosi, per incontrarsi e discutere. Possa questo luogo simbolico rappresentare una testimonianza di pace. In questo momento, le nostre voci si fondono e all’unisono esprimono l’ardente desiderio della pace: la pace si diffonda in tutta la terra! Nelle nostre famiglie, in ognuno di noi, e specialmente in quei luoghi dove tante voci sono state fatte tacere dalla guerra, soffocate dall’indifferenza e ignorate per la complicità schiacciante di gruppi di interesse. Tutti cooperino alle realizzazione di questa aspirazione: gli esponenti delle religioni, della politica, della cultura. Ciascuno là dove si trova, svolgendo il compito che gli spetta può dire: “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace”. È l’auspicio che si realizzi il sogno del Papa San Giovanni XXIII, di una terra dove la pace sia di casa. Seguiamo il suo desiderio e con la vita diciamo: Pacem in terris! Pace sulla terra a tutti gli uomini amati dal Signore.

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo diplomatico (Mosaique Hall del Palazzo Presidenziale di Skopje – 7 maggio)

Signor Presidente,Signor Primo Ministro,Illustri Membri del Corpo Diplomatico,Distinte Autorità civili e religiose,Cari fratelli e sorelle,

Ringrazio cordialmente il Signor Presidente per le sue cortesi parole di benvenuto e per il gradito invito a visitare la Macedonia del Nord, che egli, unitamente al Signor Primo Ministro, mi ha rivolto.

Ringrazio parimenti i rappresentanti delle altre Comunità religiose qui presenti. Saluto con viva cordialità la comunità cattolica qui rappresentata dal Vescovo di Skopje ed Eparca dell’Eparchia della Beata Maria Vergine Assunta in Strumica-Skopje, che è parte attiva e integrante della vostra società e partecipa a pieno titolo alle gioie, alle preoccupazioni e alla vita quotidiana del vostro popolo.

È la prima volta che il Successore dell’Apostolo Pietro si reca nella Repubblica della Macedonia, e sono lieto di poterlo fare nel 25° anniversario dell’allacciamento delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede, che furono stabilite pochi anni dopo l’indipendenza, avvenuta nel settembre del 1991.

La vostra terra, ponte tra oriente e occidente e punto di confluenza di numerose correnti culturali, condensa molte caratteristiche peculiari di questa regione. Con le raffinate testimonianze del suo passato bizantino e ottomano, con le ardite fortezze tra i monti e le splendide iconostasi delle sue antiche chiese, che rivelano una presenza cristiana fin dai tempi apostolici, manifesta la densità e la ricchezza della millenaria cultura che la abita. Ma permettetemi di dire che questa ricchezza culturale è solo lo specchio del vostro più prezioso e valido patrimonio: la composizione multietnica e multireligiosa del volto del vostro popolo, frutto di una storia ricca e, perché no, anche complessa di relazioni intessute nel corso dei secoli.

Questo crogiuolo di culture e di appartenenze etniche e religiose ha dato luogo a una pacifica e duratura convivenza, nella quale le singole identità hanno saputo e potuto esprimersi e svilupparsi senza negare, opprimere o discriminare le altre. Hanno avuto un atteggiamento più grande della tolleranza: hanno saputo aver rispetto. Esse hanno così dato forma a una tessitura di rapporti e di situazioni che, sotto questo profilo, possono rendervi un esempio a cui fare riferimento per una convivenza serena e fraterna, nella distinzione e nel rispetto reciproco.

Queste speciali caratteristiche sono nel medesimo tempo di rilevante significato sulla via di una più stretta integrazione con i Paesi europei. Auspico che tale integrazione si sviluppi positivamente per l’intera regione dei Balcani occidentali, come pure che essa avvenga sempre nel rispetto delle diversità e dei diritti fondamentali.

Qui, infatti, tanto la differente appartenenza religiosa di Ortodossi, Musulmani, Cattolici, Ebrei e Protestanti, quanto la distinzione etnica tra Macedoni, Albanesi, Serbi, Croati e persone di altra origine, ha creato un mosaico in cui ogni tessera è necessaria all’originalità e bellezza del quadro d’insieme. Bellezza che raggiungerà il suo maggior splendore nella misura in cui saprete trasmetterla e seminarla nel cuore delle nuove generazioni.

Tutti gli sforzi che si compiono, affinché le diverse espressioni religiose e le differenti etnie trovino un terreno d’intesa comune nel rispetto della dignità di ogni persona umana e nella conseguente garanzia delle libertà fondamentali, non saranno mai vani, anzi, costituiranno la necessaria semina per un futuro di pace e di fecondità.

Vorrei segnalare, inoltre, il generoso sforzo compiuto dalla vostra Repubblica – sia dalle sue Autorità statali sia col valido contributo di diverse Organizzazioni internazionali, della Croce Rossa, della Caritas e di alcune ONG – nell’accogliere e prestare soccorso al gran numero di migranti e profughi provenienti da diversi Paesi medio-orientali. Essi fuggivano dalla guerra o da condizioni di estrema povertà, spesso indotte proprio da gravi episodi bellici, e negli anni 2015 e ‘16 hanno varcato i vostri confini, diretti in massima parte verso il nord e l’ovest dell’Europa, trovando in voi un valido riparo. La pronta solidarietà offerta a coloro che si trovavano allora nel più acuto bisogno per aver perso tante persone care oltre alla casa, al lavoro e alla patria vi fa onore e parla dell’anima di questo popolo che, conoscendo anche le privazioni, riconosce nella solidarietà e nella condivisione dei beni le vie di ogni autentico sviluppo. Auspico che si faccia tesoro della catena solidale che ha contraddistinto quell’emergenza, a vantaggio di ogni opera di volontariato a servizio di molte forme di disagio e di bisogno.

Vorrei anche rendere omaggio in modo del tutto speciale a una vostra illustre concittadina che, mossa dall’amore di Dio, ha fatto della carità verso il prossimo la suprema legge della sua esistenza, suscitando ammirazione in tutto il mondo e inaugurando uno specifico e radicale modo di porsi al servizio degli abbandonati, degli scartati, dei più poveri. Mi riferisco chiaramente a colei che è universalmente conosciuta come Madre Teresa di Calcutta. Ella nacque in un sobborgo di Skopje nel 1910 col nome di Anjezë Gonxha Bojaxhiu e svolse il suo apostolato, fatto di umile e totale donazione di sé, in India, e per mezzo delle sue sorelle ha raggiunto i più diversi confini geografici ed esistenziali. Sono lieto di potermi recare tra poco a sostare in preghiera nel Memoriale a lei dedicato, costruito nel luogo dove sorgeva la chiesa del Sacro Cuore di Gesù, in cui lei fu battezzata.

Siete giustamente fieri di questa grande donna. Vi esorto a continuare a lavorare con impegno, dedizione e speranza affinché i figli e le figlie di questa terra possano, sul suo esempio, scoprire, raggiungere e maturare la vocazione che Dio ha sognato per loro.

Signor Presidente,

La Santa Sede, a partire dal momento in cui la Macedonia del Nord ottenne l’indipendenza, ha accompagnato con viva attenzione i passi che il Paese ha compiuto nel far progredire il dialogo e la comprensione tra le Autorità civili e le confessioni religiose.

Oggi la Provvidenza mi offre la possibilità di manifestare di persona questa mia vicinanza; e così anche di esprimere gratitudine per la visita che ogni anno una vostra delegazione ufficiale compie in Vaticano in occasione della festa dei Santi Cirillo e Metodio. Vi incoraggio a proseguire fiduciosi nel cammino iniziato per fare del vostro Paese un faro di pace, di accoglienza e di integrazione feconda tra culture, religioni e popoli. A partire dalle rispettive identità e dal dinamismo della loro vita culturale e civile, essi potranno in tal modo costruire un destino comune, aprendosi alle ricchezze di cui ciascuno è portatore.

Che Dio protegga e benedica la Macedonia del Nord, la conservi nella concordia e le conceda prosperità e gioia!

Visita al memoriale di Santa Madre Teresa e incontro con i poveri (7 maggio)

La preghiera recitata dal Santo Padre:

Dio, Padre di Misericordia e di ogni bene,ti ringraziamo per il dono della vitae del carisma di Santa Madre Teresa.Nella tua immensa Provvidenza l’hai chiamataa dare la testimonianza del tuo amoretra i più poveri dell’India e del mondo.Lei ha saputo fare del bene ai più bisognosi,poiché ha riconosciuto in ogni uomo e donnail volto del tuo Figlio.Docile al tuo Spirito,è diventata la voce orante dei poverie di tutti coloroche hanno fame e sete di giustizia.Accogliendo il grido di Gesù dalla croce,«Ho sete»,Madre Teresa ha dissetatola sete di Gesù sulla croce,compiendo le opere dell’amore misericordioso. Chiediamo a te, Santa Madre Teresa,madre dei poveri,la tua particolare intercessione e il tuo aiuto,qui, nella città della tua nascita,dove era la tua casa.Qui tu hai ricevuto il dono della rinascitanei sacramenti dell’Iniziazione Cristiana.Qui hai ascoltato le prime parole della fedenella tua famiglia e nella comunità dei fedeli.Qui hai cominciato a vederee a conoscere la gente nel bisogno,i poveri e i piccoli.Qui hai imparato dai tuoi genitori a voler beneai più bisognosi e ad aiutarli.Qui, nel silenzio della chiesa,hai sentito la chiamata di Gesù a seguirlo,come religiosa, nelle missioni. Da qui ti preghiamo: intercedi presso Gesùaffinché anche noi otteniamo la graziadi essere vigili e attenti al grido dei poveri,di coloro che sono privati dai loro diritti,degli ammalati, degli emarginati, degli ultimi.Lui ci conceda la grazia di vederlonegli occhi di chi ci guardaperché ha bisogno di noi.Ci doni un cuore che sa amare Diopresente in ogni uomo e donnae che sa riconoscerlo in coloroche sono afflitti da sofferenze e ingiustizie.Ci conceda la grazia di essere anche noisegno di amore e di speranza nel nostro tempo,che vede tanti bisognosi, abbandonati,emarginati ed emigranti.Faccia sì che il nostro amore non sia solo a parole,ma sia efficace e vero,perché possiamo rendereuna testimonianza credibile alla Chiesache ha il doveredi predicare il Vangelo ai poveri,la liberazione ai prigionieri, la gioia agli afflitti,la grazia della salvezza a tutti. Santa Madre Teresa prega per questa città,per questo popolo, per la sua Chiesae per tutti coloro che vogliono seguire Cristocome discepoli di lui, Buon Pastore,compiendo opere di giustizia, d’amore,di misericordia, di pace e di servizio,come lui che è venuto non per essere servito,ma per servire e donare la vita per tanti,Cristo nostro Signore.Amen.

Omelia nella Messa in Piazza Macedonia a Skopje(7 maggio)

«Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete», ci ha appena detto il Signore (Gv 6,35).

Nel Vangelo, attorno a Gesù, si concentra una folla che aveva ancora negli occhi la moltiplicazione dei pani. Uno di quei momenti che sono rimasti impressi negli occhi e nel cuore della prima comunità dei discepoli. Era stata una festa… La festa di scoprire la sovrabbondanza e la sollecitudine di Dio verso i suoi figli, resi fratelli nel dividere e condividere il pane. Immaginiamo per un momento quella folla. Qualcosa era cambiato. Per qualche istante, quelle persone assetate e silenziose che seguivano Gesù alla ricerca di una parola sono state in grado di toccare con le loro mani e sentire nei loro corpi il miracolo della fraternità capace di saziare e di far sovrabbondare.

Il Signore è venuto per dare vita al mondo e lo fa sempre in un modo che riesce a sfidare la ristrettezza dei nostri calcoli, la mediocrità delle nostre aspettative e la superficialità dei nostri intellettualismi; mette in discussione le nostre vedute e le nostre certezze, invitandoci a passare a un orizzonte nuovo che dà spazio a un modo diverso di costruire la realtà. Lui è il Pane vivo disceso dal cielo, «chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete».

Tutta quella gente scoprì che la fame di pane aveva anche altri nomi: fame di Dio, fame di fraternità, fame di incontro e di festa condivisa.

Ci siamo abituati a mangiare il pane duro della disinformazione e siamo finiti prigionieri del discredito, delle etichette e dell’infamia; abbiamo creduto che il conformismo avrebbe saziato la nostra sete e abbiamo finito per abbeverarci di indifferenza e di insensibilità; ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato il risultato rapido e sicuro e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia. Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà.

Diciamolo con forza e senza paura: abbiamo fame, Signore… Abbiamo fame, Signore, del pane della tua Parola capace di aprire le nostre chiusure e le nostre solitudini; abbiamo fame, Signore, di fraternità dove l’indifferenza, il discredito, l’infamia non riempiano le nostre tavole e non prendano il primo posto a casa nostra. Abbiamo fame, Signore, di incontri in cui la tua Parola sia in grado di elevare la speranza, risvegliare la tenerezza, sensibilizzare il cuore aprendo vie di trasformazione e conversione.

Abbiamo fame, Signore, di sperimentare, come quella folla, la moltiplicazione della tua misericordia, capace di rompere gli stereotipi e dividere e condividere la compassione del Padre per ogni persona, specialmente per coloro di cui nessuno si prende cura, che sono dimenticati o disprezzati. Diciamolo con forza e senza paura, abbiamo fame di pane, Signore: del pane della tua parola e del pane della fraternità.

Tra pochi istanti, ci metteremo in movimento, andremo alla mensa dell’altare per nutrirci del Pane della Vita seguendo il mandato del Signore: «chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete» (Gv 6,35). È l’unica cosa che il Signore ci chiede: venite. Ci invita a metterci in cammino, in movimento, in uscita. Ci esorta a camminare verso di Lui per renderci partecipi della sua stessa vita e della sua stessa missione. “Venite”, ci dice il Signore: un venire che non significa solo spostarsi da un posto all’altro, bensì la capacità di lasciarci smuovere, trasformare dalla sua Parola nelle nostre scelte, nei sentimenti, nelle priorità per avventurarci a fare i suoi stessi gesti e parlare col suo stesso linguaggio, «il linguaggio del pane che dice tenerezza, compagnia, dedizione generosa agli altri»,[1] amore concreto e palpabile perché quotidiano e reale.

In ogni Eucaristia, il Signore si spezza e si distribuisce e invita anche noi a spezzarci e distribuirci insieme a Lui e a partecipare a quel miracolo moltiplicatore che vuole raggiungere e toccare ogni angolo di questa città, di questo Paese, di questa terra con un poco di tenerezza e di compassione.

Fame di pane, fame di fraternità, fame di Dio. Come conosceva bene tutto questo Madre Teresa, che ha voluto fondare la sua vita su due pilastri: Gesù incarnato nell’Eucaristia e Gesù incarnato nei poveri! Amore che riceviamo, amore che doniamo. Due pilastri inseparabili che hanno segnato il suo cammino, l’hanno messa in movimento, desiderosa anch’essa di placare la sua fame e la sua sete. È andata dal Signore e nello stesso atto è andata dal fratello disprezzato, non amato, solo e dimenticato; è andata dal fratello e ha trovato il volto del Signore… Perché sapeva che «amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio»,[2] e quell’amore era l’unica cosa capace di saziare la sua fame.

Fratelli, oggi il Signore Risorto continua a camminare in mezzo a noi, là dove passa e si gioca la vita quotidiana. Conosce la nostra fame e ci dice ancora: «chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete» (Gv 6,35). Incoraggiamoci a vicenda ad alzarci in piedi e a sperimentare l’abbondanza del suo amore; lasciamo che Egli sazi la nostra fame e sete nel sacramento dell’altare e nel sacramento del fratello.

Al termine della Messa a Skopje

Cari fratelli e sorelle,

prima della Benedizione finale sento il bisogno di esprimere la mia gratitudine. Ringrazio il Vescovo di Skopje per le sue parole e soprattutto per il lavoro fatto in preparazione di questa giornata. E insieme con lui ringrazio quanti hanno collaborato, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Grazie di cuore a tutti!

E rinnovo la mia riconoscenza anche alle Autorità civili del Paese, alle forze dell’ordine e ai volontari. Il Signore saprà donare a ciascuno la migliore ricompensa. Da parte mia, vi porto nella mia preghiera, e chiedo anche a voi di pregare per me.

[1] J.M. Bergoglio, Homilía Corpus Christi, Buenos Aires, 1995.

[2] Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 15.

Incontro Ecumenico e Interreligioso con i giovani (Centro Pastorale – Skopje – 7 maggio)

Cari amici,

è sempre motivo di gioia e di speranza poter avere questi incontri. Grazie di averlo reso possibile e di regalarmi questa opportunità. Grazie di cuore per la vostra danza, tanto bella, e le vostre domande. Io conoscevo le domande: le avevo ricevute e le conoscevo, e ho preparato alcuni punti per riflettere con voi su queste domande.

Comincio dall’ultima (come diceva il Signore, gli ultimi saranno i primi). Liridona, dopo aver condiviso con noi le tue aspirazioni, mi chiedevi: «Sogno troppo?». Una domanda molto bella, a cui mi piacerebbe poter rispondere insieme. Per voi, Liridona sogna troppo?

Vorrei dirvi: sognare non è mai troppo. Uno dei principali problemi di oggi e di tanti giovani è che hanno perso la capacità di sognare. Né molto né poco, non sognano. E quando una persona non sogna, quando un giovane non sogna questo spazio viene occupato dal lamento e dalla rassegnazione o dalla tristezza. «Questi li lasciamo a quelli che seguono la “dea lamentela”! […] È un inganno: ti fa prendere la strada sbagliata. Quando tutto sembra fermo e stagnante, quando i problemi personali ci inquietano, i disagi sociali non trovano le dovute risposte, non è bene darsi per vinti» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 141). Per questo, cara Liridona, cari amici, mai e poi mai si sogna troppo. Provate a pensare ai vostri sogni più grandi, a quelli come il sogno di Liridona – ve lo ricordate? –: dare speranza a un mondo stanco, insieme agli altri, cristiani e musulmani. Senza dubbio è un sogno molto bello. Lei non ha pensato a cose piccole, a cose “rasoterra”, ma ha sognato alla grande. E voi giovani dovete sognare alla grande!

Qualche mese fa, con un amico, il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, avevamo anche noi un sogno molto simile al tuo che ci ha portato a volerci impegnare e a firmare insieme un documento che dice che la fede deve portare noi credenti a vedere negli altri dei fratelli che dobbiamo sostenere e amare senza lasciarci manipolare da interessi meschini (cfr Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Noi siamo grandi, non è un’età per sognare. Ma sognate, e sognate in grande!

E questo mi fa pensare a quello che ci diceva Bozanka: che a voi giovani piacciono le avventure. E sono contento che sia così, perché è il modo bello di essere giovani: vivere un’avventura, una buona avventura. Il giovane non ha paura di fare della sua vita una buona avventura. E vi chiedo: quale avventura richiede più coraggio di quel sogno che ci ha condiviso Liridona, dare speranza a un mondo stanco? Il mondo è stanco, è invecchiato; il mondo è diviso e sembra vantaggioso dividerlo e dividerci ancora di più. Ci sono tanti grandi che vogliono dividerci tra noi. State attenti! Come risuonano forti le parole del Signore: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9)! Quale maggior adrenalina che impegnarsi tutti i giorni, con dedizione, ad essere artigiani di sogni, artigiani di speranza? I sogni ci aiutano a mantenere viva la certezza di sapere che un altro mondo è possibile e che siamo chiamati a coinvolgerci in esso e a farne parte col nostro lavoro, col nostro impegno e la nostra azione.

In questo Paese c’è una bella tradizione, quella degli artigiani scalpellini, abili nel tagliare la pietra e lavorarla. Ecco, bisogna fare come quegli artisti e diventare bravi scalpellini dei propri sogni. Dobbiamo lavorare sui nostri sogni. Uno scalpellino prende la pietra nelle sue mani e lentamente comincia a darle forma e trasformarla, con applicazione e sforzo, e specialmente con una gran voglia di vedere come quella pietra, per la quale nessuno avrebbe dato nulla, diventa un’opera d’arte.

«I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta – come quegli artisti –. Nello stesso tempo, non bisogna bloccarsi per insicurezza, non bisogna avere paura di rischiare e di commettere errori – no, non avere paura! –. Piuttosto dobbiamo avere paura di vivere paralizzati, come morti viventi, ridotti a soggetti che non vivono perché non vogliono rischiare – e un giovane che non rischia è un morto – perché non portano avanti i loro impegni o hanno paura di sbagliare. Anche se sbagli potrai sempre rialzare la testa e ricominciare, perché nessuno ha il diritto di rubarti la speranza» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 142). Non lasciatevi rubare la speranza!

Cari giovani, non abbiate paura di diventare artigiani di sogni e artigiani di speranza. D’accordo? [rispondono con un applauso]

«È vero che noi membri della Chiesa non dobbiamo essere tipi strani. Tutti devono poterci sentire fratelli e vicini, come gli Apostoli, che godevano “il favore di tutto il popolo” (At 2,47; cfr 4,21.33; 5,13). Allo stesso tempo, però, dobbiamo avere il coraggio di essere diversi, di mostrare altri sogni che questo mondo non offre, di testimoniare la bellezza della generosità, del servizio, della purezza, della fortezza, del perdono, della fedeltà alla propria vocazione, della preghiera, della lotta per la giustizia e il bene comune, dell’amore per i poveri, dell’amicizia sociale» (ibid., 36).

Pensate a Madre Teresa: quando viveva qui non poteva immaginare come sarebbe stata la sua vita, ma non smise di sognare e di darsi da fare per cercare sempre di scoprire il volto del suo grande amore, che era Gesù, scoprirlo in tutti coloro che stavano al margine della strada. Lei ha sognato in grande e per questo ha anche amato in grande. Aveva i piedi ben piantati qui, nella sua terra, ma non stava con le mani in mano. Voleva essere “una matita nelle mani di Dio”. Ecco il suo sogno artigianale. L’ha offerto a Dio, ci ha creduto, ci ha sofferto, non ci ha mai rinunciato. E Dio ha cominciato a scrivere con quella matita pagine inedite e stupende. Una ragazza del vostro popolo, una donna del vostro popolo, sognando, ha scritto cose grandi. È Dio che le ha scritte, ma lei ha sognato e si è lasciata guidare da Dio.

Ciascuno di voi, come Madre Teresa, è chiamato a lavorare con le proprie mani, a prendere la vita sul serio, per fare di essa qualcosa di bello. Non permettiamo che ci rubino i sogni (cfr ibid., 17), no, state attenti! Non priviamoci della novità che il Signore ci vuole regalare. Troverete molti imprevisti, molti…, ma è importante che possiate affrontarli e cercare creativamente come trasformarli in opportunità. Ma mai da soli; nessuno può combattere da solo. Come ci hanno testimoniato Dragan e Marija: “la nostra comunione ci dà la forza per affrontare le sfide della società odierna”.

Riprendo quello che hanno detto Dragan e Marija: “La nostra comunione ci dà la forza per affrontare le sfide della società odierna”. Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato, non si può vivere la fede, i sogni senza comunità, solo nel proprio cuore o a casa, chiusi e isolati tra quattro mura, c’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti.

Com’è importante sognare insieme! Come fate oggi: qui, tutti uniti, senza barriere. Per favore, sognate insieme, non da soli; sognate con gli altri, mai contro gli altri! Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; insieme si costruiscono i sogni.

Pochi minuti fa abbiamo visto due bambini che giocavano qui. Volevano giocare, giocare insieme. Non sono andati a giocare sullo schermo del computer, volevano giocare sul concreto! Li abbiamo visti: erano felici, contenti. Perché sognavano di giocare insieme, l’uno con l’altro. L’avete visto? Ma a un certo punto, uno si è accordo che era più forte dell’altro, e invece di sognare con l’altro, ha incominciato a sognare contro l’altro, e ha cercato di vincerlo. E quella gioia si è trasformata nel pianto di quel poverino che è finito per terra. Avete visto come si può passare dal sognare con l’altro a sognare contro l’altro. Mai dominare l’altro! Fare comunità con l’altro: questa è la gioia di andare avanti. È molto importante.

Dragan e Marija ci hanno detto come questo risulta difficile quando tutto sembra isolarci e privarci dell’opportunità di incontrarci – di questo “sognare con l’altro” –. Negli anni che ho (e non sono pochi), sapete qual è la miglior lezione che ho visto e conosciuto in tutta la mia vita? Il “faccia a faccia”. Siamo entrati nell’era delle connessioni, ma sappiamo poco di comunicazioni. Troppi contatti, ma si comunica poco. Molto connessi e poco coinvolti gli uni con gli altri. Perché coinvolgersi chiede la vita, esige di esserci e condividere momenti belli… e altri meno belli. Al Sinodo dedicato ai giovani lo scorso anno, abbiamo potuto vivere l’esperienza di incontrarci faccia a faccia, giovani e meno giovani, e ascoltarci, sognare insieme, guardare avanti con speranza e gratitudine. Quello è stato il miglior antidoto contro lo scoraggiamento, contro la manipolazione, contro la cultura dell’effimero, dei troppi contatti senza comunicazione, contro la cultura dei falsi profeti che annunciano solo sventure e distruzione. L’antidoto è ascoltare e ascoltarci. E adesso, permettetemi di dirvi qualcosa che sento proprio nel cuore: concedetevi l’opportunità di condividere e godervi un buon “faccia a faccia” con tutti, ma soprattutto con i vostri nonni, con gli anziani della vostra comunità. Qualcuno forse me lo ha già sentito dire, ma penso che è un antidoto contro tutti quelli che vogliono rinchiudervi nel presente affogandovi e soffocandovi con pressioni ed esigenze di una presunta felicità, dove sembra che il mondo finisca e bisogna fare e vivere tutto subito. Ciò genera con il tempo molta ansia, insoddisfazione, rassegnazione. Per un cuore malato di rassegnazione, non c’è rimedio migliore che ascoltare le esperienze degli anziani.

Amici, prendete tempo con i vostri vecchi, con i vostri anziani, ascoltate i loro lunghi racconti, che a volte sembrano fantasiosi, ma, in realtà, sono pieni di un’esperienza preziosa, pieni di simboli eloquenti e di saggezza nascosta da scoprire e valorizzare. Sono racconti che richiedono tempo (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 195). Non dimentichiamo un detto: un nano può vedere più lontano stando sulle spalle di un gigante. In questo modo acquisterete una visione finora mai raggiunta. Entrate nella saggezza del vostro popolo, della vostra gente, entrate senza vergogna né complessi, e troverete una sorgente di creatività insospettata che riempirà tutto, vi permetterà di vedere strade dove gli altri vedono muri, possibilità dove altri vedono pericolo, risurrezione dove tanti annunciano solo morte.

Per questo, cari giovani, vi dico di parlare con i vostri nonni e con i vostri vecchi. Loro sono le radici, le radici della vostra storia, le radici del vostro popolo, le radici delle vostre famiglie. Voi dovete aggrapparvi alle radici per prendere il succo che farà crescere l’albero e darà fiori e frutti, ma sempre dalle radici. Non dico che voi dovete sotterrarvi con le radici: no, questo no. Ma voi dovete andare ad ascoltare le radici e prendere da lì la forza per crescere, per andare avanti. Se a un albero si tagliano le radici, quell’albero muore. Se a voi giovani tagliano le vostre radici, che sono la storia del vostro popolo, voi morirete. Sì, vivrete, ma senza frutto: la vostra patria, il vostro popolo non potranno dare frutto perché voi vi siete staccati dalle radici.

Quando io ero bambino, ci dicevano, a scuola, che quando gli europei sono andati a scoprire l’America portavano dei vetri colorati: li facevano vedere agli indiani, agli indigeni e questi si entusiasmavano con i vetri colorati, che non conoscevano. E questi indiani dimenticavano le loro radici e acquistavano i vetri colorati e in cambio davano l’oro. Con i vetri colorati, rubavano l’oro. Era la novità, e davano tutto per avere questa novità che non valeva niente. Voi giovani, state attenti, perché anche oggi ci sono i conquistatori, i colonizzatori che ci porteranno i vetri colorati: sono le colonizzazioni ideologiche. Verranno da voi e vi diranno: “No, voi dovete essere un popolo più moderno, più avanti, andare avanti, voi prendete queste cose, fate questa strada, dimenticate le cose vecchie: andate avanti!”. Cosa dovete fare? Discernere. Ciò che questa persona mi porta, è una cosa buona, che è in armonia con la storia del mio popolo? O sono “vetri colorati”? E per non ingannarci è importante parlare con i vecchi, parlare con gli anziani che vi trasmetteranno la storia del vostro popolo, le radici del vostro popolo. Parlare con i vecchi, per crescere. Parlare con la nostra storia per portarla più avanti ancora. Parlare con le nostre radici per dare fiori e frutti.

E adesso devo finire, perché il tempo corre. Ma vi confesso una cosa: dall’inizio di questo intervento con voi, la mia attenzione è stata attratta da una situazione. Guardavo questa donna, qui davanti: aspetta un bimbo. Aspetta un bimbo, e qualcuno di voi penserà: “Oh! Che calamità, povera donna, come dovrà faticare!”. Qualcuno pensa questo? No. Nessuno pensa: “Oh, passerà tante notti senza dormire per il bimbo che piange…”. No. Quel bimbo è una promessa, guarda avanti! Questa donna ha rischiato per portare un bimbo al mondo perché guarda avanti, guarda la storia. Perché lei si sente con la forza delle radici per portare avanti la vita, per portare avanti la patria, per portare avanti il popolo.

E finiamo tutti insieme con un applauso a tutte le giovani, a tutte le donne coraggiose che portano avanti la storia.

E grazie al traduttore che è stato tanto bravo!

 

Ti servono le mie mani, Signore?

(Preghiera di Madre Teresa)

Ti servono le mie mani, Signore, per aiutare oggi i malati e i poveri che ne hanno bisogno?Signore, io oggi ti offro le mie mani. Ti servono i miei piedi, Signore, perché mi conducano oggi a coloro che hanno bisogno di un amico?Signore, oggi ti offro i miei piedi. Ti serve la mia voce, Signore, perché io oggi parli a tutti coloro che hanno bisogno della tua parola d’amore?Signore, oggi ti offro la mia voce. Ti serve il mio cuore, Signore, perché io ami chiunque, senza alcuna eccezione?Signore, oggi ti offro il mio cuore.

Incontro con sacerdoti, le loro famiglie e religiosi (cattedrale di Skopje, 7 maggio)

Cari fratelli e sorelle,

Grazie per l’opportunità che mi offrite di potervi incontrare. Vivo con speciale gratitudine questo momento nel quale posso vedere la Chiesa respirare appieno con i suoi due polmoni – rito latino e rito bizantino – per colmarsi dell’aria sempre nuova e rinnovatrice dello Spirito Santo. Due polmoni necessari, complementari, che ci aiutano a gustare meglio la bellezza del Signore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 116). Rendiamo grazie per la possibilità di respirare insieme, a pieni polmoni, quanto è stato buono il Signore con noi.

Vi ringrazio per le vostre testimonianze, che vorrei riprendere. Voi accennavate al fatto di essere pochi e al rischio di cedere a qualche complesso di inferiorità. Mentre vi ascoltavo, mi veniva in mente l’immagine di Maria che, prendendo una libbra di nardo puro, unse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli. L’Evangelista conclude la descrizione della scena dicendo: «tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo» (Gv 12,3). Quel nardo fu in grado di impregnare tutto e di lasciare un’impronta inconfondibile.

In non poche situazioni sentiamo la necessità di fare i conti: incominciamo a guardare quanti siamo… e siamo pochi; i mezzi che abbiamo… e sono pochi; poi vediamo la quantità di case e di opere da sostenere… e sono troppe… Potremmo continuare a enumerare le molteplici realtà in cui sperimentiamo la precarietà delle risorse che abbiamo a disposizione per portare avanti il mandato missionario che ci è stato affidato. Quando succede questo sembra che il bilancio sia “in rosso”.

È vero, il Signore ci ha detto: se vuoi costruire una torre, calcola le spese: «non accada che, una volta gettate le fondamenta, [tu] non sia in grado di finire il lavoro» (Lc 14, 29). Però il “fare i conti” ci può condurre alla tentazione di guardare troppo a noi stessi, e ripiegati sulle nostre realtà, sulle nostre miserie, possiamo finire quasi come i discepoli di Emmaus, proclamando il kerigma con le nostre labbra mentre il nostro cuore si chiude in un silenzio segnato da sottile frustrazione, che gli impedisce di ascoltare Colui che cammina al nostro fianco ed è fonte di gioia e allegria.

Fratelli e sorelle, “fare i conti” è sempre necessario quando ci può aiutare a scoprire e ad avvicinare tante vite e situazioni che pure ogni giorno stentano a far quadrare i conti: famiglie che non riescono ad andare avanti, persone anziane e sole, ammalati costretti a letto, giovani intristiti e senza futuro, poveri che ci ricordano quello che siamo: una Chiesa di mendicanti bisognosi della Misericordia del Signore. È lecito “fare i conti” solo se questo ci permette di metterci in movimento per diventare solidali, attenti, comprensivi e solleciti nell’accostare le stanchezze e la precarietà da cui sono sommersi tanti nostri fratelli bisognosi di una Unzione che li sollevi e li guarisca nella loro speranza.

È lecito fare i conti solo per dire con forza e implorare col nostro popolo: “Vieni Signore Gesù!”. Mi piacerebbe dirlo con voi, insieme: “Vieni Signore Gesù!”. Un’altra volta… [dicono: “Vieni Signore Gesù!”]

Non vorrei abusare della sua immagine, ma questa terra ha saputo regalare al mondo e alla Chiesa, in Madre Teresa, proprio un segno concreto di come la precarietà di una persona, unta dal Signore, sia stata capace di impregnare tutto, quando il profumo delle beatitudini si sparse sopra i piedi stanchi della nostra umanità. Quanti vennero tranquillizzati dalla tenerezza del suo sguardo, confortati dalla sua carezza, sollevati dalla sua speranza e alimentati dal coraggio della sua fede capace di far sentire ai più dimenticati che non erano dimenticati da Dio! La storia la scrivono queste persone che non hanno paura di spendere la loro vita per amore: ogni volta che lo avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avrete fatto a me (cfr Mt 25,40). Quanta sapienza contengono le parole di Santa Teresa Benedetta della Croce quando afferma: «Sicuramente, gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali niente si dice nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che conosceremo soltanto il giorno in cui tutte le cose occulte verranno rivelate»[1].

Certamente coltiviamo tante volte fantasie senza limiti pensando che le cose sarebbero diverse se fossimo forti, se fossimo potenti o influenti. Ma non sarà che il segreto della nostra forza, potenza e influenza e persino della giovinezza stia da un’altra parte e non nel fatto che “quadrino i conti”? Vi domando questo, perché mi ha colpito la testimonianza di Davor quando ha condiviso con noi quello che ha segnato il suo cuore. Sei stato molto chiaro: quello che ti ha salvato dal carrierismo è stato il tornare alla prima vocazione, la prima chiamata, e andare a cercare il Signore risorto lì dove poteva essere incontrato. Sei partito, lasciando le sicurezze per camminare sulle vie e nelle piazze di questa città; lì hai sentito rinnovarsi la tua vocazione e la tua vita; abbassandoti alla vita quotidiana dei tuoi fratelli per condividere e ungere con il profumo dello Spirito, il tuo cuore sacerdotale cominciò a battere nuovamente con maggiore intensità.

Ti sei avvicinato ad ungere i piedi stanchi del Maestro, i piedi stanchi di persone concrete, lì dove si trovavano, e il Signore ti stava aspettando per ungerti nuovamente nella tua vocazione. Questo è molto importante. Per rinnovare noi stessi, tante volte dobbiamo andare indietro e incontrare il Signore, riprendere la memoria della prima chiamata. L’autore della Lettera agli Ebrei dice ai cristiani: “Ricordate i primi giorni”. Ricordare la bellezza di quell’incontro con Gesù che ci ha chiamato, e da quell’incontro con lo sguardo di Gesù prendere la forza per andare avanti. Mai perdere la memoria della prima chiamata! La memoria della prima chiamata è un “sacramentale”. In effetti, le difficoltà del lavoro apostolico potrei dire che ci “guastano” la vita, e si può perdere l’entusiasmo. Si può perdere anche la voglia di pregare, di incontrare il Signore. Se ti trovi così, fermati! Torna indietro e incontrati con il Signore della prima chiamata. Questa memoria ti salverà.

Molte volte spendiamo le nostre energie e risorse, le nostre riunioni, discussioni e programmazioni per conservare approcci, ritmi, prospettive che non solo non entusiasmano nessuno, ma che sono incapaci di portare un po’ di quell’aroma evangelico in grado di confortare e di aprire vie di speranza, e ci privano dell’incontro personale con gli altri. Come sono giuste le parole di Madre Teresa: «Ciò che non mi serve, mi pesa»![2] Lasciamo tutti i pesi che ci separano dalla missione e impediscono al profumo della misericordia di raggiungere il volto dei nostri fratelli. Una libbra di nardo è stata capace di impregnare tutto e di lasciare un’impronta inconfondibile.

Non priviamoci del meglio della nostra missione, non spegniamo i battiti dello spirito.

Grazie a voi, Padre Goce e Gabriella: siete stati coraggiosi nella vita! E ai vostri figli Filip, Blagoj, Luca, Ivan, per aver condiviso con noi le vostre gioie e preoccupazioni, del ministero e della vita familiare. E anche il segreto per andare avanti nei momenti difficili che avete dovuto passare. L’unione matrimoniale, la grazia matrimoniale nella vita ministeriale vi ha aiutato ad camminare così, come famiglia.

La vostra testimonianza ha quell’“aroma evangelico” delle prime comunità. Ricordiamo che «nel Nuovo Testamento si parla della “Chiesa che si riunisce nella casa” (cfr 1 Cor 16,19; Rm 16,5; Col 4,15; Fm 2). Lo spazio vitale di una famiglia si poteva trasformare in chiesa domestica, in sede dell’Eucaristia – quante volte hai celebrato l’Eucaristia in casa tua… –, della presenza di Cristo seduto alla stessa mensa. Indimenticabile è la scena dipinta nell’Apocalisse: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (3,20). Così si delinea una casa che porta al proprio interno la presenza di Dio, la preghiera comune e perciò la benedizione del Signore» (Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 15). Così date viva testimonianza di come «la fede non ci allontana dal mondo, ma ci introduce più profondamente in esso» (ibid., 181). Non a partire da quello che a noi piacerebbe fosse, non come “perfetti”, non come immacolati, ma nella precarietà delle nostre vite, delle nostre famiglie unte ogni giorno nella fiducia dell’amore incondizionato che Dio ha per noi. Fiducia che ci porta, come bene ci hai ricordato, Padre Goce, a sviluppare alcune dimensioni tanto importanti quanto dimenticate nella società usurata dalle relazioni frenetiche e superficiali: le dimensioni della tenerezza, della pazienza e della compassione verso gli altri. E mi piacerebbe sottolineare qui l’importanza della tenerezza nel ministero presbiterale e anche nella testimonianza della vita religiosa. C’è il pericolo che quando non si vive in famiglia, quando non c’è il bisogno di accarezzare i propri figli, come Padre Goce, il cuore diventa un po’ “zitello”. E poi, c’è il pericolo che il voto di castità delle suore e anche dei preti celibatari si trasformi in voto di “zitelloni”. Quanto fanno male una suora “zitellona” o un prete “zitellone”! Per questo richiamo alla tenerezza. Oggi ho avuto la grazia di vedere suore con tanta tenerezza: quando sono andato al memoriale di Madre Teresa e ho visto le religiose, con quanta tenerezza curavano i poveri. Per favore: tenerezza. Mai sgridare. Acqua benedetta, mai l’aceto! Sempre con quella dolcezza del Vangelo che sa accarezzare le anime. Riprendendo una parola che ha detto il nostro fratello: lui ha parlato di carrierismo. Quando nella vita sacerdotale, nella vita religiosa entra il carrierismo, il cuore diventa duro, acido, e si perde la tenerezza. Il carrierista o la carrierista ha perso la capacità di accarezzare.

Mi piace sempre pensare a ciascuna famiglia come «icona della famiglia di Nazaret con la sua quotidianità fatta di stanchezze e persino di incubi, come quando dovette soffrire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che tragicamente si ripete ancora oggi in tante famiglie di profughi miserabili e affamati» (ibid., 30). Esse sono capaci, per mezzo della fede accumulata attraverso le lotte quotidiane, di «trasformare una grotta di animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286). I mezzi materiali ci vogliono, sono necessari, ma non sono la cosa più importante. Per questo, non bisogna perdere la capacità di accarezzare, non perdere la tenerezza ministeriale e la tenerezza della consacrazione religiosa.

Grazie di aver manifestato il volto familiare del Dio con noi che non smette di sorprenderci in mezzo alle stoviglie!

Cari fratelli, care sorelle, grazie ancora per questa opportunità ecclesiale di respirare a pieni polmoni. Chiediamo allo Spirito che non cessi di rinnovarci nella missione con la fiducia di sapere che Egli vuole impregnare tutto con la sua presenza.

E anche qui, vorrei ringraziare – tu proverai vergogna, adesso! –vorrei ringraziare uno di voi, sacerdote, padre di famiglia, che ha accettato di fare il traduttore [applauso]

[Canto del Padre Nostro]

[Benedizione]